Blog di Krugman

Wall Street, la City e l’austerità (dal blog di Krugman, 12 aprile 2014)

 

Wall Street, The City, And Austerity

April 12, 2014, 10:11 am

Noah Smith, Simon Wren-Lewis, and I have in effect been having an intermittent, long-distance conversation about the role of the finance industry in promoting a view of our economic problems — one that emphasizes the dangers of deficits and monetary expansion — that has had a seriously damaging effect on policy. The question is why so many people in finance gravitate toward that view, and cling to it despite what is at this point overwhelming evidence that it’s wrong.

Wren-Lewis suggests that it was in large part about deflecting blame — that the financial industry was eager to shift attention away from its own role in creating crisis to the alleged role of fiscal profligacy. And I’m sure that was part of it. But I’d like to add a couple of other motives that seem, in my own experience, to have mattered.

One is the issue of stocks versus flows, which sounds obscure, but bear with me for a minute.

If you were listening to the deficit worriers from late 2009 right through until the summer of 2011, they were constantly asking “Who’s going to buy all those bonds we’re issuing?” And they kept arguing that while yes, someone was buying them now, those purchases will dry up any day now. In 2009 it was the argument that US Treasuries were being bought only through an unsustainable “carry trade”; in 2010-2011 it was only QE2 that was supporting bond prices; and so on.

Meanwhile, economists like me or Ben Bernanke were arguing that this was the wrong question: Asset prices mainly reflect the willingness of people to hold the stock of assets out there, not the flow of new assets being created, so that obsessing over who happened to be buying the flow today was wrong and created a false sense of fragility.

Events have largely confirmed the stock view. But why would finance people have leaned toward a flow view? One answer, I think, is that while demands for stocks are the big story, day-by-day movements in asset prices — movements that are usually just a fraction of a percent — do often reflect the order flow. And here’s the thing: while those day-to-day fluctuations aren’t important for economic policy, they’re all-important for traders trying to make money (which is why getting your trades in a millisecond before your rivals is a big business).

So finance guys were taking the kind of thing they worry about in their business, asset price movements driven by flows, and extrapolating it to macroeconomics, where it didn’t belong.

And this brings me to my second point: deficit scoldery, in addition to being in the class and industry interest of the scolds, was a way to assert the value of what they knew over the ideas of pointy-headed economists. Think about it: finance industry types know, or think they know, a fair bit about what goes on in markets — buyers and sellers, confidence, etc.. But here we were in a macroeconomic situation, the liquidity trap, which nobody in the West had seen for three generations.

And there were these guys with beards and cheap suits telling everyone that to understand what was going on you needed to know macroeconomic theory and a lot of musty old economic history. I suppose Wall Street and City guys could have decided to sit down and read textbooks and history books; yeah, right. It was much more natural for them to defend their turf, to declare that book learning was beside the point, that they knew markets and how markets worked and could tell you that those deficits were putting us in grave danger.

I don’t think that any of the reasons I’ve described are mutually exclusive. Ego, political interest, and personal interest all combined to encourage finance types to tell a story about the world that pushed governments toward austerity. And since nobody ever admits being wrong about anything, it just keeps happening.

 

Wall Street, la City e l’austerità

 

 

Noah Smith, Simon Wren-Lewis ed il sottoscritto, in sostanza, stiamo avendo un dibattito intermittente e a lunga distanza sul ruolo del sistema finanziario nel promuovere un determinato punto di vista sui nostri problemi economici – che enfatizza i pericoli dei deficit e della espansione monetaria – e che ha avuto effetti seriamente dannosi sulla politica. La domanda è perché tante persone nella finanza gravitino verso quel punto di vista, e restino incollati ad esso nonostante quella che, a questo punto, è una schiacciante evidenza della sua erroneità.

Wren-Lewis suggerisce che in larga parte ciò sia dipeso da uno sviamento della responsabilità – il settore della finanza era ansioso di spostare l’attenzione dal proprio ruolo nel produrre la crisi, verso il preteso ruolo della dissipazione della finanza pubblica. Ed io sono certo che questa sia una parte della spiegazione. Ma mi piacerebbe aggiungere un paio di altri motivi che, secondo la mia esperienza, sembra siano stati importanti.

