Capire come si evolve il rapporto tra il pensiero degli economisti e la politica, forse, non è mai stato complicato, ma anche importante, come in questi anni.
Krugman ha definito quello che è accaduto nel dibattito economico nel corso del 2013 come una clamorosa sconfitta delle posizioni conservatrici, seppure con effetti sulla politica abbastanza lievi. Tali posizioni conservatrici, potrebbero un po’ tutte – sia pure con gradi diversi di intensità – essere fatte risalire al nucleo centrale del pensiero di derivazione ‘austriaca’, secondo il quale le crisi sono sempre fenomeni che provengono da una modifica delle condizioni ‘reali’ delle economie (per reale si intende tutto quello che deriva dall’influsso di fenomeni storici oggettivi come le grandi innovazioni tecnologiche, i cambiamenti geopolitici, oppure le guerre, le calamità naturali, i duraturi mutamenti climatici etc.). Le crisi vanno dunque assecondate, gli Stati debbono star lontani dall’idea di condizionarle con politiche attive, della spesa e del lavoro o monetarie; le crisi, come diceva Schumpeter, devono fare il loro lavoro e se la ‘pulizia’ viene pietosamente rinviata od ostacolata dalle politiche statali, in seguito le conseguenze saranno anche più dolorose.
Si comprende il nesso tra questa originaria impostazione teorica e le dottrine dell’austerità, anche se i difensori delle politiche dell’austerità quasi mai l’hanno riconosciuto, se non altro perché la radicalità di quelle teorie uscì, per riconoscimento di quasi tutti, sconfitta dalla prova delle depressione degli anni Trenta. Ma l’austerità non è mai state suffragata da particolari prove; ci si è basati sull’idea elementare che, se le crisi sono sirene di allarme di qualcosa di profondo, la cosa migliore è affrontarle ‘purificandosi, ovvero mettendo più in ordine possibile i conti pubblici. L’unica “fiducia” degli operatori economici alla quale si è mirato è consistita nel presunto effetto rassicurante di tali correzioni. Sono abbastanza note le disfatte che hanno conosciuto nel 2012 e 2013 i pochi tentativi di corredare tali politiche di sensate spiegazioni economiche (le teorie della ‘austerità espansiva’ smentite dalla analisi sul campo dello stesso FMI, la teoria di Reinhart-Rogoff sul limite invalicabile di un rapporto debito-PIL del 90 per cento).
Il punto è che quella impostazione aveva bisogno di trovare conferma in una uscita assai più rapida dalla crisi, dato che l’austerità aveva in effetti prodotto effetti vistosi di diminuzione della spesa pubblica. E invece così non è stato; i fenomeni recessivi sono proseguiti, i livelli di disoccupazione sono rimasti elevati (in notevole misura più elevati di quanto hanno raccontato le statistiche ufficiali, che non censiscono tra i disoccupati coloro che non cercano più attivamente il posto di lavoro che non troverebbero), il PIL è calato dappertutto per un periodo assai più lungo di quello che si prevedesse. E se il PIL diminuisce più del debito, il peso del debito non migliora ma peggiora. Dunque, l’austerità non ha incontrato quella “fata della fiducia” che si presumeva incontrasse; gli effetti non ci sono stati.
Questa sintesi è un po’ più semplice di quello che è però accaduto. I sostenitori dell’austerità, perché le loro tesi stessero in piedi, non avevano solo bisogno che dalla crisi si uscisse rapidamente. Avevano anche bisogno che i tentativi di fare politiche diverse – come quello di Obama con lo stimulus americano, e della politica monetaria della Fed – producessero gli effetti di un forte incremento dell’inflazione e dei tassi di interesse. Se la situazione fosse stata ordinaria, un forte incremento della base monetaria per le politiche di sostegno pubblico avrebbe dovuto produrre tali effetti. Invece è accaduto il contrario: i tassi di interesse sono rimasti dappertutto ai minimi storici e l’inflazione non si è accesa; semmai cominciano a delinearsi seri sintomi di deflazione. A quel punto doveva apparire chiaro che quelle politiche erano prive di fondamento, che l’errore – oltre a riguardare quei rimedi – riguardava evidentemente la natura della malattia, la diagnosi.
Sul campo è rimasta solo la teoria economica che prefigura la possibilità di una crisi derivante da una grave flessione della domanda. Cosa significa? Significa che occorreva ammettere una malattia che non era mai stata prevista dalle teorie economiche conservatrici: che un shock dell’economia derivante da vari fattori (le bolle immobiliari e finanziarie scoppiate nel 2007 e seguenti) non solo potesse portare i soggetti privati ad un veloce tentativo di ridurre i rapporti di indebitamento, ma anche ad un tale peggioramento delle aspettative economiche – che si materializza in tassi di interesse vicini al limite dello zero – da ridurre in modo generalizzato la voglia di investire. Invece della “fata della fiducia” si è materializzata la “strega della trappola di liquidità”. La teoria economica che è rimasta sul campo, dunque, è quella di Keynes. Si può aggiungere anche di Minsky, per quanto attiene all’idea che le crisi nascano da tendenze intrinseche del settore della finanza, e di Irving Fisher, per quanto riguarda il rapporto tra glishock provocati dallo scoppio delle bolle e la simultanea tendenza a ridurre il debito da parte dei soggetti privati. E si può tranquillamente aggiungere anche di Krugman ed altri, per quanto riguarda il fatto che – dopo le crisi dei decenni passati e soprattutto la lunga decadenza del Giappone – tracolli di questa natura siano del tutto possibili anche in questo millennio.
