APRIL 6, 2014 Paul Krugman
Econonerds eagerly await each new edition of the International Monetary Fund’s World Economic Outlook. Never mind the forecasts, what we’re waiting for are the analytical chapters, which are always interesting and even provocative. This latest report is no exception. In particular, Chapter 3 — although billed as an analysis of trends in real (inflation-adjusted) interest rates — in effect makes a compelling case for raising inflation targets above 2 percent, the current norm in advanced countries.
This conclusion fits in with other I.M.F. research. Last month the fund’s blog — yes, it has one — discussed the problems created by “lowflation,” which is nearly as destructive as outright deflation. An earlier edition of the World Economic Outlook analyzed historical experience with high debt, and found that countries that were willing to let inflation erode their debt — including the United States — fared much better than those, like Britain after World War I, that clung to monetary and fiscal orthodoxy.
But the I.M.F. evidently doesn’t feel able to say outright what its analysis clearly implies. Instead, the report resorts to euphemisms that preserve deniability: the analysis “could have implications for the appropriate monetary policy framework.”
So what makes the obvious unsayable? In a direct sense, what we’re seeing is the power of conventional wisdom. But conventional wisdom doesn’t come from nowhere, and I’m increasingly convinced that our failure to deal with high unemployment has a lot to do with class interests.
First, let’s talk about the case for higher inflation.
Many people understand that a falling price level is a bad thing; nobody wants to turn into Japan, which has struggled with deflation since the 1990s. What’s less understood is that there isn’t a red line at zero: an economy with 0.5 percent inflation is going to have many of the same problems as an economy with 0.5 percent deflation. That’s why the I.M.F. warned that “lowflation” is putting Europe at risk of Japanese-style stagnation, even though literal deflation hasn’t happened (yet).
Moderate inflation turns out to serve several useful purposes. It’s good for debtors — and therefore good for the economy as a whole when an overhang of debt is holding back growth and job creation. It encourages people to spend rather than sit on cash — again, a good thing in a depressed economy. And it can serve as a kind of economic lubricant, making it easier to adjust wages and prices in the face of shifting demand.
But how much inflation is appropriate? European inflation is below 1 percent, which is clearly too low, and U.S. inflation isn’t that much higher. But would it be enough to get back to 2 percent, the official inflation target in both Europe and the United States? Almost certainly not.
You see, monetary experts have long known about the case for moderate inflation, but back in the 1990s, when the 2 percent target was hardening into policy orthodoxy, they thought that 2 percent was high enough to do the job. In particular, they thought it was enough to make liquidity traps — periods when even an interest rate of zero isn’t low enough to restore full employment — very rare. But America has now been in a liquidity trap for more than five years. Clearly, the experts were wrong.
Furthermore, as the latest I.M.F. report shows, there’s strong evidence that changes in the global economy are increasing the tendency of investors to hoard cash rather than put funds to work, thereby increasing the risk of liquidity traps unless the inflation target is raised. But the report never dares to say this outright.
So why is the obvious unsayable? One answer is that serious people like to prove their seriousness by calling for tough choices and sacrifice (by other people, of course). They hate being told about answers that don’t involve more suffering.
And behind this attitude, one suspects, lies class bias. Doing what America did after World War II — using low interest rates and inflation to erode the debt burden — is often referred to as “financial repression,” which sounds bad. But who wouldn’t prefer modest inflation and a bit of asset erosion to mass unemployment? Well, you know who: the 0.1 percent, who receive “only” 4 percent of wages but account for more than 20 percent of total wealth. Modestly higher inflation, say 4 percent, would be good for the vast majority of people, but it would be bad for the superelite. And guess who gets to define conventional wisdom.
Now, I don’t think that class interest is all-powerful. Good arguments and good policies sometimes prevail even if they hurt the 0.1 percent — otherwise we would never have gotten health reform. But we do need to make clear what’s going on, and realize that in monetary policy as in so much else, what’s good for oligarchs isn’t good for America.
Oligarchi e denaro, di Paul Krugman
New York Times 6 aprile 2014
I ‘patiti’ dell’economia aspettano avidamente ogni nuova edizione del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale. Non tanto per le previsioni, quello di cui siamo in attesa sono i capitoli analitici, che sono spesso interessanti e persino provocatori. Quest’ultimo rapporto non fa eccezione. Il Capitolo 3 – sebbene presentato come una analisi delle tendenze dei tassi di interesse reali (corretti per l’inflazione) – in effetti avanza argomenti convincenti per elevare gli obbiettivi di inflazione sopra il 2 per cento, il livello attualmente adottato nei paesi avanzati.
Questa conclusione calza con un’altra ricerca del FMI. Il mese scorso, il blog del Fondo – sì, il FMI ne ha uno – dibatté i problemi creati dalla “lowflation” [1], che è quasi altrettanto distruttiva della deflazione. Una precedente edizione del World Economic Outlook aveva analizzato le esperienze storiche con debiti elevati, ed aveva scoperto che dove si volle lasciar erodere il debito dall’inflazione – compresi gli Stati Uniti – le cose andarono assai meglio che dove, come nell’Inghilterra dopo la Prima Guerra Mondiale, si restò ancorati all’ortodossia monetaria e della finanza pubblica.
Ma il FMI evidentemente non si sente nelle condizioni di dire apertamente quello che le sue analisi chiaramente implicano. Piuttosto, il rapporto ricorre ad un eufemismo che consente possibili ritrattazioni: l’analisi “potrebbe avere implicazioni per il quadro appropriato di politica monetaria”.
