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L’imperativo populista, di Paul Krugman (New York Times 23 gennaio 2014)

 

The Populist Imperative

JAN. 23, 2014 Paul Krugman  

“The outstanding faults of the economic society in which we live are its failure to provide for full employment and its arbitrary and inequitable distribution of wealth and incomes.”

John Maynard Keynes wrote that in 1936, but it applies to our own time, too. And, in a better world, our leaders would be doing all they could to address both faults.

Unfortunately, the world we actually live in falls far short of that ideal. In fact, we should count ourselves lucky when leaders confront even one of our two great economic failures. If, as has been widely reported, President Obama devotes much of his State of the Union address to inequality, everyone should be cheering him on.

They won’t, of course. Instead, he will face two kinds of sniping. The usual suspects on the right will, as always when questions of income distribution comes up, shriek “Class warfare!” But there will also be seemingly more sober voices arguing that he has picked the wrong target, that jobs, not inequality, should be at the top of his agenda.

Here’s why they’re wrong.

First of all, jobs and inequality are closely linked if not identical issues. There’s a pretty good although not ironclad case that soaring inequality helped set the stage for our economic crisis, and that the highly unequal distribution of income since the crisis has perpetuated the slump, especially by making it hard for families in debt to work their way out.

 

Moreover, there’s an even stronger case to be made that high unemployment — by destroying workers’ bargaining power — has become a major source of rising inequality and stagnating incomes even for those lucky enough to have jobs.

Beyond that, as a political matter, inequality and macroeconomic policy are already inseparably linked. It has been obvious for a long time that the deficit obsession that has exerted such a destructive effect on policy these past few years isn’t really driven by worries about the federal debt. It is, instead, mainly an effort to use debt fears to scare and bully the nation into slashing social programs — especially programs that help the poor. For example, two-thirds of the spending cuts proposed last year by Representative Paul Ryan, the chairman of the House Budget Committee, would have come at the expense of lower-income families.

 

The flip side of this attempt to use fiscal scare tactics to worsen inequality is that highlighting concerns about inequality can translate into pushback against job-destroying austerity, too.

 

But the most important reason for Mr. Obama to focus on inequality is political realism. Like it or not, the simple fact is that Americans “get” inequality; macroeconomics, not so much.

There’s an enduring myth among the punditocracy that populism doesn’t sell, that Americans don’t care about the gap between the rich and everyone else. It’s not true. Yes, we’re a nation that admires rather than resents success, but most people are nonetheless disturbed by the extreme disparities of our Second Gilded Age. A new Pew poll finds an overwhelming majority of Americans — and 45 percent of Republicans! — supporting government action to reduce inequality, with a smaller but still substantial majority favoring taxing the rich to aid the poor. And this is true even though most Americans don’t realize just how unequally wealth really is distributed.

 

By contrast, it’s very hard to communicate even the most basic truths of macroeconomics, like the need to run deficits to support employment in bad times. You can argue that Mr. Obama should have tried harder to get these ideas across; many economists cringed when he began echoing Republican rhetoric about the need for the federal government to tighten its belt along with America’s families. But, even if he had tried, it’s doubtful that he would have succeeded.

Consider what happened in 1936. F.D.R. had just won a smashing re-election victory, largely because of the success of his deficit-spending policies. It’s often forgotten now, but his first term was marked by rapid economic recovery and sharply falling unemployment. But the public remained wedded to economic orthodoxy: by a more than 2-to-1 majority, voters surveyed by Gallup just after the election called for a balanced budget. And F.D.R., unfortunately, listened; his attempt to balance the budget soon plunged America back into recession.

 

The point is that of the two great problems facing the U.S. economy, inequality is the one on which Mr. Obama is most likely to connect with voters. And he should seek that connection with a clear conscience: There’s no shame is acknowledging political reality, as long as you’re trying to do the right thing.

So I hope we’ll hear something about jobs Tuesday night, and some pushback against deficit hysteria. But if we mainly hear about inequality and social justice, that’s O.K.

 

L’imperativo populista, di Paul Krugman

New York Times 23 gennaio 2014

 

“I rilevanti difetti della società economica nella quale viviamo sono la sua incapacità a fornire la piena occupazione e la sua distribuzione della ricchezza e dei redditi arbitraria ed iniqua.”

John Maynard Keynes scrisse queste parole nel 1936, ma vanno bene anche al tempo nostro. E, in un mondo migliore, i nostri dirigenti starebbero facendo tutto quello che è in loro potere per affrontare quei due difetti.

Sfortunatamente, il mondo reale nel quale viviamo è lontano dalla suggestione di quell’ideale. Di fatto, dovremmo ritenerci fortunati quando i nostri dirigenti si misurassero anche solo con uno di quei due grandi insuccessi. Se, come è stato insistentemente riferito, il Presidente Obama dedicherà gran parte del suo discorso sullo ‘Stato dell’Unione’ all’ineguaglianza, meriterebbe l’elogio da parte di tutti.

Non sarà così, naturalmente. Invece, dovrà misurarsi con due generi di critiche. I soliti noti della destra, come sempre quando emergono questioni di distribuzione del reddito, strepiteranno alla “lotta di classe!” Ma ci saranno anche voci in apparenza più equilibrate secondo le quali egli avrebbe scelto l’obiettivo sbagliato, giacché i posti di lavoro e non l’ineguaglianza dovrebbero essere in cima alla su agenda.

Ecco perché hanno torto.

