March 14, 2014, 7:47 am
I’m working on a long-form review (for the New York Review of Books) of Thomas Piketty’s epic Capital in the 21st Century; I don’t want to steal my own thunder, so a broader reaction will have to wait. But for my own edification I wanted to write up a clarification of a couple of technical points.
Piketty’s big idea is that we are in the early stages of returning to a society dominated by great dynastic fortunes, by inherited wealth. And he has an analytic argument to back up that idea. I wonder, however, how many readers will fully appreciate either the strengths of the weaknesses of that argument.
To get at what is going on in his book, I think it’s useful to do it in the reverse order from his own presentation, first laying out a necessary condition for dynastic dominance, then asking what macroeconomic forces determine whether this condition is met.
So: Imagine a wealthy family that has managed, somehow or other, to guarantee that a large fraction of its income is used to accumulate more wealth. Can this family thereby acquire a dominant position in society?
The answer depends on the relationship between r, the rate of return on assets, and g, the overall rate of economic growth. If r is less than g, dynasties are doomed to erode: even if all income from a very large fortune is devoted to accumulation, the family’s wealth will grow more slowly than the economy, and it will slowly slide into obscurity. But if r is greater than g, dynastic wealth can indeed grow to gigantic size.
So what determines r-g? Piketty stresses the effects of changes in economic growth. I find this easiest to see in terms of a standard Solow model. In the figure below, we assume that s is the aggregate rate of saving; that technological change is labor-augmenting, so that it can be thought of as increasing the number of effective workers faster than the number of actual workers; and that there is an aggregate production function Q/L = f(K/L) where Q/L is output per effective worker and K/L is capital per effective worker. The familiar diagram then looks like this:
Over time, the economy converges to steady-state growth at the rate n, which is the sum of labor force growth and technological progress, and the capital-output ratio converges to s/n.
As the figure shows, a decline in n will lead to a rise in the capital-output ratio and a fall in both r and g. Which falls more? Well, it depends on what happens to the capital share in output, which in turn depends on the elasticity of substitution between capital and labor.
I find this easiest to think of in terms of a numerical example. Let’s assume that s = .09 and initially n = .03. Then the capital-output ratio is 3; if the capital share is .3, r=.10. Now let n and hence steady-state g fall to .015. K/Q rises to 6. If the capital share doesn’t change, r falls to .05 – that is, it falls in proportion to growth. If the elasticity of substitution is less than 1, the higher ratio of capital to effective labor means a fall in the capital share, so the return on capital falls more than the growth rate. However, Piketty asserts that the elasticity of substitution is more than 1, so that the capital share rises, and r falls less than g.
And then Piketty tells us something remarkable: historically, r has almost always exceeded g – but there was an exceptional period in the 20th century, a period of rapid labor force growth and technological progress, when r was less than g. And he asserts that the kind of society we consider normal, in which high incomes reflect personal achievement rather than inherited wealth, is in fact an aberration driven by this exceptional period.
It’s a remarkable, sweeping vision. A couple of questions:
1. How much of the decline in r relative to g in the 20th century reflected fast growth, and how much reflected policies that either taxed or in effect confiscated inherited wealth? In other words, how much was destiny, how much wars and political upheaval? Piketty stresses both factors, but never gives us a relative quantitative assessment.
2. How relevant is this story to what has happened so far? In the United States, as Piketty himself stresses, soaring inequality has to date been largely been driven by labor income – by “supermanagers” (I prefer superexecutives.)
Much more when I deliver the whole thing.
Note su Piketty (per esperti)
Sto lavorando ad una estesa recensione (per la New York Review of Books) del formidabile “Capitale nel 21° Secolo” di Thomas Piketty; non voglio rubarmi la scena, dunque per un commento più ampio occorrerà attendere. Ma per mia soddisfazione personale volevo annotare una chiarimento di un paio di aspetti tecnici.
La grande idea di Picketty è che noi siamo ai primi stadi di un ritorno ad una società dominata dalle grandi fortune dinastiche, dai ricchi eredi. E per sostenere questa idea, avanza un argomento analitico. Mi chiedo, tuttavia, se molti lettori comprenderanno sia i punti di forza che di debolezza di quell’argomento.
Per arrivare allo sviluppo di quella tesi nel libro, penso sia utile farlo in ordine inverso rispetto alla sua presentazione, anzitutto stabilendo una condizione necessaria per il dominio dinastico, per poi chiedersi cosa decidono gli agenti macroeconomici se questa condizione si realizza.
