JAN. 9, 2014
Fifty years have passed since Lyndon Johnson declared war on poverty. And a funny thing happened on the way to this anniversary. Suddenly, or so it seems, progressives have stopped apologizing for their efforts on behalf of the poor, and have started trumpeting them instead. And conservatives find themselves on the defensive.
It wasn’t supposed to be this way. For a long time, everyone knew — or, more accurately, “knew” — that the war on poverty had been an abject failure. And they knew why: It was the fault of the poor themselves. But what everyone knew wasn’t true, and the public seems to have caught on.
The narrative went like this: Antipoverty programs hadn’t actually reduced poverty, because poverty in America was basically a social problem — a problem of broken families, crime and a culture of dependence that was only reinforced by government aid. And because this narrative was so widely accepted, bashing the poor was good politics, enthusiastically embraced by Republicans and some Democrats, too.
Yet this view of poverty, which may have had some truth to it in the 1970s, bears no resemblance to anything that has happened since.
For one thing, the war on poverty has, in fact, achieved quite a lot. It’s true that the standard measure of poverty hasn’t fallen much. But this measure doesn’t include the value of crucial public programs like food stamps and the earned-income tax credit. Once these programs are taken into account, the data show a significant decline in poverty, and a much larger decline in extreme poverty. Other evidence also points to a big improvement in the lives of America’s poor: lower-income Americans are much healthier and better-nourished than they were in the 1960s.
Furthermore, there is strong evidence that antipoverty programs have long-term benefits, both to their recipients and to the nation as a whole. For example, children who had access to food stamps were healthier and had higher incomes in later life than people who didn’t.
And if progress against poverty has nonetheless been disappointingly slow — which it has — blame rests not with the poor but with a changing labor market, one that no longer offers good wages to ordinary workers. Wages used to rise along with worker productivity, but that linkage ended around 1980. The bottom third of the American work force has seen little or no rise in inflation-adjusted wages since the early 1970s; the bottom third of male workers has experienced a sharp wage decline. This wage stagnation, not social decay, is the reason poverty has proved so hard to eradicate.
Or to put it a different way, the problem of poverty has become part of the broader problem of rising income inequality, of an economy in which all the fruits of growth seem to go to a small elite, leaving everyone else behind.
So how should we respond to this reality?
The conservative position, essentially, is that we shouldn’t respond. Conservatives are committed to the view that government is always the problem, never the solution; they treat every beneficiary of a safety-net program as if he or she were “a Cadillac-driving welfare queen.” And why not? After all, for decades their position was a political winner, because middle-class Americans saw “welfare” as something that Those People got but they didn’t.
But that was then. At this point, the rise of the 1 percent at the expense of everyone else is so obvious that it’s no longer possible to shut down any discussion of rising inequality with cries of “class warfare.” Meanwhile, hard times have forced many more Americans to turn to safety-net programs. And as conservatives have responded by defining an ever-growing fraction of the population as morally unworthy “takers” — a quarter, a third, 47 percent, whatever — they have made themselves look callous and meanspirited.
You can see the new political dynamics at work in the fight over aid to the unemployed. Republicans are still opposed to extended benefits, despite high long-term unemployment. But they have, revealingly, changed their arguments. Suddenly, it’s not about forcing those lazy bums to find jobs; it’s about fiscal responsibility. And nobody believes a word of it.
Meanwhile, progressives are on offense. They have decided that inequality is a winning political issue. They see war-on-poverty programs like food stamps, Medicaid, and the earned-income tax credit as success stories, initiatives that have helped Americans in need — especially during the slump since 2007 — and should be expanded. And if these programs enroll a growing number of Americans, rather than being narrowly targeted on the poor, so what?
So guess what: On its 50th birthday, the war on poverty no longer looks like a failure. It looks, instead, like a template for a rising, increasingly confident progressive movement.
La Guerra sulla povertà, di Paul Krugman
New York Times 9 gennaio 2014
Sono passati cinquanta anni dal momento in cui Lyndon Johnson dichiarò guerra alla povertà e, sulla strada per arrivare a questo anniversario, è successa una cosa curiosa. All’improvviso, così sembra, i progressisti hanno smesso di scusarsi per i loro sforzi a favore dei poveri, ed hanno invece cominciato a gridarli ai quattro venti. Ed i conservatori si sono ritrovati sulla difensiva.
Non si pensava che accadesse. Per molto tempo tutti sapevano – sapevano si fa per dire, più precisamente – che la guerra sulla povertà era stato un misero fallimento. E si sapeva perché: la colpa era stata dei poveri stessi. Ma quello che tutti sapevano non era vero, e l’opinione pubblica sembra averlo compreso.
La storia è andata in questo modo: i programmi contro la povertà in verità non avevano ridotto la povertà, perché essa in America era fondamentalmente un problema sociale – un problema di famiglie rotte, di crimini e di una cultura della dipendenza che era stata soltanto rafforzata dagli aiuti statali. E poiché questa storia era in tal modo ampiamente accettata, dare addosso ai poveri era una buona politica, che i repubblicani fecero propria con entusiasmo, assieme anche a qualche democratico.
Tuttavia questo punto di vista sulla povertà, che può aver avuto qualche fondamento negli anni ’70, da allora in poi non assomiglia per niente a quello che è successo.
