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La paura dei salari, di Paul Krugman (New York Times, 13 marzo 2014)

 

Fear of Wages

Paul Krugman  

Four years ago, some of us watched with a mixture of incredulity and horror as elite discussion of economic policy went completely off the rails. Over the course of just a few months, influential people all over the Western world convinced themselves and each other that budget deficits were an existential threat, trumping any and all concern about mass unemployment. The result was a turn to fiscal austerity that deepened and prolonged the economic crisis, inflicting immense suffering.

And now it’s happening again. Suddenly, it seems as if all the serious people are telling each other that despite high unemployment there’s hardly any “slack” in labor markets — as evidenced by a supposed surge in wages — and that the Federal Reserve needs to start raising interest rates very soon to head off the danger of inflation.

To be fair, those making the case for monetary tightening are more thoughtful and less overtly political than the archons of austerity who drove the last wrong turn in policy. But the advice they’re giving could be just as destructive.

O.K., where is this coming from?

The starting point for this turn in elite opinion is the assertion that wages, after stagnating for years, have started to rise rapidly. And it’s true that one popular measure of wages has indeed picked up, with an especially large bump last month.

But that bump is probably a snow-related statistical illusion. As economists at Goldman Sachs have pointed out, average wages normally jump in bad weather — not because anyone’s wages actually rise, but because the workers idled by snow and storms tend to be less well-paid than those who aren’t affected.

Beyond that, we have multiple measures of wages, and only one of them is showing a notable uptick. It’s far from clear that the alleged wage acceleration is even happening.

And what’s wrong with rising wages, anyway? In the past, wage increases of around 4 percent a year — more than twice the current rate — have been consistent with low inflation. And there’s a very good case for raising the Fed’s inflation target, which would mean seeking faster wage growth, say 5 percent or 6 percent per year. Why? Because even the International Monetary Fund now warns against the dangers of “lowflation”: too low an inflation rate puts the economy at risk of Japanification, of getting caught in a trap of economic stagnation and intractable debt.

 

 

Over all, then, while it’s possible to argue that we’re running out of labor slack, it’s also possible to argue the opposite, and either way the prudent thing would surely be to wait: Wait until there’s solid evidence of rising wages, then wait some more until wage growth is at least back to precrisis levels and preferably higher.

Yet for some reason there’s a growing drumbeat of demands that we not wait, that we get ready to raise interest rates right away or at least very soon. What’s that about?

 

La paura dei salari, di Paul Krugman

New York Times, 13 marzo 2014

 

 

Quattro anni fa, alcuni di noi guardavano con un misto di incredulità e di orrore a come il dibattito di politica economica fosse uscito completamente dei binari. Nel corso di soli pochi mesi, le persone influenti di tutto il mondo occidentale si erano persuase, e si erano convinte gli uni con gli altri, che i deficit di bilancio fossero una minaccia vitale, mettendo completamente da parte ogni preoccupazione sulla disoccupazione di massa. Il risultato fu una svolta verso l’austerità delle finanze pubbliche che approfondì e prolungò la crisi economica, provocando immense sofferenze.

Ora sta accadendo di nuovo. All’improvviso, sembra che tutte le persone serie si stiano raccontando l’una con l’altra che nonostante l’elevata disoccupazione non c’è alcuna “fiacca” nel mercato del lavoro – come sarebbe dimostrato da una presunta crescita dei salari – e che la Federal Reserve ha bisogno di cominciare ad elevare i tassi di interesse molto rapidamente per scongiurare il pericolo di inflazione.

Per esser giusti, coloro che argomentano per una restrizione monetaria sono più riflessivi e meno apertamente schierati politicamente di quei supremi magistrati dell’austerità che guidarono l’ultima svolta politica sbagliata. Ma il parere che offrono potrebbe essere proprio altrettanto distruttivo.

Va bene. Da dove viene fuori tutto questo?

Il punto di partenza per questa svolta nelle opinioni della classe dirigente è la convinzione che i salari, dopo aver stagnato per anni, hanno cominciato rapidamente a crescere.

