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Interessi, ideologia e clima, di Paul Krugman (New York Times 8 giugno 2014)

 

Interests, Ideology And Climate

JUNE 8, 2014 Paul Krugman

There are three things we know about man-made global warming. First, the consequences will be terrible if we don’t take quick action to limit carbon emissions. Second, in pure economic terms the required action shouldn’t be hard to take: emission controls, done right, would probably slow economic growth, but not by much. Third, the politics of action are nonetheless very difficult.

But why is it so hard to act? Is it the power of vested interests?

I’ve been looking into that issue and have come to the somewhat surprising conclusion that it’s not mainly about the vested interests. They do, of course, exist and play an important role; funding from fossil-fuel interests has played a crucial role in sustaining the illusion that climate science is less settled than it is. But the monetary stakes aren’t nearly as big as you might think. What makes rational action on climate so hard is something else — a toxic mix of ideology and anti-intellectualism.

Before I get to that, however, an aside on the economics.

I’ve noted in earlier columns that every even halfway serious study of the economic impact of carbon reductions — including the recent study paid for by the anti-environmental U.S. Chamber of Commerce — finds at most modest costs. Practical experience points in the same direction. Back in the 1980s conservatives claimed that any attempt to limit acid rain would have devastating economic effects; in reality, the cap-and-trade system for sulfur dioxide was highly successful at minimal cost. The Northeastern states have had a cap-and-trade arrangement for carbon since 2009, and so far have seen emissions drop sharply while their economies grew faster than the rest of the country. Environmentalism is not the enemy of economic growth.

But wouldn’t protecting the environment nonetheless impose costs on some sectors and regions? Yes, it would — but not as much as you think.

Consider, in particular, the much-hyped “war on coal.” It’s true that getting serious about global warming means, above all, cutting back on (and eventually eliminating) coal-fired power, which would hurt regions of the country that depend on coal-mining jobs. What’s rarely pointed out is how few such jobs still exist.

Once upon a time King Coal was indeed a major employer: At the end of the 1970s there were more than 250,000 coal miners in America. Since then, however, coal employment has fallen by two-thirds, not because output is down — it’s up, substantially — but because most coal now comes from strip mines that require very few workers. At this point, coal mining accounts for only one-sixteenth of 1 percent of overall U.S. employment; shutting down the whole industry would eliminate fewer jobs than America lost in an average week during the Great Recession of 2007-9.

Or put it this way: The real war on coal, or at least on coal workers, took place a generation ago, waged not by liberal environmentalists but by the coal industry itself. And coal workers lost.

The owners of coal mines and coal-fired power plants do have a financial interest in blocking environmental policy, but even there the special interests don’t look all that big. So why is the opposition to climate policy so intense?

Well, think about global warming from the point of view of someone who grew up taking Ayn Rand seriously, believing that the untrammeled pursuit of self-interest is always good and that government is always the problem, never the solution. Along come some scientists declaring that unrestricted pursuit of self-interest will destroy the world, and that government intervention is the only answer. It doesn’t matter how market-friendly you make the proposed intervention; this is a direct challenge to the libertarian worldview.

And the natural reaction is denial — angry denial. Read or watch any extended debate over climate policy and you’ll be struck by the venom, the sheer rage, of the denialists.

The fact that climate concerns rest on scientific consensus makes things even worse, because it plays into the anti-intellectualism that has always been a powerful force in American life, mainly on the right. It’s not really surprising that so many right-wing politicians and pundits quickly turned to conspiracy theories, to accusations that thousands of researchers around the world were colluding in a gigantic hoax whose real purpose was to justify a big-government power grab. After all, right-wingers never liked or trusted scientists in the first place.

So the real obstacle, as we try to confront global warming, is economic ideology reinforced by hostility to science. In some ways this makes the task easier: we do not, in fact, have to force people to accept large monetary losses. But we do have to overcome pride and willful ignorance, which is hard indeed.

 

Interessi, ideologia e clima, di Paul Krugman

New York Times 8 giugno 2014

 

Ci sono tre cose che sappiamo sul riscaldamento globale ad opera dell’uomo. La prima: le conseguenze saranno terribili se non assumeremo una iniziativa rapida per limitare le emissioni di anidride carbonica. La seconda: in termini puramente economici l’iniziativa necessaria non sarebbe difficile da assumere: i controlli sulle emissioni, fatti correttamente, probabilmente rallenterebbero la crescita economica, ma non di molto. La terza: ciononostante politiche attive sono molto difficili.

