December 25, 2013, 11:38 am
Yes, it’s Christmas — but the family events won’t begin for hours yet, and I want to follow up on a train of thought I started yesterday.
I pointed out, following on a suggestion by Mike Konczal, that the continuing dire state of the labor market enhances the bargaining position of employers, increasing their power. But can this effect actually mean that employers are better off in a somewhat depressed economy than they would be in a boom?
A lot people have the instinctive reaction that it can’t be possible — that businesses would prefer to have stronger demand, even if it means that they have to pay their workers more and treat them better. And maybe that’s true. But it’s by no means an open-and-shut case.
Suppose (as I am, in fact, supposing) that we have in mind some kind of efficiency wage story, in which the effort employers can extract from their employees depends in part on the state of the labor market. So we can think of each individual employer as having a profit function F(N,U, …) where N is the firm’s own number of employees, U is the overall unemployment rate, and there’s a bunch of other stuff that would bulk this out into a full-size model. Other things equal, firms will choose the level of N that maximizes their profits.
But in so doing, they will be ignoring the effect of their collective hiring decisions on the unemployment rate. Indeed, any individual firm has a negligible effect on U. But collectively they in effect determine U — and a high level of U, we’ve been arguing, increases their power over workers and hence their profits. Again, other things equal.
So a slack economy could in effect serve as a coordinating device for firms; one way to think about it is that it keeps firms from competing too hard for workers, enabling them to exert more monopsony power. This effect would have to be weighed against the direct adverse effect of slack demand on profitability, but there’s no rule saying that firms have to do worse in a depressed economy; they could actually do better. (I’m going to try some formal modeling on all this, but if anyone else wants to jump in, be my guest.)
What about actual experience in this depressed economy? Well, that’s the motivating example. You see, from a profits point of view it’s not a depressed economy at all. Look at profits versus compensation of employees (that’s wages and benefits combined) since the slump began at the end of 2007; both are expressed as indexes with 2007Q4=100:
Profits took a hit during the financial crisis, but have soared since then, and are now 60 percent above pre-crisis levels; meanwhile compensation has grown hardly at all, and indeed fallen in real per capita terms.
The point is that we have a depressed economy for workers, but not at all for corporations. How much of this is due to the bargaining-power issue is obviously something we don’t know, but the disconnect between the economy at large and profits is undeniable. A depressed economy may or may not actually be good for corporations, but it evidently doesn’t hurt them much.
Now, about the political economy: I don’t think we have to believe in a cabal of CEOs trying to keep the economy depressed. All that we need is for the big money to find the state of the economy OK from its point of view, so that politicians who listen to that money lose interest in the unemployed. You can round up a who’s who of CEOs for Fix the Debt; you can’t even get started on a power-list drive to Fix the Economy.
And so it remains unfixed.
Perché alle imprese potrebbe non dispiacere una moderata depressione
Sì, è Natale – ma gli eventi familiari non avranno inizio se non tra qualche ora, ed io vorrei proseguire con una serie di riflessioni che ho avviato ieri.
Ho sottolineato, facendo seguito ad una suggestione di Mike Konczal, che la prolungata tremenda condizione del mercato del lavoro rafforza la posizione contrattuale dei datori di lavoro, accrescendo il loro potere. Ma questa conseguenza può effettivamente significare che gli impresari si trovino più a loro agio in una economia depressa piuttosto che in un periodo di espansione?
Molte persone istintivamente reagiscono dicendo che non è possibile – che le imprese preferirebbero avere una domanda più forte, anche se questo significa che dovrebbero pagare di più e trattare meglio i loro lavoratori. E può darsi che sia vero. Ma questo non significa che sia una cosa scontata.
Supponiamo (come io in effetti suppongo) di avere in mente un qualche racconto di salari di rendimento [1], nel quale lo sforzo che gli impresari possono ottenere dai loro occupati dipende in parte dalla condizione del mercato del lavoro. Possiamo dunque ragionare di ogni datore di lavoro come se avesse una funzione di profitto F (N, U, …), laddove N è il numero degli occupati della propria impresa, U è il tasso generale di disoccupazione e ci sono un mucchio di altre cose che darebbero rilevanza a questo in un modello di dimensioni naturali. A parità delle altre condizioni, le imprese sceglieranno il livello di N che massimizza i loro profitti.