Dunque: immaginiamo una famiglia ricca che abbia operato, in un modo o nell’altro, per garantirsi che una larga parte del suo reddito fosse utilizzata per accumulare ulteriore ricchezza. Può questa famiglia, in conseguenza di ciò, acquisire una posizione dominante nella società?
La risposta dipende dalla relazione tra “r”, il tasso di rendimento degli asset, e “g”, il tasso generale di crescita dell’economia. Se “r” è minore di “g”, le dinastie sono destinate all’erosione: anche se tutto il reddito derivante da una fortuna molto vasta viene destinato alla accumulazione, la ricchezza della famiglia crescerà più lentamente dell’economia, e lentamente scivolerà nell’oscurità. Ma se “r” è più grande di “g”, la ricchezza dinastica può crescere effettivamente sino a dimensioni gigantesche.
Cosa determina dunque il rapporto tra “r” e “g”? Piketty interroga gli effetti dei cambiamenti nella crescita economica. Io trovo che sia più facile osservare questo nei termini di un modello standard di Solow. Nella figura sotto, assumiamo che “s” sia il tasso aggregato di risparmio; che il mutamento tecnologico vada nel senso di aumentare la forza lavoro, in modo che si possa pensare che il numero dei lavoratori all’opera cresca più velocemente del numero dei lavoratori effettivi; e che ci sia una funzione aggregata di produzione Q/L = f(K/L), dove Q/L sta per il prodotto per lavoratore in funzione e K/L sta per il capitale per ogni lavoratore in funzione. Il diagramma consueto, allora, si sviluppa nel modo seguente:
Con il tempo, l’economia converge verso una crescita da stato stazionario ad un tasso “n”, che è la somma della crescita della forza lavoro e del progresso tecnologico, ed il rapporto tra capitale e prodotto converge verso “s/n”.
Come mostra la figura, un declino di “n” porterà ad un crescita nel rapporto capitale/prodotto e ad una caduta sia di “r” che di “g”. Cosa diminuisce maggiormente? Ebbene, dipende da cosa accade alla quota del capitale nel prodotto, che a sua volta dipende dalla elasticità di sostituzione tra capitale e lavoro.
Trovo che questo sia più facile da pensare nei termini di un esempio numerico. Consideriamo che “s” sia uguale a .09 e inizialmente “r” sia uguale a .03. In quel caso il rapporto capitale-prodotto è 3; se la quota di capitale è .3, “r” è uguale a .10. Ora facciamo che “n” e di conseguenza lo stato stazionario diminuisca a .015. K/Q sale a 6. Se la quota di capitale non cambia, “r” cade a .05 – vale a dire, cade in proporzione alla crescita. Se l’elasticità di sostituzione è inferiore a 1, il più elevato rapporto tra i capitale ed il lavoro in funzione comporta una caduta nella quota del capitale, cosicché il rendimento del capitale diminuisce maggiormente del tasso di crescita. Tuttavia, Piketty asserisce che l’elasticità di sostituzione è maggiore di uno, cosicché la quota del capitale cresce, ed “r” cade meno di “g”.
E a quel punto Picketty ci dice una cosa importante: storicamente “r” ha quasi sempre ecceduto “g”, ma c’è stato un periodo eccezionale nel 20° secolo, una periodo di rapida crescita della forza lavoro e di progresso tecnologico, nel quale “r” era inferiore di “g”. Ed egli sostiene che quel genere di società che noi consideriamo normale, nella quale gli alti redditi riflettono conquiste personali piuttosto che ricchezze ereditate, di fatto è una aberrazione prodotta da un periodo eccezionale di quella natura.
E’ una visione rilevante, di vasta portata. Un paio di domande:
1 Quanto del declino di “r” in relazione a “g” è dipeso dalla rapida crescita e quanto è dipeso da politiche, sia nella forma della tassazione che in sostanza della confisca delle ricchezze ereditate? In altre parole, quanto è dipeso dalla sorte, quanto dalle guerre e dagli sconvolgimenti politici? Piketty interroga entrambi i fattori, ma non ci fornisce mai un relativo giudizio quantitativo.
2 Quanto è importante questa ricostruzione agli effetti di quello che è accaduto sin qua? Negli Stati Uniti, come lo stesso Piketty esamina, l’ineguaglianza fortemente crescente deve essere sino ad oggi stata guidata in gran parte da redditi di lavoro – da parte dei “supermanager” (io preferisco “superdirigenti”).
Molto di più al momento in cui consegnerò l’intero lavoro.
By mm
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