Uno è il tema della ‘riserve’ contro i ‘flussi’, espressione che suona oscura, ma abbiate pazienza assieme a me per un attimo.

Se prestavate ascolto agli ‘ansiosi’ del deficit dall’ultima parte del 2009 sin proprio per tutta l’estate del 2011, essi chiedevano in continuazione: “Chi comprerà tutti questi bond che stiamo emettendo?” E continuavano a sostenere che mentre, in effetti, qualcuno sul momento li stava acquistando, quegli acquisti si sarebbero prosciugati di lì a poco. Nel 2009 l’argomento era che i buoni del Tesoro statunitense venivano acquistati soltanto attraverso un insostenibile “carry trade[1]; nel 2010-2011 l’argomento era che la seconda versione della “facilitazione quantitativa” [2] stava sostenendo i prezzi delle obbligazioni; e così via.

Nel frattempo, economisti come me o come Ben Bernanke sostenevano che quella era la domanda sbagliata: i prezzi degli asset principalmente riflettevano la volontà delle persone di tenere le riserve degli asset in circolazione, non il flusso del nuovi asset che venivano creati, cosicché l’ossessione di chi fosse destinato ad acquistare il flusso in un determinato momento era sbagliata e determinava una falsa sensazione di fragilità.

Gli eventi hanno ampiamente confermato quel punto di vista sulle ‘riserve’. Ma perché le persone del sistema finanziario tendevano verso il punto di vista del ‘flusso’? Una risposta, penso, è che mentre le richieste per le riserve sono la storia principale, i movimenti giorno per giorno nei prezzi degli asset – movimenti che normalmente sono solo una frazione di un punto percentuale – riflettono spesso il flusso degli ordinativi. E qua è il punto: mentre quelle fluttuazioni del giorno per giorno non sono importanti per la politica economica, esse sono del tutto importanti per gli operatori che cercano di far soldi (e questa è la ragione per la quale avere i vostri scambi in un millesimo di secondo prima dei vostri rivali è un grande affare).

Dunque, gli individui della finanza prendono il genere di cosa della quale si preoccupano nei loro affari, i movimenti dei prezzi degli asset determinati dai flussi, e la estrapolano al livello della macroeconomia, con cui non ha a che fare.

E questo mi conduce al secondo punto: l’attitudine a prendersela con i deficit, oltre ad esser propria della classe e dell’interesse di settore di coloro che si lamentano, era un modo per affermare il valore delle cose che essi conoscevano di contro alle idee degli intellettuali presunti esperti di economia. Si rifletta su questo: i soggetti del settore finanziario sanno, o pensano di sapere, un bel po’ di cose di quello che accade sui mercati – compratori e venditori, fiducia, etc. Ma qua siamo in una situazione macroeconomica, la trappola di liquidità, che non si era vista in Occidente da tre generazioni.

E ci sono questi tizi con la barba e con vestiti di poco prezzo che raccontano a tutti che per capire cosa sta succedendo c’è bisogno della teoria macroeconomica e di un bel po’ di ammuffita vecchia storia dell’economia. Posso ipotizzare che gli individui di Wall Street e della City avrebbero potuto decidere di sedersi e di mettersi a leggere i libri di testo di economia e quelli di storia; sì, giusto! Ma era molto più naturale per loro difendere il loro spazio, dichiarare che leggere i libri non c’entrava niente, che essi conoscevano i mercati e come i mercati funzionavano e potevano spiegarvi che quei deficit ci stavano mettendo in grave pericolo.

Non penso che ognuna delle ragioni che sto descrivendo escluda l’altra. L’autostima, l’interesse politico e l’interesse personale si sono messi insieme per incoraggiare i soggetti della finanza a raccontare una storia sul mondo che imponeva ai Governi l’austerità. E dal momento che nessuno ammette mai di aver torto su niente, è quello che continua a succedere.



[1] Il carry trade è la pratica speculativa consistente nel prendere a prestito del denaro in paesi con tassi di interesse più bassi, per cambiarlo in valuta di paesi con un rendimento degli investimenti maggiore in modo sia da ripagare il debito contratto sia da ottenere un guadagno con la medesima operazione finanziaria (Wikipedia).

[2] Per “quantitative easing” o QE, vedi le note sulla traduzione.

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