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Il ‘domino’ del clima, di Paul Krugman (New York Times 5 giugno 2014)

 

The Climate Domino

JUNE 5, 2014 Paul Krugman

Maybe it’s me, but the predictable right-wing cries of outrage over the Environmental Protection Agency’s proposed rules on carbon seem oddly muted and unfocused. I mean, these are the people who managed to create national outrage over nonexistent death panels. Now the Obama administration is doing something that really will impose at least some pain on some people. Where are the eye-catching fake horror stories?

For what it’s worth, however, the attacks on the new rules mainly involve the three C’s: conspiracy, cost and China. That is, right-wingers claim that there isn’t any global warming, that it’s all a hoax promulgated by thousands of scientists around the world; that taking action to limit greenhouse gas emissions would devastate the economy; and that, anyway, U.S. policy can’t accomplish anything because China will just go on spewing stuff into the atmosphere.

I don’t want to say much about the conspiracy theorizing, except to point out that any attempt to make sense of current American politics must take into account this particular indicator of the Republican Party’s descent into madness. There is, however, a lot to say about both the cost and China issues.

On cost: It’s reasonable to argue that new rules aimed at limiting emissions would have some negative effect on G.D.P. and family incomes. Even that isn’t necessarily true, especially in a depressed economy, where regulations that require new investment could end up creating jobs. Still, the odds are that the E.P.A.’s action, if it goes into effect, will hurt at least a little.

Claims that the effects will be devastating are, however, not just wrong but inconsistent with what conservatives claim to believe. Ask right-wingers how the U.S. economy will cope with limited supplies of raw materials, land, and other resources, and they respond with great optimism: the magic of the marketplace will lead us to solutions. But they abruptly lose their faith in market magic when someone proposes limits on pollution — limits that would largely be imposed in market-friendly ways like cap-and-trade systems. Suddenly, they insist that businesses will be unable to adjust, that there are no alternatives to doing everything energy-related exactly the way we do it now.

That’s not realistic, and it’s not what careful analysis says. It’s not even what studies paid for by opponents of climate action say. As I explained last week, the United States Chamber of Commerce recently commissioned a report that was intended to show the terrible costs of the forthcoming E.P.A. policy — a report that made the least favorable assumptions possible in an attempt to make the costs look bigger. Even so, however, the numbers came out embarrassingly small. No, cracking down on coal won’t cripple the U.S. economy.

But what about the international aspect? At this point, the United States accounts for only 17 percent of the world’s carbon dioxide emissions, while China accounts for 27 percent — and China’s share is rising fast. So it’s true that America, acting alone, can’t save the planet. We need international cooperation.

That, however, is precisely why we need the new policy. America can’t expect other countries to take strong action against emissions while refusing to do anything itself, so the new rules are needed to get the game going. And it’s fairly certain that action in the U.S. would lead to corresponding action in Europe and Japan.

That leaves China, and there have been many cynical declarations over the past few days to the effect that China will just go ahead and burn any coal that we don’t. And we certainly don’t want to count on Chinese altruism.

But we don’t have to. China is enormously dependent on access to advanced-country markets — a lot of the coal it burns can be attributed, directly or indirectly, to its export business — and it knows that it would put this access at risk if it refused to play any role in protecting the planet.

More specifically, if and when wealthy countries take serious action to limit greenhouse gas emissions, they’re very likely to start imposing “carbon tariffs” on goods imported from countries that aren’t taking similar action. Such tariffs should be legal under existing trade rules — the World Trade Organization would probably declare that carbon limits are effectively a tax on consumers, which can be levied on imports as well as domestic production. Furthermore, trade rules give special consideration to environmental protection. So China would find itself with strong incentives to start limiting emissions.

The new carbon policy, then, is supposed to be the beginning, not the end, a domino that, once pushed over, should start a chain reaction that leads, finally, to global steps to limit climate change. Do we know that it will work? Of course not. But it’s vital that we try.

