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La manipolazione è finita. Eric Cantor e la morte di un movimento, di Paul Krugman (New York Times 12 giugno 2014)

 

The Fix Isn’t In

Eric Cantor and the Death of a Movement

JUNE 12, 2014 Paul Krugman

How big a deal is the surprise primary defeat of Representative Eric Cantor, the House majority leader? Very. Movement conservatism, which dominated American politics from the election of Ronald Reagan to the election of Barack Obama — and which many pundits thought could make a comeback this year — is unraveling before our eyes.

I don’t mean that conservatism in general is dying. But what I and others mean by “movement conservatism,” a term I think I learned from the historian Rick Perlstein, is something more specific: an interlocking set of institutions and alliances that won elections by stoking cultural and racial anxiety but used these victories mainly to push an elitist economic agenda, meanwhile providing a support network for political and ideological loyalists.

By rejecting Mr. Cantor, the Republican base showed that it has gotten wise to the electoral bait and switch, and, by his fall, Mr. Cantor showed that the support network can no longer guarantee job security. For around three decades, the conservative fix was in; but no more.

To see what I mean by bait and switch, think about what happened in 2004. George W. Bush won re-election by posing as a champion of national security and traditional values — as I like to say, he ran as America’s defender against gay married terrorists — then turned immediately to his real priority: privatizing Social Security. It was the perfect illustration of the strategy famously described in Thomas Frank’s book “What’s the Matter With Kansas?” in which Republicans would mobilize voters with social issues, but invariably turn postelection to serving the interests of corporations and the 1 percent.

In return for this service, businesses and the wealthy provided both lavish financial support for right-minded (in both senses) politicians and a safety net — “wing-nut welfare” — for loyalists. In particular, there were always comfortable berths waiting for those who left office, voluntarily or otherwise. There were lobbying jobs; there were commentator spots at Fox News and elsewhere (two former Bush speechwritersare now Washington Post columnists); there were “research” positions (after losing his Senate seat, Rick Santorum became director of the “America’s Enemies” program at a think tank supported by the Koch brothers, among others).

The combination of a successful electoral strategy and the safety net made being a conservative loyalist a seemingly low-risk professional path. The cause was radical, but the people it recruited tended increasingly to be apparatchiks, motivated more by careerism than by conviction.

That’s certainly the impression Mr. Cantor conveyed. I’ve never heard him described as inspiring. His political rhetoric was nasty but low-energy, and often amazingly tone-deaf. You may recall, for example, that in 2012 he chose to celebrate Labor Day with a Twitter post honoring business owners. But he was evidently very good at playing the inside game.

It turns out, however, that this is no longer enough. We don’t know exactly why he lost his primary, but it seems clear that Republican base voters didn’t trust him to serve their priorities as opposed to those of corporate interests (and they were probably right). And the specific issue that loomed largest, immigration, also happens to be one on which the divergence between the base and the party elite is wide. It’s not just that the elite believes that it must find a way to reach Hispanics, whom the base loathes. There’s also an inherent conflict between the base’s nativism and the corporate desire for abundant, cheap labor.

And while Mr. Cantor won’t go hungry — he’ll surely find a comfortable niche on K Street — the humiliation of his fall is a warning that becoming a conservative apparatchik isn’t the safe career choice it once seemed.

So whither movement conservatism? Before the Virginia upset, there was a widespread media narrative to the effect that the Republican establishment was regaining control from the Tea Party, which was really a claim that good old-fashioned movement conservatism was on its way back. In reality, however, establishment figures who won primaries did so only by reinventing themselves as extremists. And Mr. Cantor’s defeat shows that lip service to extremism isn’t enough; the base needs to believe that you really mean it.

In the long run — which probably begins in 2016 — this will be bad news for the G.O.P., because the party is moving right on social issues at a time when the country at large is moving left. (Think about how quickly the ground has shifted on gay marriage.) Meanwhile, however, what we’re looking at is a party that will be even more extreme, even less interested in participating in normal governance, than it has been since 2008. An ugly political scene is about to get even uglier.

 

La manipolazione è finita.

Eric Cantor e la morte di un movimento, di Paul Krugman

New York Times 12 giugno 2014

 

E’ un fatto importante la sconfitta a sorpresa nelle primarie di Eric Cantor, il leader della maggioranza alla Camera [1]? Molto importante. Il movimento conservatore, che ha dominato la scena politica americana nel periodo tra l’elezione di Ronald Reagan e quella di Barack Obama – e che molti commentatori pensavano potesse tornare in auge quest’anno – si sta sfaldando dinanzi ai nostri occhi.

Non voglio dire che il conservatorismo in generale stia scomparendo. Quello che io ed altri chiamiamo “movimento conservatore”, un termine che penso di aver mutuato dallo storico Rick Perlstein, è qualcosa di più specifico: un complesso intreccio di istituzioni e di alleanze che ha vinto le elezioni attizzando una inquietudine culturale e razziale, ma usando queste vittorie principalmente per far avanzare un programma economico a vantaggio delle élite, fornendo nel frattempo una rete di sostegno politico ed ideologico ai suoi fedeli.

Rigettando la candidatura di Cantor, la base repubblicana ha dimostrato di essere diventata esperta dinanzi agli specchietti per le allodole elettorali, e il signor Cantor, con la sua caduta, ha dimostrato che la rete di sostegno non può più garantire la sicurezza del posto di lavoro. Per circa tre decenni quel genere di manipolazione conservatrice è stata in funzione; oggi non più.