Che cos’è, dunque, che rende indicibile ciò che è evidente? In modo esplicito, siamo qua in presenza del potere della cosiddetta “saggezza convenzionale” [2]. Ma la saggezza convenzionale non viene dal nulla, ed io sono sempre più convinto che la nostra incapacità di misurarci con una elevata disoccupazione abbia molto a che fare con interessi di classe.
Ma parliamo prima del tema di una inflazione più alta.
Molte persone capiscono che un livello dei prezzi in diminuzione è una cosa negativa; nessuno vuole diventare come il Giappone, che ha combattuto con la deflazione a partire dagli anni ’90. Quello che si comprende meno è che non esiste una linea rossa attorno allo zero: una economia con una inflazione dello 0,5 per cento è destinata ad avere molti problemi identici ad una economia con una deflazione allo 0,5 per cento. Questa è la ragione per la quale il FMI ha ammonito che la ‘bassa inflazione’ sta mettendo l’Europa al rischio di una stagnazione sul modello del Giappone, anche se una letterale deflazione non è (ancora) intervenuta.
Si scopre così che una moderata inflazione serve ad una molteplicità di scopi. E’ una cosa positiva per i debitori – e di conseguenza è positiva per l’economia nel suo complesso quando un eccesso di debito trattiene la crescita e la creazione di posti di lavoro. Incoraggia le persone a spendere anziché a starsene seduti sui soldi contanti – e anche questa è una cosa positiva in un’economia depressa. Inoltre può agire come una sorta di lubrificante economico, rendendo più semplice correggere salari e prezzi a fronte di una domanda malferma.
Ma quanta inflazione sarebbe giusta? L’inflazione europea è al di sotto dell’1 per cento, chiaramente troppo bassa, e quella statunitense non è molto più elevata. Ma sarebbe sufficiente tornare al 2 per cento, l’obbiettivo ufficiale di inflazione sia in Europa che negli Stati Uniti? Quasi certamente no.
Vedete, gli esperti monetari conoscono da lungo tempo il tema della moderata inflazione, ma nei passati anni ’90, quando l’obbiettivo del 2 per cento si consolidò nell’ortodossia politica, essi pensarono che il 2 per cento fosse sufficiente allo scopo. In particolare, essi pensarono che fosse sufficiente per rendere le trappole di liquidità – i periodi nei quali persino un tasso di interesse a zero non è abbastanza basso per ripristinare la piena occupazione – del tutto improbabili. Ma l’America è oggi in una trappola di liquidità da più di cinque anni. Chiaramente, gli esperti avevano torto.
Inoltre, come l’ultimo rapporto del FMI dimostra, ci sono forti prove che i mutamenti nell’economia globale stanno accrescendo la tendenza degli investitori ad accumulare contante piuttosto che mettere in attività finanziamenti, di conseguenza accrescendo il rischio di trappole di liquidità se l’obiettivo di inflazione non viene elevato. Ma il rapporto non ha mai l’ardimento di dire queste cose apertamente.
Perché, dunque, ciò che è evidente è indicibile? Una risposta è che alla persone serie fa piacere dar prova della loro serietà pronunciandosi per scelte dure e per sacrifici (da parte degli altri, naturalmente). Odiano di sentire racconti con risposte che non comportano maggiori sofferenze.
Ed è lecito sospettare che questa attitudine dipenda da una faziosità di classe. Fare quello che l’America fece dopo la Seconda Guerra Mondiale – utilizzare i bassi interessi e l’inflazione per erodere il peso del debito – viene spesso riferito col termine “repressione finanziaria”, che sembra una cosa cattiva. Ma chi non preferirebbe una modesta inflazione ed un po’ di erosione negli asset alla disoccupazione di massa? Ebbene, voi sapete chi: lo 0,1 per cento dei più ricchi, che riceve ‘soltanto’ il 4 per cento dei compensi ma realizza più del 20 per cento della ricchezza totale. Una inflazione modestamente più elevata, diciamo al 4 per cento, sarebbe positiva per la grande maggioranze delle persone, ma sarebbe negativa per la superélite. E chiedetevi un po’ chi ha la possibilità di fissare ciò che è convenzionalmente saggio.
Ora, io non penso che gli interessi di classe siano onnipotenti. Talvolta buoni argomenti e buone politiche prevalgono anche se colpiscono lo 0,1 per cento dei più ricchi – altrimenti non avremmo mai avuto la riforma sanitaria. Ma abbiamo bisogno di rendere chiaro cosa sta succedendo, e renderci conto che, nella politica monetaria come in tante altre cose, quello che è positivo per gli oligarchi non è positivo per l’America.
[1] Ovvero, la bassa inflazione.
[2] E’ una espressione che risale esattamente a Keynes, che chiamava in questo modo i punti di vista più tradizionali dell’economia classica (talvolta li chiamava anche “il punto di vista del Tesoro”).
L’ortodossia economica del Regno Unito dopo la Prima Guerra Mondiale fu messa in atto per la principale responsabilità dell’allora giovane Primo Ministro Winston Churchill. Keynes si batté strenuamente contro quella politica di rigida difesa di una esagerata parità aurea. Poiché aveva da poco pubblicato un libro che aveva avuto una straordinaria fortuna (dal titolo “Le conseguenze economiche della pace”) – con il quale aveva attaccato con durezza gli accordi di pace ‘capestro’ imposti alla Germania, giudicandoli suscettibili di portare prima o poi al riarmo ad a una seconda guerra – decise di pubblicare un altro piccolo saggio sulla politica economica inglese del dopoguerra, questa volta con il titolo “Le conseguenze economiche di Mr. Churchill”.
By mm
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