Blog di Krugman

Le mense dei poveri provocarono la Grande Depressione (versione dei Padri Fondatori della Scuola Austriaca) (27 gennaio 2014)

 

Jan 27, 4:43 pm

Soup Kitchens Caused the Great Depression, AFF Edition

That’s AFF for “Austrian founding fathers.”

The blog Social Democracy for the 21st Century has a fascinating post about Austrian patron saint Ludwig von Mises in the Great Depression, and his attempts to make sense of what was happening. It’s a revealing story, because it bears so much resemblance to current right-wing flailing – and also highlights the lessons Keynes tried to teach but so few, economists included, have been willing to learn.

First of all, as the blog tells it, von Mises, faced with the reality of depression, basically dropped Austrian business cycle theory, and for the very reason people like me have always had trouble taking it seriously. (Yes, yes, we don’t grasp the depth and profundity of a theory that can never fail, it can only be failed.) ABCT is essentially a story about the excesses of the boom; it offers no clear or plausible story about how that boom leads to a sustained slump. And von Mises was in effect already conceding that point by 1931.

 

 

So what was the story? According to vM, it was excessive wages — trade unions were demanding too much, and unemployment benefits were leaving workers insufficiently desperate. Sound familiar? It should — it is, essentially, the current Republican story, in which unemployment is high because we’re being too nice to the unemployed — that, as I like to say, soup kitchens caused the Great Depression.

And this is where Keynes comes in. Suppose, for the sake of argument, that unions and the dole really were holding up wages, and that breaking the unions and starving the unemployed would have led to a big wage decline. How would this have promoted employment?

Don’t say that it’s obvious, that labor would get cheaper and more would be employed. As Keynes pointed out, this makes sense for an individual worker or group of workers, but not if everyone takes a wage cut and — as one would expect — prices also fall. In that case, the relative price of labor hasn’t fallen, so there is no reason for employment to rise.

Or think about it a different way. Again as Keynes pointed out, workers don’t negotiate real wages, they negotiate nominal wages. Why should the overall level of these wages matter? Rudi Dornbusch used to say that “it takes two nominals to make a real.” The usual argument for how wage-price flexibility leads to full employment is that wages “push” against a fixed nominal money supply, so that a fall in the overall wage level leads to a rise in the real money supply, a fall in interest rates, and so on. But under liquidity trap conditions this channel doesn’t work, and other channels — notably Fisherian debt deflation — almost surely mean that lower wages reduce, not increase, employment.

So it’s a nonsense story. But it turns out that it’s always the story the right turns to when market economies go bad — because the alternative would be to admit that market economies can in fact go bad, and that sometimes government is the solution, not the problem.

 

Le mense dei poveri provocarono  la Grande Depressione (versione dei Padri Fondatori della Scuola Austriaca)

 

 

Il blog Democrazia sociale per il XXI Secolo ha un post interessante sul santo patrono della scuola austriaca Ludwig von Mises nella Grande Depressione, e dei suoi tentativi di dare un senso a quello che stava accadendo. E’ un racconto rivelatore, perché ha molta somiglianza con l’attuale agitazione della destra – ed inoltre illumina le lezioni che Keynes cercò di insegnare ma che pochi, economisti inclusi, hanno avuto voglia di apprendere.

Prima di tutto, come dice il blog, von Mises, a fronte della realtà della depressione, in sostanza lasciò cadere la teoria del ciclo economico austriaca, e proprio per questa ragione persone come me hanno sempre avuto problemi a prenderlo sul serio (sì, sì e ancora sì: non riusciamo ad afferrare lo spessore e la profondità di una teoria che non può mai venir meno, salvo che è già venuta meno). La Teoria Austriaca del Ciclo Economico è essenzialmente un racconto sugli eccessi della espansione; non offre alcuna descrizione chiara o plausibile su come quella espansione abbia portato ad una prolungata recessione. E nel 1931 von Mises in effetti stava già ammettendo questo aspetto.

In cosa consiste, dunque, questo racconto? Secondo von Mises, furono i salari eccessivi – i sindacati chiedevano troppo ed i sussidi di disoccupazione mantenevano i lavoratori in condizioni di insufficiente disperazione. Vi suona familiare? Dovrebbe – è essenzialmente il racconto dei repubblicani dei nostri giorni, secondo il quale la disoccupazione è elevata perché siamo troppo premurosi con i disoccupati – così, come mi piace dire, le mense dei poveri provocarono la Grande Depressione.

Ed è a questo punto che Keynes entra in scena. Supponiamo, in coerenza con quella tesi, che i sindacati ed il sussidio di disoccupazione stessero davvero tenendo su i salari, e che la rottura dei sindacati ed il mettere alla fame i disoccupati avrebbe portato ad un grande declino salariale. Come tutto questo avrebbe promosso occupazione?

Non si dica che è evidente, che il lavoro sarebbe diventato meno caro ed in più avrebbero trovato lavoro. Come Keynes mise in evidenza,  questo ha senso per un lavoratore individuale o per un gruppo di lavoratori, ma non se ognuno riceve un taglio al salario e – come ci si aspetterebbe – anche i prezzi diminuiscono. In quel caso, il prezzo relativo del lavoro non è caduto, dunque non c’è ragione perché l’occupazione cresca.

Oppure si ragioni in un diverso modo. Ancora come Keynes mise in evidenza, i lavoratori non negoziano i salari reali, ma quelli nominali. Perché il livello generale di questi salari dovrebbe essere importante? Rudi Dornbusch era solito dire: “Ci vogliono due nominali per fare un reale”. L’argomento consueto su come la flessibilità dei salari e dei prezzi porta alla piena occupazione è che i salari “premono” contro un’offerta nominale di moneta definita, cosicché una caduta nel livello generale dei salari conduce ad un aumento dell’offerta reale di moneta, ad una caduta nei tassi di interesse, e così via. Ma in condizioni di trappola di liquidità questo canale non funziona, e gli altri canali – in particolare la ‘fisheriana’ [1] deflazione da debito – quasi certamente comporta che i bassi salari non accrescano, bensì riducano l’occupazione.

Dunque, è una storia senza senso. Ma si scopre che è la stessa storia che ci indica dove rivolgerci quando le economie di mercato vanno male – perché la alternativa sarebbe ammettere che le economie di mercato possono di fatto andar male, e talvolta i governi sono la soluzione, non il problema.

 


[1] Irving Fisher (Saugerties, 27 febbraio 1867New York, 29 aprile 1947) è stato un economista e statistico statunitense. Contribuì in modo determinante alla teoria dei Numeri indici analizzandone le proprietà teoriche e statistiche. Fu uno dei maggiori economisti monetaristi statunitensi dei primi del Novecento. Dal 1923 al 1936 il suo Index Number Institute produsse e pubblicò indici dei prezzi di diversi panieri raccolti in tutto il mondo. In campo finanziario a lui si deve la formalizzazione della equazione per stimare la relazione tra tassi di interesse nominali e reali. L’equazione è usata per calcolare lo “Yield to Maturity” ovvero il rendimento alla scadenza di un titolo, in presenza di inflazione. Tale equazione è conosciuta universalmente come Equazione di Fisher. Fu inoltre presidente dell’American Economic Association nel 1918 e dell’American Statistical Association nel 1932 nonché fondatore nel 1930 della International Econometric Society. Morì nella città di New York nel 1947. (wikipedia)

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