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Crisi degli eurocrati, di Paul Krugman (New York Times 22 maggio 2014)

 

Crisis of the Eurocrats

MAY 22, 2014 Paul Krugman

A century ago, Europe tore itself apart in what was, for a time, known as the Great War — four years of death and destruction on an unprecedented scale. Later, of course, the conflict was renamed World War I — because a quarter-century later Europe did it all over again.

But that was a long time ago. It’s hard to imagine war in today’s Europe, which has coalesced around democratic values and even taken its first steps toward political union. Indeed, as I write this, elections are being held all across Europe, not to choose national governments, but to select members of the European Parliament. To be sure, the Parliament has very limited powers, but its mere existence is a triumph for the European idea.

But here’s the thing: An alarmingly high fraction of the vote is expected to go to right-wing extremists hostile to the very values that made the election possible. Put it this way: Some of the biggest winners in Europe’s election will probably be people taking Vladimir Putin’s side in the Ukraine crisis.

The truth is that the European project — peace guaranteed by democracy and prosperity — is in deep trouble; the Continent still has peace, but it’s falling short on prosperity and, in a subtler way, democracy. And, if Europe stumbles, it will be a very bad thing not just for Europe itself but for the world as a whole.

Why is Europe in trouble?

The immediate problem is poor economic performance. The euro, Europe’s common currency, was supposed to be the culminating step in the Continent’s economic integration. Instead, it turned into a trap. First, it created a dangerous complacency, as investors funneled huge amounts of cash into southern Europe, heedless of risk. Then, when the boom turned to bust, debtor countries found themselves shackled, unable to regain lost competitiveness without years of Depression-level unemployment.

The inherent problems of the euro have been aggravated by bad policy. European leaders insisted and continue to insist, in the teeth of the evidence, that the crisis is all about fiscal irresponsibility, and have imposed savage austerity that makes a terrible situation worse.

The good news, sort of, is that despite all these missteps the euro is still holding together, surprising many analysts — myself included — who thought it might well fall apart. Why this resilience? Part of the answer is that the European Central Bank has calmed markets by promising to do “whatever it takes” to save the euro, up to and including buying government bonds to keep interest rates from rising too far. Beyond that, however, the European elite remains deeply committed to the project, and, so far, no government has been willing to break ranks.

But the cost of this elite cohesion is a growing distance between governments and the governed. By closing ranks, the elite has in effect ensured that there are no moderate voices dissenting from policy orthodoxy. And this lack of moderate dissent has empowered groups like the National Front in France, whose top candidate for the European Parliament denounces a “technocratic elite serving the American and European financial oligarchy.”

The bitter irony here is that Europe’s elite isn’t actually technocratic. The creation of the euro was about politics and ideology, not a response to careful economic analysis (which suggested from the beginning that Europe wasn’t ready for a single currency). The same can be said of the turn to austerity: All the economic research supposedly justifying that turn has been discredited, but the policies haven’t changed.

And the European elite’s habit of disguising ideology as expertise, of pretending that what it wants to do is what must be done, has created a deficit of legitimacy. The elite’s influence rests on the presumption of superior expertise; when those claims of expertise are proved hollow, it has nothing to fall back on.

So far, as I said, the elite has been able to hold things together. But we don’t know how long this can last, and there are some very scary people waiting in the wings.

If we’re lucky — and if officials at the European Central Bank, who are closer to being genuine technocrats than the rest of the elite, act boldly enough against the growing threat of deflation — we may see some real economic recovery over the next few years. This could, in turn, offer a breathing space, a chance to get the European project as a whole back on track.

But economic recovery by itself won’t be enough; Europe’s elite needs to recall what the project is really about. It’s terrifying to see so many Europeans rejecting democratic values, but at least part of the blame rests with officials who seem more interested in price stability and fiscal probity than in democracy. Modern Europe is built on a noble idea, but that idea needs more defenders.

 

Crisi degli eurocrati, di Paul Krugman

New York Times 22 maggio 2014

 

Un secolo fa l’Europa si fece a brandelli in quella che, all’epoca, era conosciuta come la Grande Guerra, quattro anni di morte e distruzione di dimensioni che non avevano precedenti. Successivamente, come è ovvio, il conflitto fu ribattezzato Prima Guerra Mondiale – perché un quarto di secolo dopo l’Europa ripeté il tutto una seconda volta.

Ma questo accadde molto tempo fa. Sarebbe difficile, oggi, immaginare una guerra, in un’Europa che ha rimarginato comuni valori democratici ed ha persino fatto i suoi primi passi per una unione politica. In effetti, mentre io scrivo, vengono tenute dappertutto in Europa le elezioni, non per scegliere i governi nazionali, ma per eleggere i membri del Parlamento Europeo. In verità, il Parlamento ha poteri assai limitati, ma il suo solo esistere è un trionfo per l’idea europea.

