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Parlando della travagliata Turchia , di Paul Krugman (New York Times, 30 gennaio 2014)

 

Talking Troubled Turkey

JAN. 30, 2014 Paul Krugman

O.K., who ordered that? With everything else going on, the last thing we needed was a new economic crisis in a country already racked by political turmoil. True, the direct global spillovers from Turkey, with its Los Angeles-sized economy, won’t be large. But we’re hearing that dreaded word “contagion” — the kind of contagion that once caused a crisis in Thailand to spread across Asia, more recently caused a crisis in Greece to spread across Europe, and now, everyone worries, might cause Turkey’s troubles to spread across the world’s emerging markets.

 

It is, in many ways, a familiar story. But that’s part of what makes it so disturbing: Why do we keep having these crises? And here’s the thing: The intervals between crises seem to be getting shorter, and the fallout from each crisis seems to be worse than the last. What’s going on?

Before I get to Turkey, a brief history of global financial crises.

For a generation after World War II, the world financial system was, by modern standards, remarkably crisis-free — probably because most countries placed restrictions on cross-border capital flows, so that international borrowing and lending were limited. In the late 1970s, however, deregulation and rising banker aggressiveness led to a surge of funds into Latin America, followed by what’s known in the trade as a “sudden stop” in 1982 — and a crisis that led to a decade of economic stagnation.

 

Latin America eventually returned to growth (although Mexico had a nasty relapse in 1994), but, in the 1990s, a bigger version of the same story unfolded in Asia: Huge money inflows followed by a sudden stop and economic implosion. Some of the Asian economies bounced back quickly, but investment never fully recovered, and neither did growth.

Most recently, yet another version of the story has played out within Europe, with a rush of money into Greece, Spain and Portugal, followed by a sudden stop and immense economic pain.

As I said, although the outline of the story remains the same, the effects keep getting worse. Real output fell 4 percent during Mexico’s crisis of 1981-83; it fell 14 percent in Indonesia from 1997 to 1998; it has fallen more than 23 percent in Greece.

So is an even worse crisis brewing? The fundamentals are slightly reassuring; Turkey, in particular, has low government debt, and while businesses have borrowed a lot from abroad, the overall financial situation doesn’t look that bad. But each previous crisis defied sanguine expectations. And the same forces that sent money sloshing into Turkey also make the world economy as a whole highly vulnerable.

You may or may not have heard that there’s a big debate among economists about whether we face “secular stagnation.” What’s that? Well, one way to describe it is as a situation in which the amount people want to save exceeds the volume of investments worth making.

When that’s true, you have one of two outcomes. If investors are being cautious and prudent, we are collectively, in effect, trying to spend less than our income, and since my spending is your income and your spending is my income, the result is a persistent slump.

Alternatively, flailing investors — frustrated by low returns and desperate for yield — can delude themselves, pouring money into ill-conceived projects, be they subprime lending or capital flows to emerging markets. This can boost the economy for a while, but eventually investors face reality, the money dries up and pain follows.

If this is a good description of our situation, and I believe it is, we now have a world economy destined to seesaw between bubbles and depression. And that’s not an encouraging thought as we watch what looks like an emerging-markets bubble burst.

The larger point is that Turkey isn’t really the problem; neither are South Africa, Russia, Hungary, India, and whoever else is getting hit right now. The real problem is that the world’s wealthy economies — the United States, the euro area, and smaller players, too — have failed to deal with their own underlying weaknesses. Most obviously, faced with a private sector that wants to save too much and invest too little, we have pursued austerity policies that deepen the forces of depression. Worse yet, all indications are that, by allowing unemployment to fester, we’re depressing our long-run as well as short-run growth prospects, which will depress private investment even more.

 

Oh, and much of Europe is already at risk of a Japanese-style deflationary trap. An emerging-markets crisis could, all too plausibly, turn that risk into reality.

So Turkey seems to be in serious trouble — and China, a vastly bigger player, is looking a bit shaky, too. But what makes these troubles scary is the underlying weakness of Western economies, a weakness made much worse by really, really bad policies.

 

Parlando della travagliata Turchia , di Paul Krugman

New York Times, 30 gennaio 2014

 

Ma questa novità chi l’ha chiesta? Con tutto quello che sta seguitando, l’ultima cosa di cui avevamo bisogno era una crisi economica in un paese già stremato dal trambusto della politica. E’ vero, le ricadute globali dirette della Turchia, con la sua economia delle dimensioni di quella di Los Angeles, non saranno grandi. Ma sentiamo parlare di quel temuto “contagio” mondiale – il tipo di contagio che a suo tempo provocò la diffusione in tutta l’Asia della crisi della Tailandia, più di recente la diffusione della crisi della Grecia in tutta l’Europa ed ora, tutti temono, potrebbe provocare la trasmissione dei guai della Turchia sui mercati emergenti del mondo.

