APR 30, 2014
BERKELEY – In the online journal The Baffler, Kathleen Geier recently attempted a roundup of conservative criticism of Thomas Piketty’s new book Capital in the Twenty-First Century. The astonishing thing to me is how weak the right’s appraisal of Piketty’s arguments has turned out to be.
Piketty’s argument is detailed and complicated. But five points seem particularly salient:
1. A society’s wealth relative to its annual income will grow (or shrink) to a level equal to its net savings rate divided by its growth rate.
2. Time and chance inevitably lead to the concentration of wealth in the hands of a relatively small group: call them “the rich.”
3. The economy’s growth rate falls as the low-hanging fruit of industrialization is picked; meanwhile, the net savings rate rises, owing to a rollback of progressive taxation, the end of the chaotic destruction of the first half of the twentieth century, and the absence of compelling sociological reasons for the rich to spend their incomes or their wealth rather than save it.
4. A society in which the rich have a very high degree of economic, political, and sociocultural influence is an unpleasant society in many ways.
5. A society in which the wealth-to-annual-income ratio is a very large multiple of the growth rate is one in which control over wealth falls to heirs – what Geier elsewhere has called an “heiristocracy”; such a society is even more unpleasant in many ways than one dominated by a meritocratic and entrepreneurial rich elite.
Now, even in thumbnail form, this is a complicated argument. As a result, one would expect that it would attract a large volume of substantive criticism. And, indeed, Matt Rognlie has attacked (4), arguing that the return on wealth varies inversely with the wealth-to-annual-income ratio so strongly that, paradoxically, the more wealth the rich have, the lower their share of total income. Thus, their economic, political, and sociocultural influence is weaker as well.
Tyler Cowen of George Mason University, echoing Friedrich von Hayek, has argued against (4) and (5). The “idle rich,” according to Cowen, are a valuable cultural resource precisely because they form a leisured aristocracy. It is only because they are not bound to the karmic wheel of earning, getting, and spending on necessities and conveniences that they can take the long and/or heterodox view of things and create, say, great art.
Still others have waved their hands and hoped for a new industrial revolution that will create more low-hanging fruit and be accompanied by another wave of creative destruction. Should that happen, more upward mobility will be possible, thus negating (2) and (3).
But the extraordinary thing about the conservative criticism of Piketty’s book is how little of it has developed any of these arguments, and how much of it has been devoted to a furious denunciation of its author’s analytical abilities, motivation, and even nationality.
Clive Crook, for example, argues that “the limits of the data [Piketty] presents and the grandiosity of the conclusions he draws…borders on schizophrenia,” rendering conclusions that are “either unsupported or contradicted by [his] own data and analysis.” And it is “Piketty’s terror at rising inequality,” Crook speculates, that has led him astray.
Meanwhile, James Pethokoukis thinks that Piketty’s work can be reduced to a tweet: “Karl Marx wasn’t wrong, just early. Pretty much. Sorry, capitalism. #inequalityforevah.”
And then there is Allan Meltzer’s puerile accusation of excessive Frenchness. Piketty, you see, worked alongside his fellow Frenchman Emmanuel Saez “at MIT, where…the [International Monetary Fund’s] Olivier Blanchard, was a professor….He is also French. France has, for many years, implemented destructive policies of income redistribution.”
Combining these strands of conservative criticism, the real problem with Piketty’s book becomes clear: its author is a mentally unstable foreign communist. This revives an old line of attack on the US right, one that destroyed thousands of lives and careers during the McCarthy era. But the depiction of ideas as being somehow “un-American” has always been an epithet, not an argument.
Now, in center-left American communities like Berkeley, California, where I live and work, Piketty’s book has been received with praise bordering on reverence. We are impressed with the amount of work that he and his colleagues have put into collecting, assembling, and cleaning the data; the intelligence and skill with which he has constructed and presented his arguments; and how much blood Arthur Goldhammer sweated over the translation.
To be sure, everyone disagrees with 10-20% of Piketty’s argument, and everyone is unsure about perhaps another 10-20%. But, in both cases, everyone has a different 10-20%. In other words, there is majority agreement that each piece of the book is roughly correct, which means that there is near-consensus that the overall argument of the book is, broadly, right.
Unless Piketty’s right-wing critics step up their game and actually make some valid points, that will be the default judgment on his book. No amount of Red-baiting or French-bashing will change that.
Il problema della destra a proposito di Piketty
J. Bradford DeLong, 30 aprile 2014
BERKELEY – Nel periodico on-line The Baffler, Kathleen Geier [1] di recente ha cercato di riassumere le critiche dei conservatori sul libro di Thomas Piketty “Il capitale nel ventunesimo secolo”. Secondo me la cosa stupefacente è quanto abbia finito con l’essere debole la valutazione da parte della destra degli argomenti di Piketty.
Il ragionamento di Piketty è dettagliato e complesso. Ma cinque punti sembrano particolarmente rilevanti:
1 – La ricchezza di una società in rapporto al suo reddito annuale crescerà (o si restringerà) ad un livello pari al suo tasso di risparmio netto diviso per il suo tasso di crescita.
2 – Il tempo e la fortuna portano inevitabilmente la concentrazione della ricchezza nelle mani di una gruppo relativamente piccolo: chiamiamoli “i ricchi”.
3 – Il tasso di crescita dell’economia scende quando i frutti più semplici della industrializzazione sono colti; nel frattempo, il tasso netto dei risparmi sale, a seguito di una riduzione della tassazione progressiva, dell’esaurirsi della distruzione caotica della prima metà del ventesimo secolo, e della assenza di impellenti ragioni sociologiche per i ricchi di spendere i loro redditi o le loro ricchezze piuttosto che risparmiarle.