Ma così facendo, esse ignorerebbero l’effetto delle loro collettive decisioni di assunzione sul tasso di disoccupazione. In effetti, una qualsiasi impresa individuale ha un effetto trascurabile su U. Ma collettivamente esse determinano U – e un alto livello di U, noi stiamo sostenendo, accresce il loro potere sui lavoratori e di conseguenza i loro profitti. Sempre, a parità delle altre condizioni.
Dunque, una economia fiacca potrebbe in effetti servire come un congegno di coordinamento per le imprese: si può ad esempio pensare che questo le esenti dal competere troppo duramente per i lavoratori, rendendole capaci di esercitare un maggior potere di monopsonio [2]. Questo effetto dovrebbe essere valutato a fronte della diretta conseguenza negativa della debole domanda sulla capacità di fare profitti, ma non c’è nessuna regola che costringe a pensare che le imprese debbano far peggio in una economia depressa; in verità esse potrebbero comportarsi meglio (ho intenzione di cercare qualche formale modello su tutto questo, ma se qualcun altro vuole essere della partita, è il benvenuto).
Che dire della attuale esperienza a fronte di questa economia depressa? Ebbene, è proprio quello l’esempio ispiratore. Vedete, da un punto di vista dei profitti non c’è affatto una economia depressa. Si guardi ai profitti a fronte dei compensi degli occupati (cioè, dei salari e dei sussidi considerati assieme) dal momento in cui è cominciata la crisi alla fine del 2007; sono entrambi espressi come indici con il quarto trimestre del 2007 fatto pari a 100:
I profitti presero un colpo durante la crisi finanziaria, ma sono schizzati in alto a partire da lì, ed ora sono al 60 per cento sopra i livelli precedenti alla crisi; nel frattempo i compensi sono proprio saliti a fatica, in effetti sono caduti in termini reali procapite.
Il punto è che abbiamo una economia depressa per i lavoratori, ma niente affatto depressa per le imprese. Quanto questo sia dovuto alla questione del potere contrattuale è qualcosa che naturalmente non conosciamo, ma la disconnessione tra l’economia in generale ed i profitti è innegabile. In effetti, una economia depressa può essere una cosa più o meno negativa per le imprese, ma evidentemente non le danneggia molto.
Ora, tornando alla politica economica: non credo che dobbiamo credere in un complotto degli amministratori delegati per mantenere l’economia depressa. Tutto quello che ci serve è immaginare che il grande capitale cerchi una condizione dal suo punto di vista favorevole dell’economia, cosicché i politici che ascoltano quel punto di vista perdano interesse sui disoccupati. E’ sufficiente che mettiate insieme una lista degli amministratori delegati favorevoli alla associazione “Riparare il debito” [3]; potete anche fare a meno di pensare di partire con un gruppo di pressione che spinga nella direzione di “riparare l’economia”.
E in tal modo l’economia non viene riparata.
[1] Nell’economia del lavoro, l’ipotesi del ‘salario di rendimento’ sostiene che i salari, almeno in alcuni mercati, si determinano in un modo che non è quello di un mercato in equilibrio. In particolare, essa si riferisce all’incentivo per gli imprenditori a pagare i loro occupati maggiormente rispetto al salario di un mercato in equilibrio, al fine di incrementare la loro produttività o efficienza, o di ridurre i costi connessi con il turn-over, nelle industrie nelle quali i costi per rimpiazzare il lavoro sono elevati. La incrementata produttività del lavoro e/o i minori costi compensano i salari più alti.
[2] Il termine monopsonio designa una particolare forma di mercato caratterizzata dalla presenza di un solo acquirente a fronte di una pluralità di venditori. Il vocabolo trae le proprie origini dal greco μονος monos (“solo”) e ὀψωνία opsonia (“acquisto”). Sebbene la pratica di monopsonista sia raramente riscontrabile nella sua forma pura, non è raro osservarla in talune situazioni localizzate. In alcune aree, una grande azienda industriale può creare un distretto di piccole aziende che la forniscono di componenti, ma che hanno per definizione un unico e solo acquirente. In tale forma si ricreano le condizioni di monopsonio. (Wikipedia)
[3] Appunto, una sorta di ‘generale’ lobby politica – comporta da impresari, economisti, commentatori e politici – che si esprime in quella associazione denominata “Riparare (riformare, correggere, rimediare etc) il debito”.
By mm
E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"