 

Il ‘domino’ del clima, di Paul Krugman

New York Times 5 giugno 2014

 

Forse è una mia impressione, ma i prevedibili strepiti di indignazione della destra sulle regole proposte dalla Agenzia della Protezione Ambientale sul carbone sembrano curiosamente pacati e distratti. Voglio dire: queste sono le persone che riuscirono a metter su lo sdegno della nazione intera sulle inesistenti ‘giurie della morte’ [1]. Ora la Amministrazione Obama sta facendo qualcosa che realmente provocherà per alcuni almeno un po’ di sofferenza. Dov’è ‘l’occhio che cattura’ falsi racconti dell’orrore? [2].

Per quello che vale, tuttavia, gli attacchi alle nuove regole principalmente riguardano le tre “C”: Cospirazione, Costi e Cina. Ovvero, la pretesa della destra è che non sussista alcun riscaldamento globale, che sia tutta una balla messa in giro da migliaia di scienziati a giro per il mondo; che assumere l’iniziativa di limitare i gas serra devasterebbe l’economia; e che, in ogni modo, la politica degli Stati Uniti non può ottenere alcun risultato, perché la Cina semplicemente continuerà a sputare robaccia nell’atmosfera.

Non intendo soffermarmi sulla teoria della cospirazione, se non per sottolineare che ogni tentativo di intendere l’attuale politica americana deve mettere nel conto questo particolare indicatore, della china del Partito Repubblicano nella follia. C’è, tuttavia, molto da dire sulle tematiche sia dei costi che della Cina.

Sui costi: è ragionevole sostenere che le nuove regole rivolte a limitare le emissioni avrebbero alcuni effetti negativi sul PIL e sui redditi delle famiglie. Sebbene questo non sia necessariamente vero, in particolare in una economia depressa, nella quale i regolamenti che richiedono nuovi investimenti potrebbero finire col creare posti di lavoro. Comunque è probabile che l’iniziativa dell’EPA, se entra in vigore, provocherà almeno un piccolo danno.

La pretesa che gli effetti saranno devastanti, tuttavia, non è solo sbagliata, ma anche incoerente con quello in cui i conservatori sostengono di credere. Chiedete alla destra come l’economia americana potrà misurarsi con l’offerta limitata di materie prime, di territorio, di altre risorse, e avrete in risposta grande ottimismo: la magia del mercato ci guiderà verso le soluzioni. Ma quando qualcuno propone limiti all’inquinamento – limiti che sarebbero imposti in gran parte con modalità assai rispettose del mercato, come i sistemi “cap-and-trade” [3] – la destra all’improvviso perde la fede nella magia del mercato. D’un tratto, essa si accanisce a dire che non saremo capaci di alcuna correzione, che in tutto quello che ha a che fare con l’energia, non ci sono alternative a fare esattamente quello che facciamo.

Questo non è realistico e non è quello che ci dice una analisi attenta. Non è neppure quello che dicono gli studi pagati dagli oppositori dell’iniziativa sul clima. Come spiegai la scorsa settimana [4], la Camera di Commercio degli Stati Uniti ha di recente commissionato un rapporto che doveva dimostrare i costi terribili dell’annunciata politica dell’EPA – un rapporto basato su ipotesi le più favorevoli possibili al tentativo di far apparire i costi più grandi. Anche così, tuttavia, sono venuti fuori, in modo imbarazzante, piccoli numeri. In alcun modo dare un giro di vite al carbone paralizzerà l’economia americana.

Cosa dire invece dell’aspetto internazionale? In questo momenti, gli Stati Uniti realizzano soltanto il 17 per cento delle emissioni mondiali di anidride carbonica, mentre la Cina ne realizza il 27 per cento – e la quota cinese sta crescendo rapidamente. Dunque è vero che l’America, agendo da sola, non può salvare il pianeta. Ci serve la cooperazione internazionale.

Quella, tuttavia, è precisamente la ragione per la quale abbiamo bisogno di una nuova politica. L’America non può aspettarsi che altri paesi assumano forti iniziative contro le emissioni nel mentre rifiuta di fare ogni cosa per se stessa, così le nuove regole sono necessarie per avviare la partita. Ed è abbastanza certo che l’iniziativa negli Stati Uniti comporterà una iniziativa corrispondente in Europa e nel Giappone.

