January 23, 2014, 10:43 am
Logistical note: I’ll be traveling the next couple of days — family, not work — so little if any blogging. Also, for those who like to plan their TV viewing far in advance, next week I’ll be doing SOTU commentary on CNN. I believe I’ve been assigned to discuss Michelle Obama’s wardrobe, or something.
But before we hit the very cold road, I thought I’d weigh in on an ongoing discussion about the state of Keynesian economics. Simon Wren-Lewis had a piece a few days ago that I never got around to discussing, and now John Quiggin has a further piece that lays out an interesting typology. I don’t really disagree with either piece, but have a slightly different take.
So Wren-Lewis asks whether the financial crisis and aftermath will lead to a revolution in macroeconomics. He thinks mostly not, and he’s probably right — but the absence of a revolution will be mainly for the wrong reasons.
There have been two big revolutions in macro. First was the Keynesian revolution, closely tied to the Great Depression; then the new classical counterrevolution, more loosely tied to stagflation in the 1970s. In the first case the linkage was obvious: Keynes offered a way to understand what was happening, and a solution too.
In the second case things weren’t quite so obvious — new classical models didn’t actually have anything much to say about inflation. But stagflation was predicted by Friedman and Phelps, using models that attempted to derive wage and price-setting behavior from rational choice. So the effect of the emergence of stagflation was to give a big boost to “microfoundations” as a modeling strategy
There was a limited Keynesian pushback, what Quiggin calls the Old New Keynesian economics. Basically, this approach tried to get as much rationality into the models as possible without reaching the conclusion that demand-side recessions can’t happen. So intertemporal optimization by consumers, optimal price-setting by firms, with just the caveat that for reasons not specified firms and/or workers had to set prices well in advance, so that surprises in demand could translate into real fluctuations.
There was never a compelling empirical case for this approach. Yet it became dominant for, I think, a couple of reasons. First, it aped the style of the new classical types, creating the illusion of intellectual convergence. Second,it was mathematically hard enough to give you the feeling that you were doing real theoretical work, not just writing down something ad hoc — and maybe even more important, hard enough to convince referees that it was serious stuff. Finally, on a more positive note, New Keynesian-type models did and do under certain circumstances force you to think harder about issues in a way that enhances your understanding, even if you don’t really believe them; that’s certainly been my experience, which is why I usually try to model macro issues both ways (old and new Keynesian), just to be sure I’m not missing something.
So now comes the Lesser Depression — and it turns out that the New Keynesian models have been of hardly any use, while old Keynesian approaches (sometimes with a consistency check using NK modeling) have been tremendously useful. The result has been the rise of what Quiggin, borrowing a phrase from Tyler Cowen, calls New Old Keynesian economics. I liked my term Neo-Paleo-Keynesianism, but whatever.
Quiggin says that I’m the leader in this movement; hey, I’ll take it, although Larry Summers is giving me a definite run for the money lately.
But will this sweep the academic world? No. Partly because of politics: as Quiggin says, new classical economics is effectively part of the broader right-wing apparatus of denial, into which awkward facts rarely penetrate.But there’s also a professional dynamic going on.
You see, both the Keynesian revolution and the classical counterrevolution had one great virtue for ambitious academics: they involved both new ideas and more elaborate math than their predecessors. (It’s often forgotten, but Keynesian economics and the Samuelsonian modeling revolution went hand in hand.) New Old Keynesian economics, on the other hand, involves turning away from hard math back toward rough-and-ready assumptions based on empirical observation. Aspiring up-and-coming economists may be able to publish empirical papers in this vein, but theoretical analyses are likely to be met with giggles and whispers. Just because the stuff works doesn’t mean that it will be publishable.
So I think we’re in for a long siege in which the economics that works remains virtually absent from economic journals (except policy journals like Brookings Papers) and largely untaught in graduate programs.
I hope I’m wrong.
Tutte le cose nuove sono a loro volta vecchie
Nota logistica: sarò in viaggio nei prossimi due giorni – per ragioni familiari, non per lavoro – dunque scriverò poco o niente. Inoltre, per coloro a cui piace pianificare in anticipo i programmi televisivi cui assistere, la prossima settimana commenterò alla CNN il Discorso sullo Stato dell’Unione [1]. Credo che sarò incaricato di discutere il guardaroba di Michelle Obama, o qualcosa del genere.
Ma prima di mettermi in marcia con questo freddo, ho pensato di intervenire su un perdurante dibattito sullo stato dell’economia keynesiana. Alcuni giorni fa pubblicò un pezzo Simon Wren-Lewis che non ha mai avuto il tempo di discutere, ed ora John Quiggin scrive un altro pezzo che propone una interessante tipologia. In effetti io non sono in disaccordo con entrambi gli articoli, ma direi le cose in modo leggermente diverso.
Dunque, Wren-Lewis si chiede se la crisi finanziaria e le sue conseguenze ci porteranno ad una rivoluzione nella teoria economica. Principalmente egli pensa che non accadrà, ed ha probabilmente ragione – ma la mancanza di una rivoluzione dipenderà principalmente da ragioni sbagliate.
Ci sono state due grandi rivoluzioni in macroeconomia. La prima fu la rivoluzione keynesiana, strettamente connessa con la Grande Depressione; poi la controrivoluzione neo classica, in modo più generico legata alla stagflazione degli anni ’70. Nel primo caso la connessione era evidente: Keynes offrì un modo per capire cosa stava accadendo, ed anche una soluzione.
