June 16, 2014 6:26 pm
Jill Lepore has a great article in the New Yorker debunking the hyping of “disruptive innovation” as the key to success in business and everything else. It’s not a bah-humbug piece; it is instead a careful takedown, in which she goes back to the case studies supposedly showing the overwhelming importance of upstart innovators, and shows that what actually happened didn’t fit the script. Specifically, many of the “upstarts” were actually long-established firms, and more often than not the big payoffs went not to disruptive innovators but to firms that focused on incremental change and ordinary forms of efficiency and quality.
Andrew Leonard reports that Silicon Valley types are not pleased. You can understand why. But their annoyance also tells you why the whole disruptive innovation thing took off: it glamorizes business, it lets nerdy guys come across as bold heroes.
The same impulse, I think, is why Schumpeter gets cited so much. If you read his stuff directly, it’s interesting, I guess, although his attempts to explain the business cycle were a waste of good paper. But it’s that glamorizing phrase “creative destruction” that did it, because it’s so flattering to the big money (and excuses a lot of suffering, too).
Lepore tells us that innovation became a popular buzzword in the 1990s. I guess I thought it came much earlier — I wrote about product-cycle models of trade back in the 1970s, and even then I was formalizing a much older literature.
And in trade, as in business competition, it’s far from clear that the big rewards go to those who trash the past and invent new stuff. What’s the most remarkable export success story out there? Surely it’s Germany, which manages to be an export powerhouse despite very high labor costs. How do the Germans do it? Not by constantly coming out with revolutionary new products, but by producing very high quality goods for which people are willing to pay premium prices.
So here’s a revolutionary thought: maybe we need to do less disruption and put more effort into doing whatever we do well.
Distruzione creativa etc. etc.
Jill Lepore ha un grande articolo sul New Yorker, che liquida tutto il battage sulla “innovazione perturbatrice” come la chiave del successo negli affari come in ogni altra cosa. Non è un pezzo di parole in libertà; piuttosto una verifica scrupolosa, nella quale ella ritorna agli studi specifici che si suppone dimostrino l’importanza degli innovatori che partono dalla gavetta, e dimostra che quello che è effettivamente accaduto è ben diverso dal copione. In particolare, molte delle esperienze innovative sono in effetti imprese da tempo in funzione, e il più delle volte i grandi profitti non sono venuti da innovatori che hanno rotto la tradizione, ma da imprese che si sono concentrate su modifiche incrementali e si forme ordinarie di efficienza e di qualità.
Secondo un resoconto di Andrew Leonard, questo non sarebbe stato gradito dagli individui di Silicon Valley. Si può comprendere il motivo. Ma questo fastidio ci dice anche perché abbia preso piede l’intera faccenda della innovazione perturbatrice: essa rende affascinante il mondo degli affari, consente a individui fanatici di alcune specialità di fare l’impressione di eroi coraggiosi.
Lo stesso impulso, suppongo, è il motivo per il quale Schumpeter è così tanto citato. Se si leggono le sue cose direttamente, credo che esse siano interessanti, sebbene i suoi tentativi di spiegare il ciclo economico furono uno spreco di carta. Ma fu quella frase accattivante sulla “distruzione creativa” a provocarlo, perché essa è talmente lusinghiera per i grandi affaristi (ed è anche una giustificazione di una gran quantità di sofferenze).
Lepore ci spiega che l’innovazione è diventata una parola di grido popolare negli anni ’90. Avrei detto che fosse avvenuto molto prima – io scrissi riguardo ai modelli sui cicli di vita dei prodotti del commercio nei passati anni ’70, ed anche allora mi riferivo ad una letteratura molto più antica.
E nel commercio, come nella competizione economica, è lungi dall’essere chiaro che i grandi premi vadano a coloro che buttano il passato nel cestino ed inventano nuove cose. Quale è in giro la più rilevante storia di successo nelle esportazioni? E’ certamente il caso della Germania, che riesce ad avere un primato nelle esportazioni nonostante costi del lavoro molto elevati. Come ci riescono i tedeschi? Non venendo fuori in continuazione con nuovi prodotti rivoluzionari, ma producendo beni di elevatissima qualità per quegli individui che sono disponibili a pagare prezzi maggiorati.
Eccolo, dunque, il pensiero rivoluzionario: forse abbiamo bisogno di fare minore perturbazione e di mettere maggiore impegno nel far bene tutto quello che facciamo.
By mm
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