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Lo strano caso dell’ineguaglianza Americana, di J. Bradford DeLong (Project Syndicate 31 dicembre 2013)

 

J. Bradford DeLong

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DEC 31, 2013 6

The Strange Case of American Inequality

BERKELEY – Unless something goes unexpectedly wrong in 2014, the level of real per capita GDP in the United States will match and exceed its 2007 level. That is not good news.

To see why, consider that, during the two business cycles that preceded the 2007 downturn, the US economy’s real per capita GDP grew at a 2% average annual pace; indeed, for a century or so, the US economy’s real per capita GDP grew at that rate. So US output is now seven years – 14% – below the level that was reasonably expected back in 2007. And there is nothing on the horizon that would return the US economy to – or even near – its growth path before the 2008 financial crisis erupted. The only consolation – and it is a bleak consolation indeed – is that Europe and Japan are doing considerably worse relative to the 2007 benchmark.

The US economy’s annual per capita underperformance in 2014 will thus amount to $9,000. That means $9,000 per person per year in consumer durables not purchased, vacations not taken, investments not made, and so forth. By the end of 2014, the cumulative per capita waste from the crisis and its aftermath will total roughly $60,000.

If we project that forward – with nothing visible to restore the US to its pre-2008 growth path – at the annual real discount rate of 6% that we apply to equity earnings, the future costs are $150,000 per capita. If we use the 1.6% annual real discount rate at which the US Treasury can borrow via 30-year inflation-protected Treasuries, the future per capita costs are $550,000. And if we combine the costs of idle workers and capital during the downturn and the harm done to the US economy’s future growth path, the losses reach 3.5-10 years of total output.

 

 

That is a higher share of America’s productive capabilities than the Great Depression subtracted – and the US economy is 16 times larger than it was in 1928 (5.5 times larger in per capita terms). So, unless something – and it will need to be something major – returns the US to its pre-2008 growth trajectory, future economic historians will not regard the Great Depression as the worst business-cycle disaster of the industrial age. It is we who are living in their worst case.

 

One would think that such a macroeconomic disaster – one that robs the average American family of four of $36,000 per year in useful goods and services, and that threatens to keep Americans poorer than they might have been for decades, if not longer – would focus policymakers’ minds. One would think that America’s leaders would be clambering to formulate policies aimed at returning the economy to its pre-2008 growth path: putting people back to work, cleaning up underwater mortgages, restoring financial markets’ risk-bearing capacity, and boosting investment.

 

 

But no. Part of the reason is that, at the top, there is no crisis. According to the best estimates, the income share of America’s top 10% probably crossed 50% in 2012 for the first time ever, and the 22% income share that went to the top 1% was exceeded only in 2007, 2006, and 1928. The incomes of America’s top 10% are two-thirds higher than those of their counterparts 20 years ago, while the incomes of the top 1% have more than doubled.

Those who fall into the top strata thus regard themselves as doing well in the current US economy. And indeed they are. Only those who spend more time talking to competent macroeconomists than is healthy know that they could be doing even better if the economy were rebalanced at full employment. So the absence of distress among America’s top 10% and its top 1% – and hence political pressure for measures to return the economy to its pre-2008 growth path – is understandable.

 

But, for everyone else – roughly 90% of the US population – there has been no jump in income share relative to ten or 20 years ago to offset what now looks to be a permanent lost decade. On the contrary, the bottom 90% has continued to lose ground.

 

When income inequality began to rise in the 1980’s and 1990’s, those of us who cut our teeth on the long march of North Atlantic history expected to see a political reaction. Democratic politics, we thought, would check the rising power of a largely parasitic economic over-class, especially if its influence caused governments to fail to live up to their commitments to provide full employment with increasing – and increasingly shared – prosperity.

After all, in early-nineteenth-century Britain, growing inequality caused by the Industrial Revolution gave rise to movements for government regulation in the interests of the middle and working classes, and for a rebalancing of real incomes away from rich landlords. Similarly, the Great Depression produced enormous political pressure for reform and change (often for destructive and dangerous change, to be sure, but pressure nonetheless).

 

 

Why can’t America launch similar movements today? To the extent that this has become a valid question, most Americans should be as worried today about the quality of their democracy as they are about the inequality of their incomes.

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo strano caso dell’ineguaglianza Americana.

31 dicembre 2013

Di J. Bradford DeLong

 

BERKELEY – Se qualcosa non andrà inaspettatamente storto nel 2014, il PIL reale procapite degli Stati Uniti eguaglierà e supererà il livello del 2007. Questa è una buona notizia.

Per capire in che senso, si consideri che durante i due cicli economici che hanno preceduto la crisi del 2007 il PIL reale procapite dell’economia americana crebbe ad un ritmo medio annuale del 2%; in effetti, per un secolo o quasi il PIL procapite reale dell’economia degli Stati Uniti è cresciuto a quel ritmo. E non c’è niente all’orizzonte che faccia tornare l’economia americana al suo ritmo di crescita precedente allo scoppio della crisi finanziaria del 2008, e neppure in prossimità di esso. L’unica consolazione – ed è una consolazione davvero sconfortante – è che l’Europa ed il Giappone stanno andando considerevolmente peggio rispetto al punto di riferimento degli Stati Uniti.

Il difetto della prestazione annuale procapite dell’economia americana nel 2014 sarà pari a 9.000 dollari. Questo significa 9.000 dollari per persona all’anno di consumi durevoli non acquistati, di vacanze non fatte, di investimenti non realizzati, e via dicendo. Per la fine del 2014 lo spreco cumulativo procapite derivante dalla crisi e dalle sue conseguenze sarà grosso modo di 60.000 dollari complessivi.

