Non ho informazioni su quando avremo disponibile la versione italiana de “Il capitale nel ventunesimo secolo” di Thomas Piketty. Ho resistito alla tentazione di pubblicare una mia traduzione del secondo capitolo (“Crescita: illusioni e realtà”, pagg. 72-109), che mi era sembrato significativo, diciamo così, dello spessore della ricerca dell’economista francese, e che ero tentato di contrapporre alla acida recensione di Kenneth Rogoff, con quel suo singolare ragionamento sulla ineguaglianza che si sarebbe ristretta, per effetto della industrializzazione e della minore miseria dei paesi emergenti (per non dire del suo secondo argomento, per il quale molti degli economisti critici dell’ineguaglianza, se vivessero, diciamo, nel Bengala invece che nei paesi sviluppati, farebbero parte dell’1 per cento dei più ricchi). Se ho ben capito, il solo fatto che una parte del mondo sfugga al sottosviluppo ed alla fame, ci esenterebbe dal ragionare sui dati dell’ineguaglianza crescente. Come dire che essere ammessi nel novero dei produttori di per sé è più che sufficiente a tacitare ogni dubbio sulla giustizia nella distribuzione dei redditi e ancor più della ricchezza. Ragionando così, mi sembra, il pauperismo dei primi decenni della rivoluzione industriale non sarebbe mai finito; saremmo rimasti al mondo di Dickens, il capitalismo, istituzionalmente e culturalmente, sarebbe stato una specie di nuova epoca feudale dotata di tecnologia. Ma, siccome non si possono tradurre neanche pezzi di un libro senza esserne autorizzati, mi sono dato una calmata. Prima o poi, suppongo, lo troveremo in libreria.
Ciononostante, mi chiedo quale sarà il destino della discussione sul libro di Piketty in Italia. Anche se provo a riflettere su alcune delle recensioni che lo hanno discusso all’estero e che sono tradotte in questo sito (Paul Krugman, Chris Giles del Financial Times e la replica di Piketty, Lawrence Summers, James Galbraith, Robert J. Shiller, Dani Rodrik e, appunto, Kenneth Rogoff), mi viene un dubbio. Suppongo che per far diventare un libro, in fondo, di teoria economica (Summers esplicitamente lo candida al prossimo Nobel) un best seller, debbano congiungersi due fattori: oltre il valore storico della ricerca che contiene, il fatto che essa risponda ad una curiosità viva dell’opinione pubblica. Il secondo aspetto non mi pare affatto scontato. Ora, non che la crisi non abbia provocato dubbi molto vasti sulla razionalità della svolta liberista dei decenni passati, o sulla ricetta della austerità. In effetti viviamo oggi in un periodo storico nel quale i dubbi sul modello prevalente di capitalismo sono ampi. Ma non sufficienti, mi pare, a far percepire diffusamente il problema della crescente ineguaglianza come un nodo effettivamente aggredibile, e neanche forse come il punto cruciale. Sarei tentato di dire che la difficoltà proviene, questa volta, da un ritardo della coscienza politica sulla analisi e sulla ricerca, come se i temi analizzati da Piketty chiedessero un ‘salto’ alla politica che non si capisce ancora bene da dove dovrebbe prendere le mosse.
Esaminiamo due aspetti. E’ interessante il fatto che molte delle recensioni che ho tradotto comincino dall’assunto sulla serietà ed sulla importanza della ricerca di Piketty, per poi passare piuttosto frettolosamente alla parte dei ‘rimedi’, spesso prendendo le distanze dalla scarsa praticabilità della proposta dell’economista francese di una tassa globale sulla ricchezza. Se non sono tradito dalle mie simpatie, direi che solo Krugman si intrattiene in modo ampio ed argomentato sul valore culturale e scientifico della analisi di Piketty; quasi tutti gli altri si occupano principalmente delle possibili terapie. Così è nel caso di Galbraith, di Shiller, ed anche di Summers, nonché naturalmente di Rogoff.
Ora, Piketty stesso – non saprei dire se facendo la cosa giusta – mette in dubbio la praticabilità della sua soluzione. Ma in che senso essa sarebbe scarsamente realistica? Su questo punto la risposta è unanime: perché appare illusorio ipotizzare che si possa ottenere un livello adeguato di collaborazione internazionale. Prima ancora della difficoltà a mettere tasse sulle grandi ricchezze, insomma, sarebbe difficile, evitare le condotte differenziate che garantiscono l’eternità dei ‘paradisi fiscali’ della comoda fiscalità globale. Si deve notare, però, che è lo stesso Piketty – in tutto il suo ragionamento, compresa la parte della storia dei secoli passati – a sottolineare come la ‘conoscibilità’ della ricchezza sia il problema principale dal punto di vista della democrazia. Dunque, la difficoltà, prima ancora che riguardare il livello della tassazione, riguarderebbe la ‘emersione’ del fenomeno nella sua interezza. Così pare che ci sia un quasi consenso, ad eccezione di Krugman, sul fatto che una sfida democratica sulla conoscibilità della ricchezza, o sul controllo dei suoi movimenti, sia irrealistica. Mi limito a constatarlo: concettualmente è un po’ singolare che una tesi del genere sia considerata pacifica. Poiché livelli assai più significativi di tassazione di redditi e ricchezze sono stati possibili nell’epoca delle due guerre mondiali, parrebbe che senza guerre mondiali la democrazia non abbia forza sufficiente per realizzare risultati su quel terreno.
