April 6, 2014, 2:50 pm
I’ve been thinking about how we talk about — or don’t talk about — the desirability of low inflation targets. As I noted the other day, the lates IMF World Economic Outlook makes a compelling case for raising the target above 2 percent — but avoids saying so explicitly, resorting to coded euphemisms. Meanwhile, inflation paranoia is very much a partisan thing. In my class notes for tomorrow I list the signatories of the economists’ letter warning about dollar “debasement” from quantitative easing; it’s obvious that everyone on the list is a highly committed Republican, and some people with the right ideological credentials are on board even though they have no relevant professional credentials. (William Kristol and Dan Senor, monetary experts?)
So what’s going on here? Let me suggest that it is, ultimately, a class thing. Monetary policy isn’t really technocratic and politically neutral; moderate inflation may be good for employment, especially when you’re trying to work off a debt overhang, but it’s bad for the 0.1 percent. And that fact ends up exerting a huge influence on the discussion.
Let me start with a bit of a historical puzzle, or rather a puzzle about how history is remembered. Throughout the recent debate over monetary policy there have been apocalyptic warnings about Zimbabwe/Weimar and all that, but also constant invocations of the 1970s. My side of the debate has made a point of explaining why this situation is nothing like the 70s. But ask a different question: how did the 70s get framed as the ultimate bad time? For sure they weren’t good — but the really bad times for ordinary working families were the big recessions, which took place under Reagan, to some extent under Bush I, and above all after the financial crisis:
Economic Policy Institute
Think about how weird it is, given this history, for people in 2010 or 2011, amid the wreckage, to be saying “Watch out — if we’re not careful this could turn into the seventies!” (cue ominous soundtrack).
But there were some people for whom the 70s really were the worst of times — namely, owners of financial assets. Here’s the ratio of financial assets held by households to GDP versus the core inflation rate:
Household financial assets/GDP, core inflation
And who cares a lot about financial assets, not so much about labor income? The 0.1 percent, who according to the Piketty-Saez database “only” get about 4 percent of total wages but have more than 20 percent of the wealth and surely a larger share of financial assets:
Carmen Reinhart has argued, persuasively, that highly indebted countries normally work off their debt in large part through “financial repression” — keeping interest rates low while inflating part of the debt away. The thing is, although this sounds bad, it actually isn’t — for the vast majority of people. Britain did far better through financial repression after World War II than it did through orthodoxy after World War I.
But there is one small but influential group that is in fact hurt by financial repression which is just like what Hitler did to the Jews: again, the 0.1 percent.
Now, I don’t think the 0.1 percent and their defenders are secretly twirling their mustaches, snickering over how they’re using delusions of sound policy to enrich themselves at the expense of the 99 percent. The Kochs don’t even have mustaches. But I do think that the very real conflict between what’s good for oligarchs and what’s good for the economy is, indirectly, having a powerful effect in distorting the debate.
Oligarchia e politica monetaria
Stavo pensando ai modi in cui parliamo – o non parliamo – della desiderabilità di bassi obbiettivi di inflazione. Come ho notato l’altro giorno, lo World Economic Outlook del FMI avanza un argomento convincente per elevare l’obbiettivo sopra il 2 per cento – ma evita di dirlo esplicitamente, cosicché ricorre ad eufemismi in codice. Contemporaneamente, la paranoia per l’inflazione è una attitudine molto partigiana. Nei miei appunti per la lezione di domani ho elencato le firme di economisti che mettevano in guardia da una ‘svalutazione’ del dollaro a seguito della ‘facilitazione quantitativa’ [1]; è evidente che tutti in quella lista sono assai vicini ai repubblicani, ed alcune persone con credenziali ideologiche di destra sono nel gruppo pur non avendo alcuna rilevante credenziale professionale (William Kristol e Dan Senor, esperti monetari?).
Dunque, cosa sta accadendo in questo caso? Fatemi dire che, in ultima analisi, è una cosa che rimanda ad interessi di classe. La politica monetaria non è, in realtà, tecnicistica e politicamente neutrale; una inflazione moderata può essere una cosa buona per l’occupazione, specialmente se si sta cercando di smaltire un eccesso di debito, ma questo è negativo per lo 0,1 per cento dei più ricchi. E quella circostanza finisce per esercitare una vasta influenza sul dibattito.