Ma perché è così difficile agire? Dipende dagli interessi costituiti?

Sto approfondendo questa tematica e sono arrivato alla conclusione abbastanza sorprendente secondo la quale non è principalmente una faccenda di interessi costituiti. Essi, naturalmente, esistono ed hanno un ruolo importante; i finanziamenti dai settori dei combustibili fossili hanno giocato un ruolo cruciale nel sostenere l’illusione che la scienza del clima non sia così definita quanto è. Ma gli interessi finanziari non sono neanche lontanamente così grandi quanto si potrebbe immaginare. Quello che rende una razionale iniziativa sul clima così difficile è qualcos’altro – una mescolanza tossica di ideologia e di anti intellettualismo.

Prima di arrivarci, tuttavia, una digressione sull’aspetto economico.

Ho notato nei primi articoli che persino uno studio generico sull’impatto economico delle riduzione dell’anidride carbonica – incluso quello recente finanziato dalla Camera di Commercio degli Stati Uniti, di ispirazione antiambientalista – arriva alla conclusone di costi modesti. L’esperienza pratica si indirizza nello stesso senso. Nei passati anni ’80 i conservatori sostenevano che ogni tentativo di limitare le piogge acide avrebbe avuto effetti economici devastanti; in realtà, la metodologia del cap-and-trade [1] per la anidride solforosa ebbe un elevato successo con costi minimi. Gli Stati del Nord Est hanno avuto una soluzione del tipo cap-and-trade sul carbonio a partire dal 2009, e sino a questo punto hanno visto le emissioni cadere bruscamente, mentre le loro economie sono cresciute più velocemente del resto del paese. L’ambientalismo non è nemico della crescita economica.

Ma proteggere l’ambiente, non imporrebbe comunque costi, per alcuni settori e regioni? Sarebbe così, ma non tanto quanto si pensa.

Si consideri, in particolare, la tanto strombazzata “guerra sul carbone”. E’ vero che essere seri sul riscaldamento globale significa, operare una riduzione (e alla fine eliminare) le centrali elettriche alimentate a carbone, la qualcosa colpirebbe regioni del paese che dipendono dai posti di lavoro nelle miniere di carbone. Quello che raramente si mette in evidenza è quanto pochi siano quei posti di lavoro ancora esistenti.

Un tempo, il Re Carbone era in effetti un datore di lavoro importante: alla fine degli anni ’70 c’erano più di 250.000 minatori del carbone in America. Da allora, tuttavia, l’occupazione nel settore è diminuita di due terzi, non perché sia calata la produzione – che è aumentata sostanzialmente – ma perché gran parte del carbone viene oggi dalle miniere a cielo aperto che hanno bisogno di pochissime maestranze. A questo punto, l’occupazione nelle miniere di carbone pesa un sedicesimo di punto percentuale del dato complessivo degli Stati Uniti: chiudere l’intero settore eliminerebbe meno posti di lavoro di quelli che l’America ha perso in media in una settimana, durante la Grande Recessione del 2007-2009.

Ovvero, mettiamola in questo modo: la vera guerra sul carbone, o almeno sui lavoratori del carbone, ebbe luogo una generazione fa, e non venne intrapresa dagli ambientalisti, ma dall’industria stessa del carbone. E i lavoratori del carbone furono sconfitti.

I proprietari delle miniere di carbone e delle centrali elettriche alimentate a carbone hanno sicuramente un interesse economico nel bloccare la politica ambientalista, ma persino in quel caso gli interessi particolari non appaiono così grandi. Perché, dunque, l’opposizione alla politica climatica è così intensa?

Ebbene, pensiamo al riscaldamento globale dal punto di vista di qualcuno che sia cresciuto all’insegnamento di Ayn Rand [2], ovvero che creda che l’incondizionato perseguimento del proprio interesse sia sempre positivo e che il governo della cosa pubblica sia sempre il problema e mai la soluzione. Ci si mettono anche alcuni scienziati che dichiarano che l’incondizionato perseguimento del proprio interesse distruggerà il mondo, e che l’intervento del governo è l’unica risposta. Non è importante quanto rendete favorevole al mercato l’intervento proposto; esso è una sfida diretta alla concezione del mondo libertariana [3] .