Se proiettiamo in avanti tutto questo – con niente in vista che possa riportare gli Stati Uniti al loro ritmo di crescita precedente al 2008 –  al tasso di sconto reale annuale che applichiamo ai profitti delle azioni del 6%, i costi futuri saranno di 150.000 dollari procapite. Se usiamo il tasso di sconto reale al quale il Tesoro degli Stati Uniti può indebitarsi attraverso i Buoni del Tesoro protetti dall’inflazione, i costi futuri procapite sono pari a 550.000 dollari. E se combiniamo i costi dei lavoratori e del capitale inattivo durante la crisi ed il danno provocato al ritmo della crescita futura dell’economia americana, le perdite raggiungono dai tre anni e mezzo ai dieci anni di produzione complessiva.

Questa è una quota della capacità produttiva dell’America più elevata di quella che fu sottratta dalla Grande depressione – e l’economia degli Stati Uniti è 16 volte più ampia di quello che era nel 1928 (5,5 volte in termini procapite). Dunque, almeno che qualcosa non restituisca agli Stati Uniti la traiettoria di crescita precedente al 2008 – e dovrebbe essere qualcosa di rilevante – gli storici dell’economia del futuro non considereranno la Depressione degli Anni Trenta come  il peggior disastro derivante dal ciclo economico dell’epoca industriale. Il caso peggiore è quello che stiamo vivendo.

Si sarebbe portati a pensare che un tale disastro macroeconomico – qualcosa che sottrae alla famiglia media americana un quarto di 36,000 dollari all’anno [1] di beni utili e di servizi, e che minaccia di tenere gli americani più poveri di quanto non siano stati per decenni – dovrebbe provocare una concentrazione dei pensieri degli operatori politici. Si penserebbe che i leaders americani stiano facendo i salti mortali per formulare politiche rivolte a far tornare l’economia ai suoi ritmi di crescita anteriori al 2008; rimettendo la gente al lavoro, riassestando i mutui che non si riesce a ripagare, ripristinando la capacità di sopportare i rischi da parte dei mercati finanziari ed incoraggiando gli investimenti.

Invece no. In parte il motivo è che, tra i più ricchi, non c’è crisi. Secondo le stime migliori, la partecipazione al reddito del 10% degli americani più ricchi ha probabilmente oltrepassato il 50% nel 2012, per la prima volta da sempre, ed il 22% di quota di reddito percepita dall’1 per cento dei ricchissimi fu superiore soltanto nel 2007, nel 2006 e nel 1928. I redditi del 10 per cento di americani ricchi sono superiori di due terzi dei loro omologhi di venti anni fa, mentre i redditi dell’1 per cento dei ricchissimi hanno più che raddoppiato quel livello.

Quelli che ricadono negli strati superiori, quindi, ritengono di star bene nella attuale economia degli Stati Uniti. E in effetti è così. Solo coloro che passano più tempo di quanto non sia consigliabile a parlare con macroeconomisti competenti sanno che avrebbero fatto ancora meglio se l’economia fosse stata riequilibrata alle condizioni di piena occupazione. Dunque, l’assenza di angoscia tra il 10% dei ricchi e l’1% dei ricchissimi di America – e di conseguenza l’assenza di una pressione politica per far tornare l’economia al ritmo di crescita precedente il 2008 – è comprensibile.

Ma per tutti gli altri – grosso modo il 90% della popolazione degli Stati Uniti – non c’è stato alcun salto nella partecipazione al reddito in relazione a dieci o a venti anno orsono, tale da bilanciare quello che oggi constatano essere un decennio perduto che prosegue [2]. Al contrario, il 90 per cento di coloro che stanno nella posizione più basse hanno continuato a perdere terreno.

Quando l’ineguaglianza cominciò a crescere negli anni ’80 e ’90, quelli tra noi che si fecero le ossa sulla lunga marcia della storia del Nord Atlantico si aspettavano di vedere una reazione politica. La politica democratica, pensavamo, avrebbe arrestato il potere crescente di una classe economica largamente parassitaria, specialmente se la sua influenza avesse provocato nei governi l’incapacità di corrispondere ai loro impegni a garantire una piena occupazione  con una prosperità crescente, e sempre più condivisa.

Dopo tutto, nell’Inghilterra della fine del diciannovesimo secolo, la crescente ineguaglianza provocata dalla Rivoluzione Industriale aveva dato una spinta ai movimenti per la regolamentazione della cosa pubblica a favore delle classi medie e dei lavoratori, e per un riequilibrio dei redditi reali rispetto ai ricchi proprietari terrieri.  In modo simile, la Grande Depressione aveva prodotto una enorme spinta verso le riforme ed il cambiamento (spesso per un cambiamento pericoloso e distruttivo, ma purtuttavia una spinta).

Perché l’America non può mettere in pista movimenti simili al giorno d’oggi? Nella misura in cui questa è diventata un domanda legittima, gran parte degli americani dovrebbero oggi essere altrettanto preoccupati della qualità della loro democrazia di quanto lo sono per l’ineguaglianza dei loro redditi.



[1] In realtà non capisco. Applico la stima precedente di un difetto di 9.000 dollari all’anno, che corrisponde ad un quarto di 36.000 dollari. Ma letteralmente sarebbe “di quattro di 36.000 dollari”.

[2] L’espressione “decennio perduto” deriva dalla esperienza giapponese negli anni ’80 e ’90. Ma anche i decenni trascorrono, tant’è che per il Giappone siamo al ventennio; di qua l’espressione di un “decennio perduto che continua”.

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