Resta la Cina, e ci sono state nei giorni passati molte ciniche dichiarazioni secondo le quali la Cina andrà semplicemente avanti e brucerà tutto il carbone che noi non useremo. E certamente non vogliamo contare sull’altruismo cinese.

Ma non è questo che dobbiamo fare. La Cina è enormemente dipendente dall’eccesso ai mercati del mondo avanzato – una grande quantità del carbone che consuma può essere attribuita, direttamente o indirettamente, all’economia delle esportazioni – e sa che metterebbe a rischio quell’accesso se si rifiutasse di giocare ogni ruolo nella protezione del pianeta.

Più in particolare, se e quando i paesi ricchi assumeranno un’iniziativa seria per limitare le emissioni dei gas serra, probabilmente essi cominceranno ad imporre “tariffe del carbone” sui beni importati da paesi che non stanno assumendo iniziative simili. Tali tariffe sarebbero legali secondo le regole commerciali esistenti – l’Organizzazione Mondiale per il Commercio probabilmente dichiarerebbe che i limiti al carbone sono effettivamente una tassa sui consumatori, che può essere imposta sulle importazioni come sulla produzione nazionale. Inoltre, le regole commerciali danno una considerazione speciale alla protezione dell’ambiente. La Cina dunque si ritroverebbe con forti incentivi per cominciare a limitare le emissioni.

Si suppone, dunque, che la nuova politica del carbone sia un punto di inizio e non un punto di arrivo; un effetto domino che, una volta messo in movimento, avvierebbe una reazione a catena, capace di condurre ad una iniziativa globali per limitare il cambiamento climatico. Siamo certi che andrà in questo modo? Ovviamente no. Ma è vitale che ci proviamo.

 

 

 

[1] Si riferisce all’attacco che la destra, Tea Party in particolare, mosse agli inizi della discussione sulla riforma sanitaria di Obama, che prevedeva tra l’altro che alcune forme di ‘accanimento terapeutico’ in situazioni terminali non fossero più a carico del sistema sanitario (il che non significa che diventavano impossibili, naturalmente). Le ‘giurie della morte’, come furono soprannominate non senza efficacia dalla destra, erano gli organi sanitari che dovevano assumere tali decisioni. Ovvero, come sempre disse le destra, “staccare la spina alla nonna”. La riforma sanitaria venne così presentata come la quintessenza dello statalismo, e sembrò che la campagna della destra fosse di una notevole efficacia. Efficacia che si disperse largamente, quando gli americani cominciarono ad intendere che nei programmi dei repubblicani c’erano tagli ben superiori al sistema sanitario pubblico, o semipubblico.

[2] Come si comprende, ancora un riferimento alla riforma sanitaria, questa volta in relazione alla cronaca degli ultimi mesi, quando la riforma, approvata ed alla prova dell’entrata in funzione, venne in ogni modo presentata come responsabile di varie immaginarie nefandezze.

[3] Ovvero, sistemi miranti alla limitazione delle emissioni che si basano sulla definizione di un limite (“cap”) e sulla possibilità successiva di aprire un commercio tra le imprese, facendo diventare il rispetto di tale limite un valore, ed il non-rispetto un costo. Vale a dire che chi realizza buone prestazioni non ha penalizzazioni e, se ottiene risultati qualitativamente superiori al minimo previsto, può addirittura “rivenderle” a chi non le realizza, per consentire a questi ultimi di continuare provvisoriamente ad operare. In altre parole, ci sarebbero limiti e su quei limiti si avvierebbe una competizione economica reale, essendo interesse di tutti – almeno in teoria – di comportarsi nel migliore dei modi, per guadagnare ed evitare costi, ed anche – se virtuosi – di ‘rivendere’ i propri buoni risultati.

[4] Vedi l’articolo “Il conforto del carbone” del 2 giugno.

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