A quel punto, la reazione naturale consiste nel negare, nel negare con rabbia. Si legga o si assista ad un qualsiasi ampio dibattito sulla politica climatica, e si resterà sbigottiti dal livore, dal vero e proprio furore dei ‘negazionisti’.

Il fatto che le preoccupazioni sul clima si fondino sul consenso scientifico rende le cose persino peggiori, giacché entra in gioco l’anti-intellettualismo che è sempre stato una forza potente nella vita americana, principalmente a destra. Non è davvero sorprendente che tanti politici e commentatori si siano orientati rapidamente alle teorie della cospirazione, alle accuse secondo le quali migliaia di ricercatori in giro per il mondo fossero collusi in una gigantesca bufala il cui vero scopo era giustificare la presa del potere delle ideologia stataliste. Dopo tutto, la destra non ha mai gradito o creduto particolarmente agli scienziati.

Dunque, l’ostacolo vero, come ci misuriamo sul tema del riscaldamento globale, è una ideologia economica rafforzata dall’ostilità alla scienza. In qualche modo, questo rende l’obbiettivo più semplice: infatti, non siamo tenuti a costringere le persone ad accettare grandi sacrifici monetari. Dobbiamo invece prevalere sull’ignoranza orgogliosa e testarda, la qualcosa per la verità non è semplice.

 

 

[1] Ovvero, sistemi miranti alla limitazione delle emissioni che si basano sulla definizione di un limite (“cap”) e sulla possibilità successiva di aprire un commercio tra le imprese, facendo diventare il rispetto di tale limite un valore, ed il non-rispetto un costo. Vale a dire che chi realizza buone prestazioni non ha penalizzazioni e, se ottiene risultati qualitativamente superiori al minimo previsto, può addirittura “rivenderle” a chi non le realizza, per consentire a questi ultimi di continuare provvisoriamente ad operare. In altre parole, ci sarebbero limiti e su quei limiti si avvierebbe una competizione economica reale, essendo interesse di tutti – almeno in teoria – di comportarsi nel migliore dei modi, per guadagnare ed evitare costi, ed anche – se virtuosi – di ‘rivendere’ i propri buoni risultati.

[2] Ayn Rand, è lo pseudonimo di  Alisa Zinov’yevna Rosenbaum O’Connor (San Pietroburgo, 2 febbraio 1905New York, 6 marzo 1982);  scrittrice, filosofa e sceneggiatrice statunitense di origine russa. La sua filosofia e la sua narrativa insistono sui concetti di individualismo, egoismo razionale (“interesse razionale”) e ed etica del capitalismo, nonché sulla sua opposizione al comunismo ed a ogni forma di collettivismo socialista e fascista. Il pensiero cosiddetto “oggettivista” della Rand ha – come anche tutto il “libertarianism” – molteplici origini liberiste, anarchiche, antitotalitarie ed anche, più singolarmente, capitalistiche; talora con esiti irreligiosi. Ma il mito dell’industriale creativo soffocato dalla burocrazia e costretto ad una resistenza addirittura “militante” – che è il tema del suo romanzo “Atlas Shrugged” –  è certamente una passione americana, nel senso almeno che sarebbe arduo immaginarlo come tema di un romanzo, altrove. Più recentemente, il libro della Rand è stato indicato come riferimento favorito da parte di molti repubblicani americani.Ayn Rand, è lo pseudonimo di  Alisa Zinov’yevna Rosenbaum O’Connor (San Pietroburgo, 2 febbraio1905New York, 6 marzo1982);  scrittrice, filosofa e sceneggiatricestatunitense di origine russa. La sua filosofia e la sua narrativa insistono sui concetti di individualismo, egoismo razionale (“interesse razionale”) e ed etica del capitalismo, nonché sulla sua opposizione al comunismo ed a ogni forma di collettivismosocialista e fascista.

[3] Ovvero alla suddetta ideologia, diciamo così, liberista (anche se, come si è visto alla nota precedente, il pensiero ‘libertariano’ è qualcosa di più complesso del semplice ‘liberismo’, ed ha origini molto più lontane nella tradizione americana).

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