Sennonché quell’aumento è probabilmente una illusione statistica, che dipende dalla neve. Come gli economisti della Goldman Sachs hanno sottolineato, i salari medi normalmente fanno un balzo nelle stagioni cattive – non perché crescano effettivamente i salari di ciascuno, ma perché i lavoratori inattivi per via della neve e delle tempeste tendono od essere peggio pagati di coloro che non ne sono colpiti.

Oltre a ciò, abbiamo una molteplicità di misure dei salari, e solo una di esse sta mostrando una crescita osservabile. E’ lungi dall’essere evidente che la pretesa accelerazione dei salari stia addirittura avvenendo.

E, in ogni modo, cosa c’è di sbagliato in questa storia dei salari che crescono? Nel passato, incrementi salariali di circa il 4 per cento all’anno – più del doppio del tasso attuale – sono andati di pari passo con una bassa inflazione. E c’è un ottimo argomento a favore di un elevamento dell’obbiettivo di inflazione da parte della Fed, che comporterebbe il perseguire una crescita più rapida dei salari, diciamo del 5 o 6 per cento all’anno. Perché? Perché anche il Fondo Monetario Internazionale oggi mette in guardia contro i pericoli della bassa inflazione: un tasso di inflazione troppo basso mette l’economia dinanzi al rischio di fare come il Giappone, di finire catturati in una trappola di stagnazione economica e di un debito difficile da gestire.

Oltretutto, poi, se è possibile sostenere che stiamo rapidamente uscendo da una situazione di fiacca del lavoro, è anche possibile sostenere l’opposto, e in entrambi i casi la scelta prudente sarebbe quella di aspettare: attendere finché non ci sia la prova solida di una crescita salariale, e poi attendere un altro po’ finché la crescita dei salari torni almeno ai livelli precedenti alla crisi, e preferibilmente più in alto.

Tuttavia, per qualche ragione c’è un chiasso crescente di richieste per non attendere, per esser pronti da subito ad un incremento dei tassi di interesse, o almeno per esserlo in breve tempo. Da cosa dipende?

In parte suggerirei che la risposta è che per molta gente siamo sempre fermi al 1979. Vale a dire, costoro sono eternamente all’erta contro il pericolo di una spirale fuori controllo salari-prezzi, e per qualche motivo non si sono accorti che da decenni non è più successo niente del genere. Forse è un problema generazionale. Forse è perché una crisi stile anni ’70 calza a pennello con i loro preconcetti ideologici, ma la minaccia fantasma  della stagflazione ha un’influenza spropositata sul dibattito economico.

E poi c’è il “sado-monetarismo”: la sensazione, anche troppo diffusa nei circoli bancari, che provocare sofferenza sia di per sé positivo. Ci sono alcune persone o istituzioni – ad esempio la Banca dei Regolamenti Internazionali con sede a Basilea – che vogliono veder sempre i tassi di interesse salire. La loro logica è in perenne mutamento – è per i prezzi delle materie prime; no, è per la stabilità finanziaria; no, è per i salari – ma la politica che raccomandano è sempre la stessa.

Infine, sebbene l’attuale dibattito monetario non è apertamente politico come il precedente dibattito di finanza pubblica, è difficile sfuggire all’impressione che gli interessi di classe stiano giocando un ruolo. Un discreto numero di osservatori sembra stranamente turbato dall’idea che i lavoratori stiano ottenendo aumenti, mentre i rendimenti dei possessori di bond restano bassi. E’ quasi come se si identificassero con la classe degli investitori, e si trovano a disagio con tutto quello che ci porta nei pressi della piena occupazione, e di conseguenza dà ai lavoratori maggior potere contrattuale.

Qualsiasi siano i motivi reconditi, stringere le viti del sistema monetario in tempi brevi sarebbe davvero una pessima idea. Stiamo lentamente, penosamente venendo fuori dalla crisi peggiore dopo quella della Grande Depressione. Basterebbe un nonnulla per far abortire la ripresa, e se accadesse, quasi di sicuro saremmo nelle condizioni del Giappone, bloccati dentro una trappola che potrebbe durare decenni.

Sta per davvero avviandosi una crescita dei salari? E’ tutt’altro che chiaro. Ma se così fosse, dovremmo rallegrarci e sostenere quello sviluppo di una crescita salariale, non considerarlo come una minaccia da schiacciare con una stretta monetaria.  

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