January 25, 2014, 2:32 pm
Noah Smith reminds us of a quarter-century-old diatribe by Robert Barro against the New Keynesian economics, which is notable for its bitterness. You can sort of see why: people like Barro had triumphantly declared Keynes dead a decade earlier, and were evidently horrified to see even a mild version of Keynesian ideas making a comeback.
But what’s also striking is Barro’s evident inability to understand why these ideas didn’t shrivel up and die the way they were supposed to. His only answer was politics – leftists looking for rationales for government intervention – which is kind of funny when you realize that in its early days New Keynesian economics included among its leading lights Greg Mankiw and John Taylor. Also, the kind of intervention under discussion – monetary policy – was hardly the stuff of Big Government.
So why did so many macroeconomists feel that they needed to resurrect something Keynesian in feel? Don’t tell anyone, but they were looking at this thing called evidence.
Just an aside – Noah seems to me to have a blind spot here, an urge toward nihilism on the question of evidence in macro. I don’t really see why. The evidence that, at the very least, we don’t live in a classical world is very strong, and in any normal science would long have been considered conclusive.
Let’s ask what the debate in the 80s and 90s was about. It wasn’t about fiscal policy, which only came back into central focus after we hit the zero lower bound. Instead, it was about monetary policy: whether actions by central banks could drive economic fluctuations, or whether these were all real shocks of some kind. Keynesian models (including the monetarist subclass, which isn’t really very distinct in content as opposed to attitude) argue that money has real effects because some wages and/or prices are sticky in nominal terms. (This is not the same thing as arguing that increased price flexibility would help end recessions – I’ve written about that before, but just leave that on the side right now.)
So, what evidence might you look for on the proposition that monetary policy can drive the real economy? You could look for direct evidence of the asserted real effect – preferably in the form of natural experiments, where there was a clear change in policy and you could track the outcome. Alternatively or additionally, you could look for evidence of nominal stickiness.
And by the mid-1980s there was already overwhelming evidence of both kinds. Romer and Romer hadn’t yet published their classic event-study demonstration that money matters, but as they said, their methodology was largely based on the work of a guy named Milton Friedman. And the mother of all Romer-Romer natural experiments took place when Paul Volcker first tightened policy to break the back of inflation, then loosened it when he thought we had suffered enough; the results – the worst recession since the 30s, followed by a roaring recovery – were pretty decisive. I remember, during our time at the CEA in 1982-3, someone making a new classical argument, and Larry Summers saying something like “aren’t 12 million unemployed enough reason to stop listening to this nonsense?”
Meanwhile, on nominal stickiness: there was the evidence from real exchange rate behavior, where nominal and real rates not only moved in tandem, but real-rate behavior changed totally when the exchange rate regime changed. And there was clear evidence from surveys both that there was a spike in the distribution of wage changes at zero and that employers believed that nominal wage cuts were very costly for morale.
All of this evidence has, of course, only grown stronger since.
Seriously: if this were a normal scholarly field, can you imagine a large part of the profession not only ignoring this evidence but doing all it could to excommunicate anyone trying to face reality? And no, I’m not engaged in hyperbole: remember, it was Ken Rogoff, not me, who wrote about bearing the scars of “new neoclassical repression.”
So my take on macro is that we have plenty of evidence about what kind of approach works – and that approach really does work, giving lots of useful guidance. In fact, the empirical evidence for basic macro propositions is better than that for most of micro! The problem is that so many macroeconomists refuse to see the obvious.
La divisione nella teoria economica: nessuno è così cieco (come chi non vuol vedere)
Noah Smith ci ricorda la polemica di venticinque anni orsono di Robert Barro contro l’economia neo keynesiana, che fu notevole per la sua asprezza. Potete in qualche modo constatarne la ragione: persone come Barro avevano dichiarato in modo trionfalistico Keynes morto e sepolto un decennio prima, ed erano evidentemente inorridite nel vedere persino una versione edulcorata delle idee keynesiane tornare sulla scena.
Ma era anche stupefacente l’evidente incapacità di Barro di comprendere il motivo per il quale quelle idee non si erano esaurite e non erano scomparse come si era supposto. La sua sola risposta fu in termini politici – i progressisti cercavano argomenti per l’intervento dello Stato – la qualcosa era abbastanza buffa se si considera che nel suo primo periodo l’economia neo keynesiana includeva tra le sue muse ispiratrici Greg Mankiw e John Taylor. Inoltre, il tipo di intervento del quale si discuteva – la politica monetaria – non aveva proprio che fare con posizioni stataliste.
Perché dunque tanti economisti sentirono di aver bisogno di resuscitare qualcosa della sensibilità keynesiana? Non ditelo in giro, ma dipese dal fatto che stavano osservando quel genere di cose che si chiamano fatti.
Solo un inciso – mi pare che in questo caso Noah finisca in un punto cieco, una propensione al nichilismo sul tema del ruolo delle prove in economia. Non capisco proprio perché. La prova che, quantomeno, non viviamo in un mondo classico è molto chiara, in una scienza normale sarebbe da tempo stata considerata definitiva.