4 – Una società nella quale i ricchi hanno un grado elevato di influenza economica, politica e socioculturale è in molti sensi una società sgradevole.
5 – Una società nella quale il rapporto tra ricchezza e reddito nazionale è un multiplo assai ampio del tasso di crescita è una società nella quale il controllo della ricchezza ricade sugli eredi – quella che Geier chiama in altro modo una “ereditocrazia [2]”; una società del genere in molti sensi è persino più sgradevole di quella dominata da una ricca élite meritocratica ed imprenditoriale.
Ora, anche in forma concisa, questo è un argomento complicato. Di conseguenza, ci si aspetta che attiri una gran mole di critiche sostanziali. E, in effetti, Matt Rognlie è partito all’attacco (del punto 4), sostenendo che il rendimento delle ricchezza varia inversamente al rapporto ricchezza/reddito annuale in modo così forte che, paradossalmente, più ricchezza hanno i ricchi, più bassa è la loro quota del reddito totale. Di conseguenza, anche la loro influenza economica, politica e socioculturale è più debole.
Tyler Cowen, dell’Università George Mason, echeggiando Friedrich von Hayek, ha argomentato contro i punti 4 e 5. Secondo Cowen, il “ricco nullafacente” è una risorsa culturale apprezzabile precisamente perché costituisce una aristocrazia del ‘bel vivere’. Soltanto perché essi non sono vincolati dall’ingranaggio obbligato [3] del guadagnare, del ricevere e dello spendere per le necessità e le convenienze, essi possono assumere un punto di vista sulle cose lungimirante e/o eterodosso e creare, diciamo così, la grande arte.
Altri ancora hanno salutato ed auspicato una nuova rivoluzione industriale che creerà maggiori occasioni da cogliere con facilità e sarà accompagnata da un’altra ondata di distruzione creativa. Se ciò dovesse accadere, sarà possibile una maggiore mobilità verso l’alto, di conseguenza annullando i punti 2 e 3.
Ma la cosa straordinaria a proposito delle critiche conservatrici al libro di Piketty è quanto poco essa abbia sviluppato uno qualsiasi di questi argomenti, e quanto si sia dedicata ad una denuncia furiosa delle qualità analitiche del suo autore, delle sue motivazioni e persino della sua nazionalità.
Clive Crook, ad esempio, sostiene che “i limiti dei dati offerti da Piketty e la grandiosità delle conclusioni che traccia …. confinano con la schizofrenia”, restituendo conclusioni che sono “sia non supportate che contraddette dalle (sue) stesse statistiche ed analisi”. Ed è il “terrore di Piketty per l’ineguaglianza crescente”, suppone Crook, che lo ha portato fuori strada.
Nel frattempo, James Pethokoukis pensa che il lavoro di Piketty possa essere ridotto ad un tweet: “Karl Marx non aveva torto, era solo prematuro. Piuttosto. Spiacente per il capitalismo. #ineguaglianzapersempre”.
E c’è poi l’accusa puerile di Allan Meltzer di eccessivo ‘francesismo’. Piketty, sapete, ha lavorato a fianco del suo collega francese Emmanuel Saez “al MIT, dove … Olivier Blanchard (del Fondo Monetario Internazionale) era docente …. Anche lui francese. La Francia ha messo in atto, per molti anni, politiche distruttive di redistribuzione del reddito.”
Se si combinano questi filoni delle critiche conservatrici, il problema reale col libro di Piketty diventa chiaro: il suo autore è un comunista straniero mentalmente instabile. La qual cosa resuscita una vecchia linea di attacco della destra americana, quella che distrusse migliaia di vite e di carriere durante il periodo di McCarthy. Ma la raffigurazione delle idee come se fossero qualcosa di “nonamericano” è stato sempre un epiteto, non un argomento.
Ora, nelle comunità americane di centro-sinistra, come a Berkeley, in California, dove io vivo e lavoro, il libro di Piketty è stato accolto con elogi al limite della venerazione. Siamo rimasti impressionati dalla quantità di lavoro che lui ed i suoi colleghi hanno speso nel raccogliere, mettere assieme e chiarire i dati; dall’intelligenza e dalla competenza con la quale ha costruito e presentato i suoi argomenti; e da quanto sangue Arthur Goldhammer ha sudato nella traduzione.
Si può star certi che ognuno non concordi con il 10-20% del ragionamento di Piketty, e che ognuno sia forse insicuro di un altro 10-20%. Ma, in entrambi i casi, ognuno possiede un suo diverso 10-20%. In altre parole, c’è un accordo maggioritario sul fatto che ogni parte del libro sia grosso modo corretta, il che significa che c’è un quasi-consenso sul fatto che l’argomentazione complessiva del libro sia, in generale giusta.
Se la destra nelle sue critiche non alza il tiro e non avanza alcuni argomenti di maggiore sostanza, questo finirà con l’essere un modo fallimentare di giudicare il suo libro. Nessuna dose di anti-socialismo o di anti-francesismo cambierà questo dato di fatto.
[1] Giornalista statunitense che scrive, appunto, sul periodico di critica politica, culturale ed economica The Baffler (“La questione difficile”) ed anche sul giornale The Nation.
[2] Chiaramente un neologismo per la ‘crazia’ degli eredi, cioè il potere in mano non agli “ottimi” o più meritevoli (ἄριστος), bensì alle dinastie dei più ricchi. La giornalista però si inventa un termine più astruso che a tentare di tradurlo alla lettera sarebbe “eredistocrazia”.
[3] “Karmic” è qua in senso letterale, credo, di “compito”, “obbligo”.
By mm
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