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Nessuna grande intesa, di Paul Krugman (New York Times 27 febbraio 2014)

 

No Big Deal

FEB. 27, 2014 Paul Krugman

Everyone knows that the Obama administration’s domestic economic agenda is stalled in the face of scorched-earth opposition from Republicans. And that’s a bad thing: The U.S. economy would be in much better shape if Obama administration proposals like the American Jobs Act had become law.

It’s less well known that the administration’s international economic agenda is also stalled, for very different reasons. In particular, the centerpiece of that agenda — the proposed Trans-Pacific Partnership, or T.P.P. — doesn’t seem to be making much progress, thanks to a combination of negotiating difficulties abroad and bipartisan skepticism at home.

And you know what? That’s O.K. It’s far from clear that the T.P.P. is a good idea. It’s even less clear that it’s something on which President Obama should be spending political capital. I am in general a free trader, but I’ll be undismayed and even a bit relieved if the T.P.P. just fades away.

The first thing you need to know about trade deals in general is that they aren’t what they used to be. The glory days of trade negotiations — the days of deals like the Kennedy Round of the 1960s, which sharply reduced tariffs around the world — are long behind us.

Why? Basically, old-fashioned trade deals are a victim of their own success: there just isn’t much more protectionism to eliminate. Average U.S. tariff rates have fallen by two-thirds since 1960. The most recent report on American import restraints by the International Trade Commission puts their total cost at less than 0.01 percent of G.D.P.

Implicit protection of services — rules and regulations that have the effect of, say, blocking foreign competition in insurance — surely impose additional costs. But the fact remains that, these days, “trade agreements” are mainly about other things. What they’re really about, in particular, is property rights — things like the ability to enforce patents on drugs and copyrights on movies. And so it is with T.P.P.

There’s a lot of hype about T.P.P., from both supporters and opponents. Supporters like to talk about the fact that the countries at the negotiating table comprise around 40 percent of the world economy, which they imply means that the agreement would be hugely significant. But trade among these players is already fairly free, so the T.P.P. wouldn’t make that much difference.

Meanwhile, opponents portray the T.P.P. as a huge plot, suggesting that it would destroy national sovereignty and transfer all the power to corporations. This, too, is hugely overblown. Corporate interests would get somewhat more ability to seek legal recourse against government actions, but, no, the Obama administration isn’t secretly bargaining away democracy.

 

What the T.P.P. would do, however, is increase the ability of certain corporations to assert control over intellectual property. Again, think drug patents and movie rights.

Is this a good thing from a global point of view? Doubtful. The kind of property rights we’re talking about here can alternatively be described as legal monopolies. True, temporary monopolies are, in fact, how we reward new ideas; but arguing that we need even more monopolization is very dubious — and has nothing at all to do with classical arguments for free trade.

Now, the corporations benefiting from enhanced control over intellectual property would often be American. But this doesn’t mean that the T.P.P. is in our national interest. What’s good for Big Pharma is by no means always good for America.

In short, there isn’t a compelling case for this deal, from either a global or a national point of view. Nor does there seem to be anything like a political consensus in favor, abroad or at home.

Abroad, the news from the latest meeting of negotiators sounds like what you usually hear when trade talks are going nowhere: assertions of forward movement but nothing substantive. At home, both Harry Reid, the Senate majority leader, and Nancy Pelosi, the top Democrat in the House, have come out against giving the president crucial “fast-track” authority, meaning that any agreement can receive a clean, up-or-down vote.

 

So what I wonder is why the president is pushing the T.P.P. at all. The economic case is weak, at best, and his own party doesn’t like it. Why waste time and political capital on this project?

My guess is that we’re looking at a combination of Beltway conventional wisdom — Very Serious People always support entitlement cuts and trade deals — and officials caught in a 1990s time warp, still living in the days when New Democrats tried to prove that they weren’t old-style liberals by going all in for globalization. Whatever the motivations, however, the push for T.P.P. seems almost weirdly out of touch with both economic and political reality.

 

 

So don’t cry for T.P.P. If the big trade deal comes to nothing, as seems likely, it will be, well, no big deal.

 

Nessuna grande intesa, di Paul Krugman

27 febbraio 2014

 

Tutti sanno che l’agenda interna della Amministrazione Obama è bloccata dinanzi alla opposizione da terra bruciata dei repubblicani. Ed è una cosa negativa: l’economia americana sarebbe in condizioni molto migliori se le proposte della Amministrazione Obama come lo American Jobs Act fossero diventate legge.

E’ meno noto che anche l’agenda internazionale della Amministrazione è bloccata, per ragioni molto diverse. In particolare, il cavallo da battaglia di quella agenda – la proposta di accordo Trans-Pacifico, o TPP – non sembra stia facendo grandi progressi, grazie ad una combinazione di difficoltà nei negoziati con gli altri paesi e di scetticismo bipartisan  in America.

Cosa pensarne? Ebbene, che è una cosa positiva, giacché è assolutamente poco probabile che il TPP sia una buona idea.  Ed è anche meno chiaro che sia qualcosa su cui ad Obama convenga spendere il suo capitale politico. In generale io sono a favore del libero commercio; ma non sarei affatto sorpreso, ed anzi sarei persino un po’ sollevato, se il TPP semplicemente uscisse di scena.

La prima cosa che si deve sapere sugli accordi commerciali in generale è che non sono quello che erano un tempo. I giorni di gloria dei negoziati commerciali – i giorni di accordi come il ‘Kennedy Round’ degli anni ’60, che ridusse bruscamente le tariffe in tutto il mondo – sono molto lontani.