Chiediamoci che cosa riguardasse il dibattito negli anni ’80 e ’90. Non riguardava la politica della finanza pubblica, che è tornata al centro dell’attenzione soltanto dopo che abbiamo toccato il limite inferiore dello zero [1]. Piuttosto riguardava la politica monetaria: se le azioni da parte delle banche centrali potevano provocare fluttuazioni economiche, o se si trattava in ogni caso di shocks reali di qualche natura. I modelli keynesiani (inclusa la sottocategoria monetarista, che non è in realtà molto distinta nei contenuti, quanto nella mentalità) sostenevano che la moneta ha i suoi effetti reali perché alcuni salari e/o prezzi sono vischiosi in termini nominali (questa non è la stessa cosa che sostenere che una maggiore flessibilità dei prezzi aiuterebbe a far finire le recessioni – ho già scritto a questo proposito in passato, ma in questo momento lasciamolo da parte).
Dunque, quale prova si deve cercare a proposito del concetto per il quale la politica monetaria può guidare l’economia reale? Si potrebbero cercare prove dirette dei supposti effetti reali – preferibilmente nella forma di esperimenti naturali, dove sia dato un evidente cambiamento nella politica e si possano seguire i risultati. In alternativa o in aggiunta, si potrebbero cercare prove della rigidità nominale (dei salari e/o dei prezzi).
E sulla metà degli anni ’80 c’erano già prove schiaccianti di entrambi i generi. I coniugi Romer [2] non avevano ancora pubblicato la loro classica dimostrazione, basata su uno studio di eventi reali, che la moneta ha importanza, ma, come dissero loro stessi, la loro metodologia si era ampiamente basata sul lavoro di un individuo chiamato Milton Friedman. E la madre di tutti gli esperimenti naturali dei coniugi Romer ebbe luogo quando Paul Volcker anzitutto diede una stretta alla politica monetaria per dare un colpo definitivo all’inflazione, poi la allentò quando pensò che avessimo sofferto abbastanza; i risultati – la peggiore recessione dagli anni ’30 [3], seguita da una ripresa vivace – furono abbastanza determinanti. Ricordo, durante il nostro periodo presso il Comitato dei Consiglieri economici nel 1983-3 [4], che qualcuno avanzava tesi neo classiche, e Larry Summers disse qualcosa come: “12 milioni di disoccupati non sono una ragione sufficiente per smettere di dare ascolto a queste insensatezze?”
Nel frattempo, a proposito della rigidità dei prezzi e dei salari nominali: ci fu la prova, dal comportamento del tasso di cambio reale, che non solo i tassi nominali e reali si muovevano in coppia, ma che il comportamento del tasso di cambio reale cambiava completamente quando cambiava il regime dei tassi di cambio. E ci fu la prova evidente, sulla base di sondaggi, che si determinò sia un picco nella distribuzione al punto più basso [5] delle modifiche salariali, sia che i datori di lavoro credevano che i tagli ai salari nominali sarebbero stati molto costosi in termini di motivazione dei lavoratori.
Da allora, evidentemente, tutte queste prove sono soltanto diventate sempre più chiare.
Seriamente: se ci fosse un ambiente accademico normale, vi potreste immaginare che una larga parte della disciplina non solo ignori queste prove, ma faccia anche il possibile per scomunicare chiunque si misura con la realtà? E non sto affatto esagerando: si ricordi, non sono stato io ma Ken Rogoff che ha scritto a proposito delle umiliazioni patite da parte della “nuova repressione neoclassica” [6].
Dunque, la mia posizione sulla macro è che siamo pieni di prove su quale sia il genere di approccio che dà risultati – e quell’approccio in realtà funziona davvero, offrendo una quantità di indirizzi utili. Di fatto, le prove empiriche dei fondamentali concetti macro sono migliori di gran parte di quelle che valgono per la microeconomia! Il problema sono i tanti economisti che rifiutano di riconoscere quello che è evidente.
[1] Nei tassi di interesse, vedi note sulla traduzione a “zero lower bound”.
[2] David e Christina Romer, sono due economisti americani che hanno studiato, appunto con vari importanti lavori soprattutto in un periodo successivo agli anni ’80, i temi dell’influenza della politica fiscale sulla crescita economica. Hanno studiato assieme al MIT e sono stati colleghi come docenti alla Università della California, Berkeley. Christina Romer ha guidato la Commissione presidenziale dei consiglieri economici con Obama, nel 2008. In quella veste aveva stimato e proposto come necessario un intervento economico statale contro la crisi di circa 1.800 miliardi di dollari. Alla fine Obama decise – in parte fu anche costretto a decidere, per l’opposizione repubblicana – un intervento di 800 miliardi di dollari, che provocò forti critiche da parte degli economisti di orientamento keynesiano.
Ecco i due economisti:
[3] Naturalmente per quei tempi, non certo peggiore di quella del 2008.
[4] Krugman fu membro di quella commissione nel primo mandato di Reagan.
[5] I sondaggi del genere di quelli citati, di solito misurano la “vischiosità/rigidità” dei salari misurandoli in termini di frequenza di modifiche. Spesso si esprimono attraverso grafici a dispersione, che mostrano come i cambiamenti si distribuiscono, indicando come punto più basso la condizione di ‘nessuna modifica’.
[6] Il giudizio di Rogoff su quegli anni, compreso il riferimento ai modi nel quali gli economisti neo classici osteggiavano gli interventi e le pubblicazioni di economisti di diverso orientamento, è riferito nel post di Krugman del 13 dicembre 2013, dal titolo “Rudi Dornbusch e la salvezza della macroeconomia internazionale”.
By mm
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