Ma il punto è qua: ci si attende che una allarmante alta componente del voto finisca ad estremisti di destra ostili ai valori effettivi che hanno reso le elezioni possibili. Diciamo così: alcuni dei più grandi vincitori delle elezioni europee saranno probabilmente persone che, nella crisi ucraina, staranno dalla parte di Vladimir Putin.

La verità è che il progetto europeo – la pace garantita dalla democrazia e dalla prosperità – è in grandi difficoltà: il continente ha ancora la pace, ma si sta esaurendo la prosperità e, in un modo più sottile, la democrazia. E, se l’Europa fa un passo falso, sarà una pessima cosa non solo per essa, ma per il mondo intero.

Perché l’Europa è in difficoltà?

Il problema immediato è un andamento economico negativo. Si pensava che l’euro, la valuta comune europea, fosse il passo decisivo nell’integrazione economica del continente. Invece, si è risolto in una trappola. In primo luogo, esso produsse un pericoloso compiacimento, al momento in cui gli investitori fecero transitare vaste somme di denaro nell’Europa meridionale, incuranti dei rischi. Poi, quando il boom si trasformò in un fallimento, i paesi debitori si ritrovarono incatenati, incapaci di recuperare la perduta competitività se non con anni di disoccupazione ai livelli di una depressione.

Il problema intrinseco dell’euro è stato aggravato da una cattiva politica. I dirigenti europei hanno insistito, e continuano ad insistere in barba all’evidenza, che la crisi riguarda esclusivamente l’irresponsabilità nella finanza pubblica, ed hanno imposto una austerità selvaggia, che aggrava una situazione difficilissima.

La buona notizia, in qualche modo, è che nonostante questi passi falsi l’euro ancora si tiene insieme, sorprendendo molti analisti – incluso il sottoscritto – che pensavano che sarebbe finito a pezzi. Come mai questa capacità di resistenza? In parte la risposta è che la Banca Centrale Europea ha calmato i mercati promettendo di fare “tutto ciò che è necessario” per salvare l’euro, sino all’acquisto di bond degli Stati per impedire che i tassi di interesse si divarichino troppo. Oltre a ciò, tuttavia, le classi dirigenti europee restano profondamente impegnate al progetto e, sinora, nessun governo ha espresso l’intenzione di rompere i ranghi.

Ma il prezzo di questa coesione delle classi dirigenti è una crescente distanza tra i governi ed i governati. Per chiudere i ranghi, la classe dirigente in pratica si è garantita che non ci fosse alcuna voce di dissenso dall’ortodossia politica. E questa mancanza di un dissenso sia pur moderato ha rafforzato gruppi come il Fonte Nazionale in Francia, il cui principale candidato al Parlamento Europeo denuncia “una élite tecnocratica al servizio dell’oligarchia finanziaria americana ed europea”.

L’amara ironia, in questo caso, è che l’élite europea, per la verità non è tecnocratica. La creazione dell’euro dipese dalla politica e dalla ideologia, non fu conseguenza di una scrupolosa analisi economica (che sin dall’inizio indicava come l’Europa non fosse pronta per una moneta unica). Lo stesso può essere detto della svolta verso l’austerità: tutta la ricerca economica che si supponeva giustificasse quella svolta è stata discreditata, ma le politiche sono rimaste le stesse.

E l’abitudine delle élite europee di mascherare l’ideologia con la competenza, di far finta che quello che si desidera fare sia lo stesso di quello che si deve fare, ha creato una crisi di legittimazione. L’influenza delle classi dirigenti si basa sulla presunzione di una superiore competenza; quando quelle pretese di competenza si rivelano senza sostanza, le classi dirigenti non hanno niente su cui fare affidamento.

Sinora, come ho detto, esse sono state capaci di tenere le cose assieme. Ma non sappiamo quanto questo possa durare, e ci sono alcuni individui davvero preoccupanti in attesa dietro le quinte.

Se saremo fortunati – e se i dirigenti della Banca Centrale Europea, che sono più vicini ad essere tecnocrati veri del resto delle classi dirigenti, agiranno con sufficiente coraggio contro la crescente minaccia della deflazione – potremo assistere ad una qualche reale ripresa economica nel corso dei prossimi anni. A sua volta, questo potrebbe fornire un margine per respirare, una possibilità per rimettere in carreggiata il progetto europeo nel suo complesso.

Ma la ripresa economica da sola non sarà sufficiente: le classi dirigenti dell’Europa hanno bisogno di ricordarsi di quale sia l’oggetto del progetto. Fa paura vedere così tanti europei rigettare i valori democratici, ma almeno una parte della responsabilità dipende dai dirigenti che sembrano più interessati alla stabilità dei prezzi ed alla virtuosità della finanza pubblica che non alla democrazia. L’Europa moderna è costruita su una idea nobile, ma quell’idea ha bisogno di maggiori sostenitori.

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