Qua entra in ballo la politica, o meglio le politiche. Come se nel corso di un pericolo di naufragio, in una barca nella quale il timone non comanda, i marinai in coperta dovessero all’improvviso spostarsi da una parte all’altra dell’imbarcazione, ai nostri marinai è mancato il coraggio di riconoscere i fatti. Si sono date versioni molteplici. Per limitarsi ai paesi avanzati, negli USA ci si incoraggia per una migliore reazione dell’economia, anche in conseguenza di quello che si è fatto, sia pure insufficientemente, ma si nasconde il fatto che la spesa pubblica reale americana è notevolmente calata anch’essa, perché allo stimulus di Obama ha fatto contrasto il contro-stimulus derivante dalle misure non approvate per la contrarietà dei repubblicani, con effetti pesanti sugli Stati e sulle comunità locali. E si cerca di non vedere che i dati pure non entusiasmanti sull’occupazione sarebbero assai peggiori se si mettessero nel conto coloro che il lavoro non lo cercano perché non lo trovano. In Inghilterra (vedi il post di Wren-Lewis sull’argomento) quando ci si è accorti che l’austerità non funzionava, la si è in pratica interrotta con qualche effetto, ma non quello di ritrovare una rotta definitiva. E, nel contempo, si è addirittura cercato di negare la correzione, perché sarebbe stato politicamente sconveniente. La Commissione Europea che dall’inizio aveva stabilito di aggrapparsi, nel naufragio, agli andamenti della Germania, ha semplicemente continuato a farlo; trascurando il fatto che se la Germania non fosse nell’euro, il marco tedesco sarebbe salito molto in alto, ovvero che il paese più forte ha ora una rendita indiscutibile. Nel frattempo, in attesa delle prossime elezioni, l’incoraggiamento ai più deboli si limita ad una sorta di training autogeno fondato su miglioramenti invisibili (il caso più clamoroso è quello dell’Irlanda, presunto ‘ragazzo prodigio’ dell’austerità, dalla quale emigrano 80.000 persone all’anno e che ora si trova dinanzi all’enorme problema di rinunciare a tutte le facilitazioni fiscali che avevano consentito una enorme presenza di imprese multinazionali). Il Giappone, che con incertezze sta cercando politiche nuove, se non altro perché un quindicennio di deflazione non debellata lo ha reso abbastanza immune dai racconti illusori. Per finire con l’Italia, il cui racconto – in pratica ‘scivolato’ senza tante spiegazioni dall’austerità alla crescita – si basa per il momento solo su un simultaneo trasferimento di risorse, da dove possono essere raschiate ai fattori della produzione. Oltre a ciò, la insondabile speranza che in Europa prima o poi qualcosa cambi.
Quindi, mi pare che la spiegazione di Krugman sia precisa. Sono anni preziosi per il pensiero economico, ma il pensiero economico non ha affetti automatici sulla politica. La politica non dipende solo da quello che si accerta essere più conveniente. Un tema importante, nel pensiero economico, è quello che viene chiamato la ‘vischiosità’ dei salari nominali. Ebbene, la politica è vischiosa nello stesso modo. La strada per quello che si potrebbe definire un ‘laicismo’ della politica economica è lunga, molto più lunga di quello che sembrava più di mezzo secolo fa. Non a caso gli economisti progressisti nel mondo cominciano a chiedersi quanto questo non dipenda semplicemente da interessi di classe.
Infine propongo un libro che avevo letto mesi orsono e, alla luce di questi pensieri, ho riletto. Si tratta di “L’immaginazione economica”, di Sylvia Nasar (Garzanti, 2013). Il titolo originale sarebbe “La storia del genio economico”, ma il termine ‘immaginazione’ nella versione italiana è molto appropriato. Pagine di biografia, di intuizione scientifica e di storia collettiva, tra di loro intrecciate in modo spesso affascinante. Malthus, Ricardo, Marx e Engels, Marshall, Schumpeter, Fisher e Keynes, Rosa Luxemburg e Joan Robinson, Samuelson ed altri ancora. Immaginare, ovvero “configurare immagini nella propria mente”: intrecciare brani di realtà, modelli di interpretazione, verificabili risultanze collettive, derivarne intuizioni sul senso della storia. Non mi dilungo, perché risulterebbe assai pretenzioso, a spiegare perché l’ho trovato così utile. E’ un bel racconto delle coerenze e delle vie di uscita fuorvianti nella storia del pensiero economico. Che ha, mi pare, un solo difetto: manca il capitolo finale di questo disgraziato ventennio, che pure appare così importante in quella storia complessiva. Come se i nodi fossero tornati tutti al pettine.
NOTA 1: peraltro, alcuni giorni dopo queste mie modeste note riassuntive, è apparso un nuovo breve post di Krugman – “Memorie dell’austerità”, del 31 marzo – che torna in modo molto efficace sul tema del rapporto tra ricerche economiche e scelte politiche in questi anni.
NOTA 2: e un altro testo apparso successivamente (Simon Wren-Lewis, “La sinistra e la politica economica, del 31 marzo 2014) del quale raccomanderei la lettura è ora tradotto ed appare in “Altri economisti” ed anche in “Selezione della settimana”.
By mm
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