Nel secondo caso le cose non furono altrettanto evidenti – i modelli neoclassici in verità non avevano molto da dire sull’inflazione. Ma la stagflazione fu prevista da Friedman e Phelps, utilizzando modelli che cercavano di derivare l’assestamento dei salari e dei prezzi dal comportamento sulla base di scelte razionali. Dunque, l’effetto dell’emergenza della stagflazione fu quello di dare un grande incoraggiamento alle “fondamenta microeconomiche” come strategia di definizione di modelli.
Ci fu una limitata reazione keynesiana, che Quiggin definisce il Vecchio Nuovo Keynesismo. Fondamentalmente, questo approccio cercò di ottenere la maggiore razionalità possibile nei modelli senza arrivare alla conclusione che le recessioni dal lato della domanda non possono aver luogo. Così, ottimizzazione intertemporale da parte dei consumatori, perfetta definizione dei prezzi da parte delle imprese, solo con l’avvertimento che per ragioni non specificate le imprese e/o i lavoratori dovevano definire i prezzi ben in anticipo, e che dunque sorprese nella domanda potevano tradursi in fluttuazioni reali.
Non ci furono mai convincenti esempi empirici per questo approccio. Tuttavia, penso per un paio di ragioni, esso divenne dominante. La prima, esso scimmiottava lo stile dei soggetti neoclassici, creando l’illusione di una convergenza intellettuale. La seconda, era matematicamente abbastanza difficile convincersi che si stava facendo un vero e proprio lavoro teoretico, piuttosto che un prender nota di argomenti in qualche modo ad hoc – e, forse più importante ancora, era abbastanza difficile convincere coloro che giudicavano che si trattasse di una cosa seria. Infine, una considerazione più positiva. I modelli del genere neo keynesiano vi costringevano per davvero, e in certe circostanze ancora vi costringono, a pensare con più impegno su tematiche che accrescono la vostra facoltà di comprendere, anche se effettivamente non credete ad essi; questa è stata certamente la mia esperienza, e quella è la ragione per la quale io normalmente cerco di esprimere in modelli i temi macroeconomici in entrambi i modi (keynesismo vecchio e nuovo), proprio per essere sicuro di non perdere qualcosa.
Così ai nostri giorni arriva la Depressione Minore – e si scopre che i modelli neo keynesiani sono stati di poca utilità, mentre gli approcci del vecchio keynesismo (talvolta con una verifica di coerenza, utilizzando la modellistica neo keynesiana) sono stati incredibilmente utili. Il risultato è stata l’ascesa di quello che Quiggin chiama, prendendo a prestito una espressione di Tyler Cowen, l’economia del Nuovo Vecchio Keynesismo. Io preferivo il mio termine Neo-Paleo keynesismo, ma tant’è.
Quiggin dice che sarei io il leader di questo movimento; attenzione, posso accettarlo, ma di recente Larry Summers mi dà molto filo da torcere [2].
Ma questo metterà fuori scena il lavoro accademico? No. In parte a causa della politica: come Quiggin dice, l’economia neo classica è effettivamente una componente del più ampio apparato del ‘negazionismo’ della destra, nel quale i fatti imbarazzanti raramente riescono a penetrare. Ma c’è anche una dinamica professionale che va avanti.
Vedete, sia la rivoluzione keynesiana che la controrivoluzione neo classica ebbero una grande virtù per gli accademici ambiziosi: riguardavano sia le nuove idee che un uso della matematica più sofisticato di quello dei loro predecessori (spesso lo si dimentica, ma l’economia keynesiana e la rivoluzione nella modellistica di Samuelson procedettero mano nella mano). L’economia del Nuovo Vecchio Keynesismo, d’altra parte, consiste nel distogliere lo sguardo dalla matematica complessa per tornare a concetti ruvidi e di uso immediato basati sulla osservazione empirica. Gli economisti ambiziosi e di buone speranze possono essere capaci di pubblicare studi empirici su questo filone, ma le analisi teoretiche è probabile siano accolte con risatine e sussurri [3]. Il fatto che alcune cose funzionino non significa che saranno pubblicabili.
Penso dunque che il futuro ci riserverà un lungo assedio, nel quale l’economia che funziona resterà virtualmente assente dalla riviste economiche (ad eccezione di riviste che si occupano di politica come Brookings Papers[4] ) ed ampiamente trascurata nei programmi universitari.
Spero di aver torto.
[1] Il prossimo annunciato discorso di Obama, che Krugman ha commentato ex ante nel New York Times di questi giorni.
[2] Letteralmente “to give you run for your money” significa “farti correre per (meritare) il tuo denaro” …
[3] E’ l’espressione che un economista neo classico, Robert Lucas, utilizzò con compiacimento per definire il modo in cui, nei decenni passati, si accoglievano i riferimenti a Keynes nel corso di convegni accademici. Krugman fece un riferimento a questo in un post del giugno del 2011.
[4] E’ una rivista di economia che ha iniziato le pubblicazioni nel 1970. La sua caratteristica è quella di offrire riflessione e ricerche attinenti alla teoria macroeconomica, in riferimento costante agli eventi economici principali contemporanei.
By mm
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