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La ricchezza al di sopra del lavoro, di Paul Krugman (New York Times 23 marzo 2014)

 

Wealth Over Work

MARCH 23, 2014 Paul Krugman

It seems safe to say that “Capital in the Twenty-First Century,” the magnum opus of the French economist Thomas Piketty, will be the most important economics book of the year — and maybe of the decade. Mr. Piketty, arguably the world’s leading expert on income and wealth inequality, does more than document the growing concentration of income in the hands of a small economic elite. He also makes a powerful case that we’re on the way back to “patrimonial capitalism,” in which the commanding heights of the economy are dominated not just by wealth, but also by inherited wealth, in which birth matters more than effort and talent.

 

To be sure, Mr. Piketty concedes that we aren’t there yet. So far, the rise of America’s 1 percent has mainly been driven by executive salaries and bonuses rather than income from investments, let alone inherited wealth. But six of the 10 wealthiest Americans are already heirs rather than self-made entrepreneurs, and the children of today’s economic elite start from a position of immense privilege. As Mr. Piketty notes, “the risk of a drift toward oligarchy is real and gives little reason for optimism.”

Indeed. And if you want to feel even less optimistic, consider what many U.S. politicians are up to. America’s nascent oligarchy may not yet be fully formed — but one of our two main political parties already seems committed to defending the oligarchy’s interests.

 

Despite the frantic efforts of some Republicans to pretend otherwise, most people realize that today’s G.O.P. favors the interests of the rich over those of ordinary families. I suspect, however, that fewer people realize the extent to which the party favors returns on wealth over wages and salaries. And the dominance of income from capital, which can be inherited, over wages — the dominance of wealth over work — is what patrimonial capitalism is all about.

To see what I’m talking about, start with actual policies and policy proposals. It’s generally understood that George W. Bush did all he could to cut taxes on the very affluent, that the middle-class cuts he included were essentially political loss leaders. It’s less well understood that the biggest breaks went not to people paid high salaries but to coupon-clippers and heirs to large estates. True, the top tax bracket on earned income fell from 39.6 to 35 percent. But the top rate on dividends fell from 39.6 percent (because they were taxed as ordinary income) to 15 percent — and the estate tax was completely eliminated.

 

Some of these cuts were reversed under President Obama, but the point is that the great tax-cut push of the Bush years was mainly about reducing taxes on unearned income. And when Republicans retook one house of Congress, they promptly came up with a plan — Representative Paul Ryan’s “road map” — calling for the elimination of taxes on interest, dividends, capital gains and estates. Under this plan, someone living solely off inherited wealth would have owed no federal taxes at all.

 

This tilt of policy toward the interests of wealth has been mirrored by a tilt in rhetoric; Republicans often seem so intent on exalting “job creators” that they forget to mention American workers. In 2012 Representative Eric Cantor, the House majority leader, famously commemorated Labor Day with a Twitter post honoring business owners. More recently, Mr. Cantor reportedly reminded colleagues at a G.O.P. retreat that most Americans work for other people, which is at least one reason attempts to make a big issue out of Mr. Obama’s supposed denigration of businesspeople fell flat. (Another reason was that Mr. Obama did no such thing.)

 

 

 

In fact, not only don’t most Americans own businesses, but business income, and income from capital in general, is increasingly concentrated in the hands of a few people. In 1979 the top 1 percent of households accounted for 17 percent of business income; by 2007 the same group was getting 43 percent of business income, and 75 percent of capital gains. Yet this small elite gets all of the G.O.P.’s love, and most of its policy attention.

Why is this happening? Well, bear in mind that both Koch brothers are numbered among the 10 wealthiest Americans, and so are four Walmart heirs. Great wealth buys great political influence — and not just through campaign contributions. Many conservatives live inside an intellectual bubble of think tanks and captive media that is ultimately financed by a handful of megadonors. Not surprisingly, those inside the bubble tend to assume, instinctively, that what is good for oligarchs is good for America.

As I’ve already suggested, the results can sometimes seem comical. The important point to remember, however, is that the people inside the bubble have a lot of power, which they wield on behalf of their patrons. And the drift toward oligarchy continues.

 

La ricchezza al di sopra del lavoro, di Paul Krugman

New York Times 23 marzo 2014

 

 

Pare che si possa dire con sicurezza che “Capitale nel Ventunesimo Secolo”, il magnum opus dell’economista francese Thomas Piketty, sia destinato ad essere il più importante libro di economia dell’anno – e forse del decennio. Il signor Piketty, probabilmente il massimo esperto mondiale di ineguaglianze dei redditi e della ricchezza, fa di più che documentare la crescente concentrazione del reddito nelle mani di una piccola élite economica. Egli avanza anche l’importante tesi per la quale staremmo tornando ad un “capitalismo patrimoniale”, nel quale i vertici che comandano sull’economia non sono solo dominati dalla ricchezza, ma anche dalla ricchezza ereditaria, laddove la nascita conta di più dell’impegno e del talento.

Per la precisione, Piketty ammette che non siamo ancora a quel punto. Sino ad oggi, la crescita dell’1 per cento dei più ricchi d’America è stata guidata dagli stipendi e dalle gratifiche dei dirigenti, piuttosto che dai redditi derivanti dagli investimenti, per non dire delle ricchezze ereditate. Ma sei su dieci degli americani più ricchi sono già eredi piuttosto che imprenditori che si sono fatti da soli, ed i figli della élite economica odierna partono da una posizione di immenso privilegio. Come Piketty osserva, “il rischio di una deriva verso l’oligarchia è reale, e lascia poco spazio all’ottimismo”.