Da una parte, la guerra sulla povertà ha in effetti ottenuto non pochi risultati. E’ vero che le statistiche consuete sulla povertà non sono scese di molto. Ma queste statistiche non includono gli effetti di cruciali programmi pubblici come gli aiuti alimentari e i crediti di imposta sui redditi da lavoro. Una volta che si mettono nel conto questi programmi, i dati mostrano un significativo declino della povertà, ed un declino molto più ampio della povertà estrema. Un’altra prova riguarda il notevole miglioramento nella vita dell’americano povero; gli americani con i redditi più bassi sono molto più in salute e meglio nutriti di quanto erano negli anni ’60.
Inoltre, ci sono solide prove che i programmi contro la povertà danno benefici a lungo termine, sia per i loro fruitori che per la nazione nel suo complesso. Ad esempio, i bambini che hanno avuto accesso agli aiuti alimentari, nella loro vita successiva, sono risultati più sani ed hanno avuto redditi più elevati di quelli che non hanno avuto accesso.
E se i progressi contro la povertà sono comunque stati lenti in modo deludente – come è successo – la colpa non è dei poveri ma di una mutazione del mercato del lavoro, che non offre salari decenti ai lavoratori ordinari. Di solito i salari crescevano in rapporto alla produttività dei lavoratori, ma ha smesso di esser così attorno al 1980. Il terzo della fascia più bassa della forza lavoro americana ha conosciuto un piccolo miglioramento nei salari corretti dall’inflazione a partire dagli anni ’70, ed anche nessun miglioramento; il terzo della fascia più bassa dei lavoratori maschi ha conosciuto un brusco declino salariale. E’ questa stagnazione salariale, non la decadenza sociale, la ragione per la quale è stato così difficile sradicare la povertà.
O, per dirla diversamente, il problema della povertà è diventato parte del più generale problema della crescita dell’ineguaglianza, di una economia nella quale tutti i frutti della crescita sembrano andare ad una élite ristretta, lasciando indietro tutti gli altri.
Quale risposta dovremmo dare, dunque, a questa realtà?
La posizione conservatrice, sostanzialmente, è che non dovremmo darne alcuna. I conservatori sono legati al punto di vista per il quale il Governo è sempre il problema, mai la soluzione; trattano qualunque beneficiario dei programmi della sicurezza sociale come se fosse “una reginetta dell’assistenza che guida la Cadillac” [1]. E perché no? Dopo tutto, per decenni la loro posizione è stata politicamente vincente, dato che gli americani della ‘classe media’ consideravano la ‘assistenza’ come qualcosa che non li riguardava, che toccava solo a “quella gente” [2].
Ma questo succedeva allora. A questo punto, la crescita dell’1 per cento dei più ricchi a danno di tutti gli altri è così evidente che non è più possibile liquidare ogni dibattito sulla crescente diseguaglianza con gli strepiti sulla “lotta di classe”. Nel frattempo, tempi difficili hanno costretto molti più americani a rivolgersi ai programmi della sicurezza sociale. La risposta dei conservatori è stata quella di identificare una parte in continua crescita della popolazione al pari di “assistiti” moralmente immeritevoli – un quarto, un terzo, il 47 per cento [3], un numero a piacimento. E’ in questo modo che si sono fatti riconoscere per la loro insensibilità e grettezza di spirito.
Nello scontro in atto sugli aiuti ai disoccupati, potete vedere all’opera le nuove dinamiche della politica. I repubblicani sono ancora contrari ad una prosecuzione dei sussidi, nonostante la disoccupazione a lungo termine. Ma, in modo rivelatore, hanno mutato i loro argomenti. All’improvviso, la cosa non riguarda più il costringere quei vagabondi scansafatiche a trovarsi un posto di lavoro; riguarda la responsabilità nella finanza pubblica. E nessuno crede ad una parola di tutto questo.
Nel frattempo, i progressisti sono all’offensiva. Hanno deciso che l’ineguaglianza è un tema politicamente vincente. Considerano i programmi della guerra alla povertà come gli aiuti alimentari, Medicaid [4], il credito di imposta sui redditi da lavoro, come iniziative che hanno aiutato gli americani nel bisogno – specialmente durante la recessione a partire dal 2007 – e dovrebbero essere ampliati. E se questi programmi riguardano un numero crescente di americani, invece che essere strettamente delimitati ai poveri, cosa importa?
Dunque, vedete un po’: al suo cinquantesimo compleanno la lotta alla povertà non sembra più un fallimento. Sembra piuttosto un modello per un movimento progressista in crescita e sempre più fiducioso.
[1] Famigerata battuta di Ronald Reagan, negli anni in cui il reaganismo avviò l’offensiva contro le leggi sulla povertà introdotte nel 1964 da Lyndon Johnson.
[2] “Those People” è una espressione consueta del linguaggio conservatore, spesso anche con qualche venatura razzista. “Quella gente” sono i poveri, spesso afroamericani o latinos, che possono permettersi di stare senza far nulla per la protezione dei programmi sociali. Il concetto cruciale di questo articolo, in realtà, è che quella definizione di povertà è sempre meno convincente anche per la ‘classe media’.
[3] Questa è la percentuale che indicò il candidato repubblicano alle elezioni presidenziali Mitt Romney, lasciandosi scappare un apprezzamento che fece scalpore e non gli giovò nella campagna elettorale. Anche perché, se ci si riflette, indicare il 47 per cento degli americani come ‘assistiti’ (“takers”, ovvero “coloro che prendono”), equivale a mandare il frantumi il concetto stesso di ‘classe media’, che per i repubblicani e un po’ per tutti è il requisito distintivo della nazione americana.
[4] Ovvero, il programma relativo alla assistenza sanitaria per i più poveri.
By mm
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