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Non c’è più la febbre per la finanza pubblica (New York Times 29 dicembre 2013)

 

Fiscal Fever Breaks

By PAUL KRUGMAN
Published: December 29, 2013

In 2012 President Obama, ever hopeful that reason would prevail, predicted that his re-election would finally break the G.O.P.’s “fever.” It didn’t.

But the intransigence of the right wasn’t the only disease troubling America’s body politic in 2012. We were also suffering from fiscal fever: the insistence by virtually the entire political and media establishment that budget deficits were our most important and urgent economic problem, even though the federal government could borrow at incredibly low interest rates. Instead of talking about mass unemployment and soaring inequality, Washington was almost exclusively focused on the alleged need to slash spending (which would worsen the jobs crisis) and hack away at the social safety net (which would worsen inequality).

 

 

So the good news is that this fever, unlike the fever of the Tea Party, has finally broken.

True, the fiscal scolds are still out there, and still getting worshipful treatment from some news organizations. As the Columbia Journalism Review recently noted, many reporters retain the habit of “treating deficit-cutting as a non-ideological objective while portraying other points of view as partisan or political.” But the scolds are no longer able to define the bounds of respectable opinion. For example, when the usual suspects recently piled on Senator Elizabeth Warren over her call for an expansion of Social Security, they clearly ended up enhancing her stature.

 

What changed? I’d suggest that at least four things happened to discredit deficit-cutting ideology.

First, the political premise behind “centrism” — that moderate Republicans would be willing to meet Democrats halfway in a Grand Bargain combining tax hikes and spending cuts — became untenable. There are no moderate Republicans. To the extent that there are debates between the Tea Party and non-Tea Party wings of the G.O.P., they’re about political strategy, not policy substance.

Second, a combination of rising tax receipts and falling spending has caused federal borrowing to plunge. This is actually a bad thing, because premature deficit-cutting damages our still-weak economy — in fact, we’d probably be close to full employment now but for the unprecedented fiscal austerity of the past three years. But a falling deficit has undermined the scare tactics so central to the “centrist” cause. Even longer-term projections of federal debt no longer look at all alarming.

 

 

Speaking of scare tactics, 2013 was the year journalists and the public finally grew weary of the boys who cried wolf. There was a time when audiences listened raptly to forecasts of fiscal doom — for example, when Erskine Bowles and Alan Simpson, co-chairmen of Mr. Obama’s debt commission, warned that a severe fiscal crisis was likely within two years. But that was almost three years ago.

 

Finally, over the course of 2013 the intellectual case for debt panic collapsed. Normally, technical debates among economists have relatively little impact on the political world, because politicians can almost always find experts — or, in many cases, “experts” — to tell them what they want to hear. But what happened in the year behind us may have been an exception.

For those who missed it or have forgotten, for several years fiscal scolds in both Europe and the United States leaned heavily on a paper by two highly-respected economists, Carmen Reinhart and Kenneth Rogoff, suggesting that government debt has severe negative effects on growth when it exceeds 90 percent of G.D.P. From the beginning, many economists expressed skepticism about this claim. In particular, it seemed immediately obvious that slow growth often causes high debt, not the other way around — as has surely been the case, for example, in both Japan and Italy. But in political circles the 90 percent claim nonetheless became gospel.

 

Then Thomas Herndon, a graduate student at the University of Massachusetts, reworked the data, and found that the apparent cliff at 90 percent disappeared once you corrected a minor error and added a few more data points.

Now, it’s not as if fiscal scolds really arrived at their position based on statistical evidence. As the old saying goes, they used Reinhart-Rogoff the way a drunk uses a lamppost — for support, not illumination. Still, they suddenly lost that support, and with it the ability to pretend that economic necessity justified their ideological agenda.

Still, does any of this matter? You could argue that it doesn’t — that fiscal scolds may have lost control of the conversation, but that we’re still doing terrible things like cutting off benefits to the long-term unemployed. But while policy remains terrible, we’re finally starting to talk about real issues like inequality, not a fake fiscal crisis. And that has to be a move in the right direction.

 

Non c’è più la febbre per la finanza pubblica, di Paul Krugman

New York Times 29 dicembre 2013

 

Nel 2012 il Presidente Obama, sempre speranzoso che la ragione avrebbe prevalso, prevedeva che la sua rielezione avrebbe finalmente interrotto la “febbre” del Partito Repubblicano. Non è stato così.

Ma l’intransigenza della destra non è stata l’unica malattia che nel 2012 ha recato danni al corpo politico dell’America. Abbiamo anche sofferto di una febbre della finanza pubblica: l’insistenza da parte praticamente dell’intero establishment politico e mediatico che i deficit di bilancio erano il nostro più importante e più urgente problema economico, anche se il Governo può indebitarsi a tassi di interesse incredibilmente bassi. Invece di parlare della disoccupazione di massa e della ineguaglianza che sale alle stelle, Washington si è quasi esclusivamente concentrata sulla necessità di abbattere la spesa pubblica (che avrebbe peggiorato la crisi del lavoro) e demolire progressivamente il sistema della sicurezza sociale (che avrebbe aumentato l’ineguaglianza).