Proprio così. E se volete provare anche minore ottimismo, considerate cosa sono capaci di combinare molti uomini politici statunitensi. La nascente oligarchia dell’America può non essere ancora pienamente sviluppata – ma uno dei due principali partiti politici sembra già impegnato a difendere gli interessi di quell’oligarchia.

Nonostante gli sforzi frenetici di alcuni repubblicani di fingersi diversi, gran parte delle persone si rende conto che il Partito Repubblicano di oggi privilegia gli interessi dei ricchi su quelli delle famiglie comuni. Ho il sospetto, tuttavia, che un numero inferiore di persone comprenda in quale misura il partito è a favore delle rendite derivanti dalla ricchezza rispetto agli stipendi ed ai salari. E il dominio dei redditi da capitale, che possono essere ereditati, sugli stipendi – il dominio della ricchezza sul lavoro – è ciò in cui consiste il capitalismo patrimoniale.

Per comprendere quello di cui sto parlando, partiamo dalle politiche effettive e dalle proposte programmatiche. E’ generalmente riconosciuto che George W. Bush fece tutto quello che poteva per tagliare le tasse sui più ricchi, al punto che i tagli che egli incluse sulla classe media furono essenzialmente una sconfitta politica dei dirigenti. Si sa molto meno che i grandi sgravi non riguardarono gli alti salari pagati alla gente ma coloro che staccano cedole sulle obbligazioni e gli eredi di ampie proprietà immobiliari. E’ vero, i più alti scaglioni sui redditi da attività lavorative scesero dal 39,6 al 35 per cento. Ma il tasso più elevato sui dividendi scese dal 39,6 per cento (poiché venivano tassati come redditi ordinari) al 15 per cento – e la tassa di successione venne completamente eliminata.

Alcuni di questi tagli vennero soppressi con il Presidente Obama, ma il punto è che la grande  spinta ai tagli fiscali degli anni di Bush fu principalmente relativa alla riduzione delle tasse sui redditi non da lavoro. E quando i repubblicani riconquistarono un ramo del Congresso, improvvisarono subito un programma –   la “road map” del Rappresentante Paul Ryan – pronunciandosi per la eliminazione delle tasse sugli interessi, sui dividendi, sui profitti da capitale e sugli immobili. Con quel programma, chi fosse vissuto unicamente di ricchezza ereditata non avrebbe dovuto pagare in alcun modo alcuna tassa federale.

L’orientamento della politica verso gli interessi dei ricchi si è rispecchiato in un orientamento della retorica politica; i repubblicani sembrano spesso così intenti ad esaltare i “creatori di posti di lavoro” che si scordano persino di menzionare i lavoratori. Nel 2012 il Rappresentante Eric Cantor, il leader della maggioranza alla Camera, tenne una famigerata commemorazione del Giorno del Lavoro con un post su Twitter che incensava i proprietari di impresa. Più di recente, è stato riferito che il signor Cantor ha ricordato ai suoi colleghi, durante un seminario del Partito Repubblicano, che la maggioranza degli americani è alle dipendenze di qualcuno, e quello almeno sarebbe un motivo per cercare di riconoscere un rilevante argomento nella pretesa denigrazione da parte di Obama sugli insuccessi della gente del mondo delle imprese (l’altra ragione è che Obama non ha mai detto niente del genere).

Di fatto, non solo la maggioranza degli americani non possiede imprese, ma i redditi di impresa, e in generale i redditi da capitale, sono sempre più concentrati nelle mani di pochi individui. Nel 1979 l’1 per cento delle famiglie più ricche realizzava il 17 per cento dei redditi di impresa; nel 2007 lo stesso gruppo aveva il 43 per cento dei redditi di impresa, ed il 75 per cento dei profitti da capitale. Tuttavia questa piccola élite occupa tutto il cuore dei repubblicani, e gran parte della loro attenzione politica.

Perché accade questo? Ebbene, si tenga a mente che i fratelli Koch [1] sono annoverati tra i dieci americani più ricchi, e lo stesso vale per i quattro eredi Walmart [2]. La grande ricchezza compra grande influenza politica . e non solo attraverso contributi elettorali. Molti conservatori vivono dentro una bolla intellettuale di gruppi di ricerca e di media asserviti che in sostanza è finanziata da una manciata di grandi donatori. Non sorprende che coloro che stanno dentro quella bolla tendano istintivamente a considerare che quello che è bene per gli oligarchi è bene per l’America.

Come ho già indicato, talora l’effetto può sembrare comico. La cosa importante da ricordare, tuttavia, è che coloro che alloggiano dentro la bolla  hanno molto potere, che esercitano nell’interesse dei loro mecenati. E la deriva verso l’oligarchia prosegue.



[1] Una famiglia, in particolare due fratelli, particolarmente attiva nel finanziamento delle iniziative propagandistiche dei conservatori americani.

[2] La Walmart Stores Inc, è una multinazionale statunitense, proprietaria dell’omonima catena di negozi al dettaglio Walmart, fondata da Sam Walton nel 1962. È il più grande rivenditore al dettaglio nel mondo, prima multinazionale al mondo nel 2010 per fatturato[1] e numero di dipendenti.

Oggi è la più grande catena operante nel canale della grande distribuzione organizzata.

Dopo la morte del fondatore, ora la multinazionale è di proprietà dei suoi eredi: il figlio Robson è anche l’attuale amministratore delegato e figura-chiave dell’azienda. Altri soci sono gli altri figli di Sam Walton: John T. Walton, Jim Walton, Alice Walton e la moglie del fondatore Helen Walton. Dopo la morte di John Walton gli è succeduta la moglie Christy Walton. (Wikipedia)

 

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