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Perché l’ineguaglianza è importante, di Paul Krugman (New York Times 15 dicembre 2013)

 

Why Inequality Matters

By PAUL KRUGMAN
Published: December 15, 2013

Rising inequality isn’t a new concern. Oliver Stone’s movie “Wall Street,” with its portrayal of a rising plutocracy insisting that greed is good, was released in 1987. But politicians, intimidated by cries of “class warfare,” have shied away from making a major issue out of the ever-growing gap between the rich and the rest.

 

That may, however, be changing. We can argue about the significance of Bill de Blasio’s victory in the New York mayoral race or of Elizabeth Warren’s endorsement of Social Security expansion. And we have yet to see whether President Obama’s declaration that inequality is “the defining challenge of our age” will translate into policy changes. Still, the discussion has shifted enough to produce a backlash from pundits arguing that inequality isn’t that big a deal.

They’re wrong.

The best argument for putting inequality on the back burner is the depressed state of the economy. Isn’t it more important to restore economic growth than to worry about how the gains from growth are distributed?

 

Well, no. First of all, even if you look only at the direct impact of rising inequality on middle-class Americans, it is indeed a very big deal. Beyond that, inequality probably played an important role in creating our economic mess, and has played a crucial role in our failure to clean it up.

Start with the numbers. On average, Americans remain a lot poorer today than they were before the economic crisis. For the bottom 90 percent of families, this impoverishment reflects both a shrinking economic pie and a declining share of that pie. Which mattered more? The answer, amazingly, is that they’re more or less comparable — that is, inequality is rising so fast that over the past six years it has been as big a drag on ordinary American incomes as poor economic performance, even though those years include the worst economic slump since the 1930s.

 

 

And if you take a longer perspective, rising inequality becomes by far the most important single factor behind lagging middle-class incomes.

Beyond that, when you try to understand both the Great Recession and the not-so-great recovery that followed, the economic and above all political impacts of inequality loom large.

It’s now widely accepted that rising household debt helped set the stage for our economic crisis; this debt surge coincided with rising inequality, and the two are probably related (although the case isn’t ironclad). After the crisis struck, the continuing shift of income away from the middle class toward a small elite was a drag on consumer demand, so that inequality is linked to both the economic crisis and the weakness of the recovery that followed.

 

In my view, however, the really crucial role of inequality in economic calamity has been political.

In the years before the crisis, there was a remarkable bipartisan consensus in Washington in favor of financial deregulation — a consensus justified by neither theory nor history. When crisis struck, there was a rush to rescue the banks. But as soon as that was done, a new consensus emerged, one that involved turning away from job creation and focusing on the alleged threat from budget deficits.

What do the pre- and postcrisis consensuses have in common? Both were economically destructive: Deregulation helped make the crisis possible, and the premature turn to fiscal austerity has done more than anything else to hobble recovery. Both consensuses, however, corresponded to the interests and prejudices of an economic elite whose political influence had surged along with its wealth.

 

This is especially clear if we try to understand why Washington, in the midst of a continuing jobs crisis, somehow became obsessed with the supposed need for cuts in Social Security and Medicare. This obsession never made economic sense: In a depressed economy with record low interest rates, the government should be spending more, not less, and an era of mass unemployment is no time to be focusing on potential fiscal problems decades in the future. Nor did the attack on these programs reflect public demands.

 

Surveys of the very wealthy have, however, shown that they — unlike the general public — consider budget deficits a crucial issue and favor big cuts in safety-net programs. And sure enough, those elite priorities took over our policy discourse.

Which brings me to my final point. Underlying some of the backlash against inequality talk, I believe, is the desire of some pundits to depoliticize our economic discourse, to make it technocratic and nonpartisan. But that’s a pipe dream. Even on what may look like purely technocratic issues, class and inequality end up shaping — and distorting — the debate.

So the president was right. Inequality is, indeed, the defining challenge of our time. Will we do anything to meet that challenge?

 

Perché l’ineguaglianza è importante, di Paul Krugman

New York Times 15 dicembre 2013

 

L’ineguaglianza crescente non è una preoccupazione nuova. Il film “Wall Street” di Oliver Stone, col suo ritratto di una plutocrazia in ascesa che professa che la cupidigia è un bene, fu messo in circolazione nel 1987. Ma gli uomini politici, intimiditi dai lamenti sulla “lotta di classe”, si sono ritratti dal farlo diventare un tema importante, nell’ambito della sempre più grande differenza tra i ricchi e il resto della popolazione.

Tuttavia, forse qualcosa sta cambiando. Possiamo dedurlo dalla vittoria di Bill DeBlasio nella corsa a Sindaco di New York e dall’appoggio di Elizabeth Warren ad un potenziamento della Previdenza Sociale. E dobbiamo anche capire se la dichiarazione del Presidente Obama, secondo la quale l’ineguaglianza è “la sfida che caratterizza la nostra epoca”, si tradurrà in cambiamenti delle politiche. Eppure, la discussione si è spostata a tal punto da provocare una vibrante reazione da parte di quei  commentatori che sostengono che l’ineguaglianza non sarebbe un gran problema.

Hanno torto.