Prima di tutto, i posti di lavoro e l’ineguaglianza sono temi strettamente connessi, se non identici.  C’è un argomento abbastanza buono, sebbene non ineccepibile, per il quale la crescente ineguaglianza ha contribuito a creare le condizioni per la nostra crisi economica, e a partire dalla crisi la altamente ineguale distribuzione del reddito ha perpetuato la recessione, in particolare rendendo difficile per le famiglie indebitate di ritrovare la loro strada.

Inoltre, c’è un argomento anche più forte che può essere avanzato, secondo il quale l’elevata disoccupazione – distruggendo il potere di contrattazione dei lavoratori – è diventata una importante ragione di crescente ineguaglianza e di redditi stagnanti persino per coloro che sono abbastanza fortunati da avere lavoro.

Oltre a ciò, da un punto di vista politico, l’ineguaglianza e la politica economica sono già inseparabilmente connesse. E’ chiaro da molto tempo che l’ossessione del deficit, che ha esercitato una effetto così distruttivo sulla politica in questi ultimi anni, in realtà non è stata determinata dalle preoccupazioni per il debito federale.  C’è stato, piuttosto, soprattutto uno sforzo di utilizzare le paure sul debito per spaventare la nazione ed intimorirla al taglio dei programmi sociali – particolarmente i programmi che aiutano la povera gente. Ad esempio, due terzi dei tagli alla spesa proposti l’anno passato dal congressista Paul Ryan, il Presidente della Commissione Bilancio della Camera, si sarebbero realizzati a spese delle famiglie a più basso reddito.

Il lato opposto della medaglia di questo tentativo di utilizzare tattiche fondate sull’allarmismo per la spesa pubblica per avere sempre maggiore ineguaglianza, è che il mettere in evidenza le preoccupazioni per quest’ultima può anche essere un modo per respingere l’austerità, che distrugge posti di lavoro.

Ma la più importante ragione perché Obama si concentri sull’ineguaglianza è il realismo politico. Piaccia o no, che gli americani capiscano l’ineguaglianza è un fatto; non altrettanto che capiscano la macroeconomia.

C’è un mito persistente nella casta dei commentatori secondo il quale il populismo non paga, e gli americani non si curerebbero delle differenze tra i ricchi e tutti gli altri. Non è vero. Sì, siamo una nazione che ammira il successo, piuttosto che provarne fastidio, ma la maggior parte delle persone sono nondimeno infastidite dalle estreme disparità della nostra seconda  Età dell’Oro [1]. Un nuovo sondaggio di Pew [2] scopre che una schiacciante maggioranza degli americani – ed il 45 per cento dei repubblicani! – sostiene l’azione del Governo per ridurre l’ineguaglianza, con una maggioranza più piccola ma ancora cospicua che è a favore della tassazione sui ricchi per aiutare i poveri. E questo è vero anche se la maggior parte degli americani non sono al corrente di quanto la ricchezza sia distribuita in modo davvero iniquo.

Di contro, è molto difficile comunicare anche le verità più elementari sull’economia, come la necessità nei tempi difficili di realizzare deficit per sostenere l’occupazione. Si può sostenere che Obama avrebbe dovuto cercare con più impegno di trasmettere queste idee; molti economisti espressero disappunto quando cominciò ad imitare la retorica repubblicana sulla necessità che il Governo stringesse la cintola assieme alle famiglie americane. Ma anche se ci avesse provato, è dubbio che avrebbe avuto successo.

Si consideri quello che accadde nel 1936. Franklin Delano Roosevelt aveva appena ottenuto una smagliante rielezione, in gran parte in conseguenza delle sue politiche di spesa pubblica in deficit. Oggi si dimentica spesso, ma il suo primo mandato fu segnato da una rapida ripresa economica e da una brusca caduta della disoccupazione. Ma l’opinione pubblica restava legata all’ortodossia economica: con una maggioranza superiore di due ad uno, gli elettori intervistati da Gallup si pronunciarono, dopo le elezioni, per un bilancio in pareggio, E sfortunatamente Roosevelt diede loro retta; il suo tentativo di riequilibrare il bilancio riprecipitò in breve tempo l’America nella recessione.

Il punto è che l’economia americana è di fronte a due grandi problemi, l’ineguaglianza è quello sul quale Obama è più probabile sia in sintonia con gli elettori. Ed egli dovrebbe cercare quella sintonia con la coscienza pulita: non è motivo di vergogna riconoscere la realtà politica, finché state cercando di fare le cose giuste.

Dunque, io spero di potere ascoltare qualcosa sui posti di lavoro martedì notte, e magari qualche cenno di contrarietà verso l’isteria del deficit. Ma se sentiremo soprattutto parlare di ineguaglianza e di giustizia sociale, andrà bene lo stesso.



[1] La prima fu quella degli anni Venti, e in effetti i picchi della diseguaglianza dei redditi sono tornati solo in questi anni ai livelli degli anni Venti del secolo scorso, come si vede chiaramente da questa Tabella desunta dai lavori dei due ricercatori Picketty e Saez. Come si vede dall’andamento delle due linee più scure, il fenomeno della diseguaglianza negli Stati Uniti – e in una certa misura nel Regno Unito – è tornato al livello di quegli anni, riportando l’1 per cento dei più ricchi a possedere il 50 per cento del reddito complessivo. Nel dopoguerra era poco sopra il 30 per cento.

Si nota anche che la situazione in Francia e Germania si è evoluta in modo molto diverso.

zz 53

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[2] PEW è un centro di ricerche soprattutto sociali e politiche.

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