Fatemi partire con un specie di indovinello storico, o meglio con un indovinello su come la storia viene rammentata. Nel corso del recente dibattito sulla politica monetaria abbiamo assistito ad ammonimenti apocalittici sui casi dello Zimbabwe e di Weimar [2] e robe simili, ma anche a ripetute invocazioni degli anni ’70. Il mio schieramento ha detto una cosa importante, spiegando perché la situazione era differente dagli anni ’70. Ma poniamoci una diversa domanda: in che senso ci si riferisce agli anni ’70 come al più recente periodo negativo? Perché certamente essi non furono positivi – ma i tempi veramente cattivi per le famiglie normali di lavoratori furono le grandi recessioni, che presero piede sotto Reagan, in qualche misura sotto il primo Bush, e soprattutto dopo la crisi finanziaria:
Economic Policy Institute
Si pensi a come sarebbe stato bizzarro, data questa storia, se la gente, nel 2010 o 2011, nel mezzo del naufragio, avesse affermato: “Attenzione, se non stiamo prudenti potremmo finire come negli anni settanta!” (spunto per una infausta colonna sonora).
Ma c’erano persone per le quali gli anni ’70 furono davvero il peggiore dei periodi – in particolare, i proprietari di assets finanziari. Ecco il rapporto tra gli asset finanziari detenuti dalle famiglie ed il PIL a confronto con il tasso di inflazione sostanziale:
Assets finanziari della famiglie/PIL a fronte della inflazione sostanziale.
E chi si preoccupa molto degli assets finanziari, e non altrettanto dei redditi da lavoro? Lo 0,1 per cento dei più ricchi, che secondo il database di Piketty e Saez ottiene “soltanto” circa il 4 per cento dei compensi totali, ma possiede più del 20 per cento della ricchezza e certamente una quota più ampia di assets finanziari [3]:
Carmen Reinhart ha sostenuto, in modo persuasivo, che i paesi altamente indebitati normalmente smaltiscono il loro debito in gran parte attraverso “repressioni finanziarie” [4] – tenendo bassi i tassi di interesse e riducendo parte del debito grazie all’inflazione. Sebbene questo sembri negativo, il punto è che non è tale per la grande maggioranza delle persone. L’Inghilterra ottenne un migliore risultato attraverso la repressione finanziaria dopo la Seconda Guerra Mondiale, rispetto a quello che fece con l’ortodossia finanziaria dopo la Prima Guerra Mondiale.
Ma c’è solo un piccolo ma influente gruppo che nei fatti è colpito dalla repressione finanziaria che è proprio quello che Hitler fece agli ebrei : ancora, lo 0,1 per cento.
Ora, io non penso che lo 0,1 per cento ed i suoi difensori si stiano attorcigliando si baffi [5] e ridacchino su come stanno sfruttando le illusioni di una politica sana per arricchirsi alle spese del 99 per cento. I Koch non li hanno nemmeno, i baffi. Ma penso proprio che la contraddizione del tutto reale tra quello che è positivo per gli oligarchi e quello che è positivo per l’economia, sta indirettamente avendo un effetto potente nel distorcere il dibattito.
[1] Per “quantitative easing” vedi le note sulla traduzione.
[2] Ovvero, sui casi storici di “iperinflazione”.
[3] La Tabella si riferisce agli andamenti della percentuale di ricchezza posseduta dallo 0,1 per cento, che – come si nota – ha due picchi negli anni Venti del secolo scorso e negli anni 2000. Il titolo della tabella indica come la crescita di ricchezza dell’1 per cento dei più ricchi sia dipesa dagli andamenti dello 0,1 per cento.
[4] Per “repressione finanziaria” (così si traduce, ma forse sarebbe meglio dire “inibizione finanziaria”) sono una serie di tecniche con le quali un Governo può stabilire di favorire l’indirizzo di finanziamenti, che in un mercato deregolamentato andrebbero in tutte le direzioni, verso se stesso.
Nel 2011 Carmen Reinhart e Belen Sbrancia elencarono in uno studio alcune di queste soluzioni, come possibili forme di attenuazione dei debiti statali dopo la crisi finanziaria del 2008. Tra di esse: 1) tetti indiretti o espliciti ai tassi di interesse, sui debiti statali e sui tassi dei depositi; 2) Proprietà o controllo statale delle banche nazionali e delle altre istituzioni finanziarie, in modo da limitare i tentativi di ingresso sul mercato di altri istituti; 3) richiesta di elevate riserve; 4) creazione o mantenimento di un mercato bloccato per il debito statale, ottenuto richiedendo alla banche di detenere debito statale tramite requisiti sui capitali, o la disincentivazione di possibilità alternative; 5) restrizioni statali sui trasferimenti di assets all’estero, attraverso controlli sui capitali.
[5] Modo di fare considerato tipico di individui crudeli, sullo stile di Capitan Uncino per intenderci.
By mm
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