Il migliore argomento per relegare l’ineguaglianza in una posizione di secondo piano è la condizione di depressione dell’economia. Non è più importante ripristinare la crescita economica che preoccuparsi di come i vantaggi della crescita sono distribuiti?

Ebbene, no. In primo luogo, se anche ci si ferma a constatare l’impatto diretto della crescente ineguaglianza sugli americani di classe media, si tratta in effetti di un grande tema. Oltre a ciò, l’ineguaglianza ha probabilmente giocato un ruolo importante nel determinare il disastro della nostra economia, ed ha giocato un ruolo cruciale nella nostra incapacità di fare pulizia.

Cominciamo con i dati. In media, gli americani risultano un po’ più poveri oggi di quello che erano prima della crisi economica. Per il 90 per cento delle famiglie che sta più in basso, questo impoverimento è dipeso sia da una riduzione della torta che dalla quota di quella torta che si è ristretta. Che cosa ha pesato di più? La risposta, sorprendentemente, è che  quei dati sono più o meno comparabili – ovvero, l’ineguaglianza sta crescendo così rapidamente che, in riferimento ai sei anni passati, essa è stata un grande prelievo sia sui redditi dell’americano medio che sulle prestazioni economiche della povera gente, quantunque quegli anni comprendano la peggiore caduta dell’economia dagli anni ’30.

E se considerate una prospettiva più lunga, l’ineguaglianza crescente diventa di gran lunga il più importante fattore singolo che sta dietro il ristagno dei redditi delle classi medie.

Oltre a ciò, quando vi sforzate di comprendere sia la Grande Recessione che la non altrettanto grande ripresa che ne è seguita, vi trovate dinanzi gli impatti economici e soprattutto politici dell’ineguaglianza.

Al giorno d’oggi è generalmente condivisa l’idea che il debito crescente delle famiglie contribuì a determinare le condizioni per la crisi economica; questa crescita del debito coincise con una maggiore ineguaglianza, e le due cose probabilmente erano in rapporto (sebbene non sia una tesi indiscutibile). Dopo l’esplosione della crisi, il continuo spostamento del reddito dalla classe media al una piccola élite comportò una sottrazione alla domanda di consumi, cosicché l’ineguaglianza risulta essere in rapporto sia con la crisi economica che con la debolezza della ripresa che è seguita.

Dal mio punto di vista, tuttavia, il ruolo realmente cruciale dell’ineguaglianza nel disastro dell’economia è stato sul piano politico.

Negli anni precedenti alla crisi ci fu a Washington una rilevante unanimità dei due schieramenti a favore della deregolamentazione del sistema finanziario – un consenso che non era giustificato né dalla teoria né dalla storia. Quando la crisi scoppiò, ci fu la corsa a salvare le banche. Ma, una volta provveduto, emerse un nuovo consenso, che riguardò il volgere le spalle alla creazione di posti di lavoro ed il concentrarsi sulla pretesa minaccia dei deficit di bilancio.

Cosa ebbero davvero in comune quei due consensi, prima e dopo la crisi? Erano entrambi distruttivi dal punto di vista economico: la deregolamentazione contribuì a rendere la crisi possibile, ed il passaggio prematuro alla austerità della finanza pubblica, più di ogni altra cosa è servito a far arrancare la ripresa. Entrambi quei consensi, tuttavia, rispondevano agli interessi ed ai pregiudizi di una élite economica la cui influenza politica è cresciuta di pari passo con la sua ricchezza.

Questo è particolarmente chiaro se cerchiamo di comprendere per quale ragione a Washington, nel mezzo di una perdurante crisi di posti di lavoro, i tagli alla Previdenza Sociale ed a Medicare siano diventati in qualche modo una ossessione. Essa non ha mai avuto senso dal punto di vista economico: in una economia depressa con i tassi di interesse ai minimi storici, il governo dovrebbe spendere di più, non di meno, ed un’epoca di disoccupazione di massa non è il momento nel quale ci si concentra sui possibili problemi della finanza pubblica dei decenni a venire. Né l’attacco a quei programmi riflette in nessun modo una richiesta della opinione pubblica.

I sondaggi tra la popolazione più ricca, tuttavia, hanno mostrato che – diversamente dalla opinione pubblica generale – essi considerano i deficit di bilancio un tema cruciale e sono favorevoli a grandi tagli nei programmi della sicurezza sociale. Ed è abbastanza evidente che le priorità di quelle élites dominano il dibattito politico.

 La qualcosa mi induce ad una considerazione finale. Sono convinto che, sotto alcune delle violente reazioni al tema dell’ineguaglianza, ci sia il desiderio di alcuni commentatori di depoliticizzare il nostro dibattito politico, facendolo diventare tecnocratico ed immune da partigianerie. Ma è una illusione. Persino su quelli che potrebbero sembrare temi meramente tecnici, le classi e l’ineguaglianza finiscono col modellare – e distorcere – il dibattito.

Dunque, il Presidente ha avuto ragione [1]. In effetti, l’ineguaglianza è la sfida che segna la nostra epoca. Faremo qualcosa per corrispondere a quella sfida?



[1] Il riferimento è ad un recente discorso di Obama, che Krugman aveva commentato nell’articolo sul New York Times del 5 dicembre.

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