Perché? Fondamentalmente perché gli accordi commerciali sono vittime del loro stesso successo: semplicemente non c’è più molto protezionismo da eliminare. A partire dall’anno 1960 la media delle imposte tariffarie è caduta di due terzi negli Stati Uniti, Il più recente rapporto sui controlli delle importazioni americane a cura della International Trade Commission pone il loro costo complessivo a meno dello 0,01 per cento del PIL.

La protezione implicita dei servizi – norme e regolamenti che, in sostanza, hanno l’effetto di bloccare la competizione straniera per effetto delle assicurazioni – sicuramente impone costi addizionali. Ma resta il fatto che, di questi tempi, gli ‘accordi commerciali’ riguardano principalmente altro.  In realtà, essi riguardano principalmente i diritti di proprietà – cose come la possibilità di applicare brevetti sui farmaci e diritti di esclusiva sui film. Ed è la stessa cosa col TPP.

C’è un mucchio di esagerazione a proposito del TPP, sia da parte dei  sostenitori che degli oppositori. Ai sostenitori piace riferirsi al fatto che i paesi al tavolo dei negoziati comprendono circa il 40 per cento dell’economia mondiale, ed essi sottintendono che questo significhi che l’accordo avrebbe un vasto significato. Ma gli scambi commerciali tra questi soggetti sono già abbastanza liberi, cosicché il TPP non farebbe una grande differenza.

Di contro, gli oppositori dipingono il TPP come un vasto complotto, suggerendo che esso porterebbe alla distruzione della sovranità nazionale e ad un passaggio di poteri alle grandi imprese. Anche questo è ampiamente esagerato. Gli interessi delle imprese otterrebbero qualche maggiore possibilità di cercare di ricorrere legalmente contro le iniziative dei governi, ma non è il caso di pensare che l’Amministrazione Obama stia segretamente mercanteggiando fuori da un contesto democratico.

Quello che il TPP farebbe, tuttavia, sarebbe incrementare la possibilità per certe imprese di affermare il loro controllo sulla proprietà intellettuale. Si pensi ancora ai brevetti sui farmaci ed ai diritti cinematografici.

Da un punto di vista globale, si tratta di una buona cosa? Lo dubito. Il tipo di diritti proprietari di cui stiamo parlando può essere altrimenti descritto come un monopolio legale. E’ vero, i monopoli temporanei sono, di fatto, il modo in cui premiamo nuove idee; ma affermare che abbiamo bisogno addirittura di una maggiore monopolizzazione è assai dubbio – e non ha proprio niente a che fare con gli argomenti classici per il libero commercio.

Ora, le imprese che beneficerebbero di un controllo rafforzato sulla proprietà intellettuale sarebbero di solito americane. Ma questo non significa che il TPP equivalga al nostro interesse nazionale. Quello che è un bene per le imprese del Big Pharma [1] non è sempre un bene per la società americana.

In poche parole, non c’è una ragione convincente per questo accordo, sia da un punto di vista globale che nazionale. Né sembra davvero esserci un ampio consenso politico a favore, all’estero o a livello nazionale.

All’estero, le notizie dall’ultimo incontro dei negoziatori somigliano a quelle che si riferiscono quando i colloqui commerciali non vanno da nessuna parte: dichiarazione di qualche progresso ma niente di sostanziale. All’interno, sia Harry Reid, il leader della maggioranza al Senato, che Nancy Pelosi, la massima esponente democratica alla Camera, hanno preso una posizione contraria al conferimento al Presidente della autorità di una “corsia preferenziale”, il che significa che ogni accordo passerà da una chiara votazione, secondo la tecnica dello “up-or-down[2].

Quello che mi chiedo è dunque perché il Presidente stia in ogni modo spingendo il TPP. L’argomentazione economica è debole, e il suo stesso Partito non lo gradisce. Perché sprecare tempo e capitale politico in questo progetto?

La mia impressione è che siamo in presenza di una combinazione tra l’orientamento più convenzionale a Washington – le Persone Molto Serie [3] sono sempre favorevoli ai tagli sui programmi sociali ed agli accordi commerciali – ed ad alti funzionari che sono finiti in una sorta di viaggio nel tempo agli anni ’90, come se vivessero ancora nei giorni nei quali i Nuovi Democratici cercavano di dimostrare di non essere dei progressisti vecchio stile, aderendo senza riserve alla globalizzazione. Qualunque sia la motivazione, tuttavia, la pressione a favore del TPP sembra persino stranamente non in sintonia con la realtà sia economica che politica.

Dunque, non piangiamo per il TPP. Se il grande accordo commerciale si risolve in niente, come sembra probabile, ebbene, vuol dire che non era un grande accordo.



[1] “Big Pharma” è un termine che si riferisce collettivamente alle imprese più grandi del settore farmaceutico, e deriva da un libro di successo del 2006 del giornalista inglese Jacky Law (il sottotitolo è: “Come le più grandi  imprese di farmaci al mondo controllano la malattia”). Delineando la storia dell’industria farmaceutica, Law mette in evidenza il fallimento di una impostazione di regolamentazione che dà per scontato che le imprese farmaceutiche producano sempre prodotti utili alla società. Questa è la copertina del libro di Law.

 

 

[2] “Up-or-down” è un voto che viene richiesto da una maggioranza esile quando la minoranza, che è una minoranza di misura, blocca la votazione. Si adopera quasi esclusivamente per temi sui quali c’è una forte polarizzazione politica. Mi pare che abbia il significato di una “decisione definitiva”, di un “prendere o lasciare”.

[3] Come è noto, questa espressione, con lettere maiuscole, è usata da Krugman per indicare una specie di automatismo dei conservatori, “Molto Seri” per definizione.

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