Da molti punti di vista, si tratta di una storia familiare. Ma è proprio questo che in una certa misura la rende così inquietante: perché continuiamo ad avere crisi come queste? Ed il problema è questo: gli intervalli tra le crisi sembra stiano diventando più brevi, e le ricadute di ciascuna crisi sembrano sempre peggiori. Cosa sta succedendo?

Prima di venire alla Turchia, una breve storia delle crisi finanziarie locali.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il sistema finanziario mondiale fu, secondo gli standard moderni, considerevolmente al riparo da crisi – probabilmente perché la maggior parte dei paesi stabilirono restrizioni sui flussi dei capitali oltre frontiera, cosicché i crediti ed i prestiti internazionali furono limitati. Negli ultimi anni ’70, tuttavia, la deregolamentazione e la crescente aggressività dei banchieri consentì una crescita di finanziamenti all’America Latina, seguita nel 1982 da quello che è conosciuta negli scambi come un “blocco improvviso”- e da una crisi che ha portato ad un decennio di stagnazione economica.

L’America Latina alla fine tornò a crescere (sebbene il Messico ebbe una brutta ricaduta nel 1994), ma, negli anni ’90, una versione più grave della stessa storia si determinò in Asia: grandi flussi di denaro seguiti da un blocco improvviso e da una implosione economica. Alcune economie asiatiche si ripresero rapidamente, ma gli investimenti non ripresero mai pienamente, e neppure la crescita.

Più di recente, ancora un’altra versione della stessa storia si è rappresentata in Europa, con un afflusso di capitali nella Grecia, nella Spagna e nel Portogallo, seguita da un blocco improvviso e da danni economici enormi.

Come ho detto, sebbene i contorni della storia restino i medesimi, gli effetti continuano a peggiorare. La produzione reale cadde del 4 per cento nella crisi del Messico dal 1981 al 1983; cadde del 14 per cento in Indonesia dal 1998 al 1998; è caduta più del 25 per cento in Grecia.

Dunque si sta preparando una crisi anche peggiore? I fondamentali sono leggermente rassicuranti: la Turchia, in particolare, ha un debito pubblico basso, e mentre le imprese si sono fortemente indebitate con l’estero, la situazione finanziaria complessiva non sembra così negativa. Ma tutte le crisi precedenti hanno sfidato le aspettative ottimistiche. E le stesse forze che hanno mandato in giro capitali riversandoli sulla Turchia hanno anche reso il mondo nel suo complesso altamente vulnerabile.

Può darsi che si sia sentito dire che c’è un gran dibattito tra gli economisti sulla eventualità che ci si trovi di fronte ad una “stagnazione secolare”. Di cosa si tratta? Ebbene, un modo di descriverla è una situazione nella quale la quantità di persone che vogliono risparmiare eccede gli investimenti che è conveniente realizzare.

Quando questo accade, si ha uno di questi due risultati. Se gli investitori restano cauti e prudenti, in pratica collettivamente cerchiamo di spendere meno del nostro reddito, e dal momento che la mia spesa è il tuo reddito e la tua spesa è il mio, il risultato è una crisi prolungata.

In alternativa, investitori esagitati – frustrati per i bassi rendimenti e disperati per il risultato – possono illudersi, riversando soldi in progetti insani, di essere loro a prestare titoli scadenti o flussi di capitali ai mercati emergenti. Questo può incoraggiare per un po’ l’economia, ma alla fine gli investitori guardano in faccia la realtà, il denaro si esaurisce e vengono i dolori.

Se questa è una spiegazione corretta della nostra situazione, ed io credo che sia tale, abbiamo oggi un’economia mondiale destinata ad altalenare tra bolle e depressioni. E non è un pensiero incoraggiante se osserviamo quello che sembra un possibile scoppio di una bolla nei mercati emergenti.

Il punto più in generale è che la Turchia non è il vero problema; neppure lo sono il Sudafrica, la Russia, l’Ungheria, l’India e chiunque altro in questo momento sta prendendo colpi. Il grande problema è che le economie ricche del mondo – gli Stati Uniti, l’area euro ed anche i protagonisti minori – non sono stati capaci di fare i conti con la loro debolezza profonda. In modo del tutto evidente, a fronte di un settore privato che vuole risparmiare troppo ed investire troppo poco, abbiamo perseguito politiche di austerità che hanno approfondito i fenomeni della depressione. Peggio ancora, tutte le indicazioni ci dicono che, consentendo alla disoccupazione di inasprirsi, abbiamo depresso le nostre prospettive di crescita nel breve e nel lungo periodo, la qualcosa ulteriormente deprimerà l’investimento privato.

Infine, una buona parte dell’Europa è già a rischio di una trappola deflazionistica sul modello giapponese. Una crisi nei mercati emergenti potrebbe, in modo anche troppo plausibile, trasformare quel rischio in realtà.

Dunque, la Turchia sembra essere in un serio problema – e la Cina, un attore ampiamente più significativo, appare anch’essa un po’ traballante. Ma quello che rende questi guai spaventosi è la sottostante debolezza delle economie occidentali, una debolezza resa molto peggiore da politiche senza alcun dubbio negative.

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