Ma da cosa può derivare tale forza? Questo è il secondo aspetto, e mi pare, se posso dire così, che il problema stia dal lato della domanda. Un regime fiscale sulle ricchezze più rigoroso, dipende da quanto i bisogni di alimentazione, di civiltà, dei diritti di genere, di istruzione, di cultura, di salute ben assistita, diventano i cardini visibili di uno sviluppo necessario e più sano. Si considerino alcuni recenti interventi di Stiglitz sulle città dei paesi emergenti e sulla società dell’apprendimento; sono pezzi di un programma globale, senza il quale non è semplice neanche capire l’urgenza di invertire i processi dell’ineguaglianza. Oppure si rifletta, dopo aver letto il bell’articolo di Joschka Fisher sul Medio Oriente, a quanto sia insensato continuare a collocare sotto due registri distinti i temi della pace e delle guerre di religione e quelli di una nuova politica economica globale; come se non fosse anzitutto l’angustia di quest’ultima a lasciare il mondo disarmato rispetto ai fanatismi che ormai modificano la geopolitica.
Ora, siamo dentro una crisi nella quale le ragioni di un forte e qualificato intervento degli Stati e della spesa pubblica per ripristinare la domanda e difendere l’occupazione, non hanno prevalso in nessun paese. A me pare chiaro che le ragioni per considerare necessario l’impegno per una minore disuguaglianza possono solo andare di pari passo con la consapevolezza di un possibile nuovo ruolo trainante delle democrazie statali nell’avanzare nuovi obbiettivi sociali e civili. Se la difesa dalla fame e dalle malattie, l’istruzione, l’ambiente e la qualità delle società non sono cardini della economia necessaria, su cosa poggia la priorità di ridurre le ineguaglianze? Se il keynesismo resta una eresia della politica economica nella emergenza della crisi e nel breve periodo, come si costruisce il bisogno di una distribuzione più equa della ricchezza nel lungo periodo?
Non a caso, lo ripeto, la recensione di Krugman mi sembra l’unica che, piuttosto che liquidare frettolosamente la rilevanza teorica del contributo dell’economista francese per concentrarsi sul tema delle terapie, le ha dato il posto centrale. Certo non dipende da disinteresse sugli aspetti concreti della politica economica. La valutazione che in queste settimane Krugman offre della Presidenza di Obama è illuminante del suo approccio alla ‘concretezza’. Egli valorizza grandemente le due grandi sfide di quella Presidenza: la riforma sanitaria e, di recente, l’approccio ‘amministrativo’, attraverso i limiti da parte dell’Agenzia della protezione ambientale alle emissioni di anidride carbonica, al grande tema del cambiamento climatico. Solo assai più modestamente i temi della riforma del sistema finanziario americano rientrano in quel pacchetto di risultati. Discutere troppo in astratto di come contrastare la crescente ineguaglianza a livello globale può non portare lontano, se non si lavora anzitutto a come ricostruire, in tempi di pace almeno relativa, il quadro degli obbiettivi più urgenti e ragionevoli. Tra i quali, forse nessuno come lui ha combattuto una battaglia intellettuale per una politica economica keynesiana; ma in completa disillusione, direi. Su questo ultimo aspetto, il suo bilancio della Amministrazione Obama resta chiaramente negativo.
Piketty, dice però Krugman, “ha trasformato il nostro discorso economico”. E, a proposito del suo appello ad una tassazione, possibilmente globale, delle ricchezze “in modo da contenere il crescente potere della ricchezza ereditaria”, egli aggiunge che “(è) facile essere cinici su prospettive di questo genere. Ma certamente la diagnosi magistrale di Piketty sul punto a cui siamo e su dove ci stiamo dirigendo rende una cosa del genere considerevolmente più probabile.” Il punto è qua: un dibattito onesto ed auspicabile sul libro dell’economista francese dovrebbe anzitutto riguardare il nostro malandato discorso economico. I tempi ed i modi della lotta e della coscienza politica dovrebbero essere considerati su un piano diverso, perché l’economista francese dà anzitutto una scossa al nostro modello di comprensione dell’economia.
Come ne discuteremo in Italia, se mai sarà tradotto?
By mm
E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"