Dunque la buona notizia è che questa febbre, diversamente da quella del Tea Party, si è finalmente interrotta.

E’ vero, le Cassandre della finanza pubblica sono ancora in giro, e continuano ad ottenere un trattamento di grande rispetto da parte di qualche gruppo nell’informazione. Come ha osservato di recente la Columbia Journalism Review, molti cronisti mantengono l’abitudine di “trattare il taglio dei deficit come un obbiettivo non ideologico e al tempo stesso di presentare gli altri punti di vista come di parte o politici”. Ma le Cassandre non sono più nelle condizioni di stabilire i confini delle opinioni rispettabili. Ad esempio, quando i soliti noti di recente si sono accaniti sulla Senatrice Elizabeth Warren a proposito della sua richiesta di una espansione della Previdenza Sociale, chiaramente hanno finito per accrescere la sua statura.

Che cosa è cambiato? Indicherei almeno quattro fattori che hanno finito con lo screditare l’ideologia del taglio del deficit.

Il primo, il presupposto politico del “centrismo” – secondo il quale i repubblicani moderati vorrebbero incontrare a mezza strada i democratici, in una Grande Intesa che metta assieme incrementi fiscali e tagli alla spesa pubblica – è diventato insostenibile. Non ci sono repubblicani moderati. Nella misura in cui ci sono discussioni nel Partito repubblicano tra l’ala del Tea Party e quella non del Tea Party, sono sulle strategie politiche, non sulla sostanza dei programmi.

Il secondo, una combinazione di accresciute entrate dal fisco e di diminuzione della spesa è stata all’origine di un crollo dell’indebitamento federale. Questa è effettivamente una pessima cosa, perché i tagli al deficit prematuri danneggiano la nostra ancora debole economia – in sostanza, probabilmente saremmo vicini alla piena occupazione se non fosse per l’austerità della finanza pubblica senza precedenti degli ultimi tre anni. Allo stesso tempo un deficit in calo ha indebolito gli espedienti allarmisti così indispensabili alla causa dei “centristi”. Persino le previsioni sul più lungo periodo del debito federale non appaiono più affatto allarmanti.

Parlando di espedienti allarmistici, il 2013 è stato l’anno nel quale i giornalisti e l’opinione pubblica sono finalmente arrivati a stancarsi dei personaggi che gridano al lupo. C’era un tempo nel quale il pubblico ascoltava rapito le previsioni su un disastro delle finanze pubbliche – ad esempio, quando Erskine Bowles ed Alan Simpson, i copresidenti della commissione sul debito di Obama, mettevano in guardia sul fatto che una grave crisi finanziaria era probabile nel giro di due anni. Ma questo succedeva circa tre anni fa.

Infine, nel corso del 2013 è crollata la argomentazione  dotta per il panico da debito. Di solito, i dibattiti tecnici tra gli economisti hanno un impatto relativamente modesto sul mondo politico, giacché gli uomini politici possono trovare quasi sempre gli esperti – o, in molti casi, i cosiddetti esperti – che raccontano loro quello che vogliono sentirsi dire. Ma quello che è accaduto nell’anno alle nostre spalle è stata una eccezione.

Per coloro ai quali fosse sfuggito, o che se ne fossero dimenticati, per vari anni le Cassandre della finanza pubblica sia in Europa che negli Stati Uniti sono stati pesantemente dipendenti da uno studio di due economisti che godevano di grande rispetto, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, i quali suggerivano che il debito statale ha effetti pesanti sulla crescita quando eccede il 90 per cento del PIL. Sin dall’inizio, molti economisti espressero scetticismo su questo argomento. In particolare, apparve subito evidente che è una lenta crescita che spesso provoca il debito elevato, non il contrario – come certamente è accaduto, ad esempio, sia in Giappone che in Italia. Ma nei circoli della politica l’argomento del 90 per cento divenne nondimeno un vangelo.

Poi Thomas Herndon, uno studente dell’Università del Massachusetts, rielaborò i dati, e scoprì che il precipizio al 90 per cento scompariva una volta che si correggeva un errore marginale e si aggiungeva qualche riferimento statistico in più.

Ora, le Cassandre del debito non erano pervenute alla loro posizione basandosi su prove statistiche. Come dice un vecchio proverbio, avevano usato Reinhart e Rogoff come un ubriaco usa un lampione – per sostegno, non per illuminazione. Eppure esse hanno perduto quel sostegno all’improvviso, e con esso la possibilità di far finta che una necessità economica giustificasse la loro agenda ideologica.

Ma cose di questo genere hanno qualche importanza? Si potrebbe ritenere che non l’abbiano – dato che  le Cassandre della finanza pubblica possono aver perso il controllo del dibattito, ma sono ancora in grado di fare cose terribili come tagliare i sussidi ai disoccupati di lungo periodo. Ma se la politica continua a far paura, stiamo finalmente cominciando a parlare di cose vere come la disuguaglianza, non di false crisi della finanza pubblica. E questo non può che essere uno spostamento nella giusta direzione.

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