Per capire quello che intendo con il gioco degli specchietti per le allodole, si pensi a quello che accadde nel 2004. George W. Bush si aggiudicò le elezioni imponendosi come un campione della sicurezza nazionale e dei valori tradizionali – come dico io, si atteggiò a difensore dell’America contro i terroristi e i matrimoni gay – poi si volse immediatamente alla sua priorità effettiva: la privatizzazione della Previdenza Sociale. Fu la illustrazione perfetta della famosa strategia descritta nel libro di Thomas Frank: “Qual è il problema nel Kansas?”, con la quale i repubblicani mobilitavano elettori sulle tematiche sociali, ma dopo le elezioni invariabilmente tornavano a servire gli interessi delle grandi imprese e dell’1 per cento dei più ricchi.

In cambio di questo servizio, le imprese e gli individui facoltosi fornivano sia un generoso sostegno finanziario per i politici della destra (o, se si vuole, per i benpensanti [2]), sia una rete di sicurezza, un sistema di foraggiamenti per gli attivisti esaltati. In particolare, c’erano sempre comodi luoghi di approdo per coloro che lasciavano una carica, volontariamente o in altro modo. C’erano i posti di lavoro nelle lobby; c’erano posti di commentatore a Fox New e un po’ dappertutto (due precedenti individui che scrivevano i discorsi di Bush sono oggi articolisti del Washington Post); c’erano posizioni di “ricerca” (dopo aver perso il seggio al Senato, Rick Santorum divenne direttore del programma “I nemici dell’America” presso una fondazione sostenuta, tra gli altri, dai fratelli Koch).

La combinazione di una strategia elettorale di successo e della rete di sicurezza fece diventare la fedeltà conservatrice un indirizzo professionale apparentemente con pochi rischi. Il proposito era estremista, ma le persone che venivano reclutate tendevano ad essere sempre di più uomini di apparato, più motivati dalla voglia di far carriera che dalla convinzione.

Questa era certamente l’impressione che Cantor trasmetteva. Non l’ho mai sentito particolarmente ispirato. La sua retorica politica era malevola ma fiacca, e spesso sorprendentemente stonata. Potete ricordare, come esempio, quando nel 2012 scelse di festeggiare il Giorno del Lavoro con un post su Twitter che celebrava i proprietari di impresa. Ma evidentemente era bravo nel giocare la sua partita dentro il meccanismo.

Si scopre, tuttavia, che quel gioco è terminato. Non sappiamo esattamente perché egli abbia perso le sue primarie, ma sembra chiaro che gli elettori della base repubblicana non erano convinti che servisse le loro priorità all’opposto di quelle degli interesse dei potentati (e probabilmente avevano ragione). Ed anche sul tema specifico che si è imposto in massima misura, l’immigrazione, si dà il caso che la divergenza tra la base ed i gruppi dirigenti del partito sia ampia. Non si tratta solo del fatto che i dirigenti credono di dover trovare un modo per interloquire con gli Ispanici, che la base detesta. C’è anche un intrinseco conflitto tra l’ideologia ‘autoctona’ della base ed il desiderio da parte delle imprese di forza lavoro abbondante e a basso costo.

E se il signor Cantor non farà la fame – troverà certamente qualche comoda nicchia a “K Street” [3] – l’umiliazione della sua sconfitta è un ammonimento: diventare un uomo d’apparato conservatore non è quella scelta di una carriera sicura che sembrava un tempo.

E’ dunque in declino il movimento conservatore? Prima della sconfitta in Virginia, c’era un racconto diffuso nei media secondo il quale il gruppo dirigente repubblicano stava riguadagnando un controllo rispetto al Tea Party, la tesi era che il movimento conservatore dei bei tempi andati fosse sulla via del ritorno. In realtà, tuttavia, i personaggi del gruppo dirigente che hanno vinto le primarie, ci sono riusciti solo reinventandosi come estremisti. E la sconfitta del signor Cantor dimostra che l’adesione di facciata all’estremismo non basta; la base ha bisogno di credere che si si è estremisti sul serio.

Nel lungo periodo – che probabilmente avrà inizio nel 2016 – questa è una cattiva notizia per il Partito Repubblicano, perché il partito sui temi sociali si sta spostando a destra, mentre il paese si sta ampiamente spostando a sinistra (si pensi alla rapidità con la quale è cambiato il clima sui matrimoni gay). Nel frattempo, tuttavia, ci troviamo di fronte ad un partito che diventerà ancora più estremista, ancora meno interessato a dare il suo contributo nel governo delle cose quotidiane, di quanto non lo sia stato a partire dal 2008. Uno scenario politico preoccupante sta per diventare persino più preoccupante.

 

 

[1] Eric Ivan Cantor è membro della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti per il Partito Repubblicano. E’ stato eletto la prima volta nel 2001, nel settimo distretto congressuale della Virginia. Dal 2011 è leader della maggioranza della Camera, ovvero la principale figura del Partito Repubblicano in quel ramo del Congresso, dove i repubblicani hanno la maggioranza.

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[2] “Il termine “right-minded” può significare sia che si ha una tendenza verso la destra che verso le cose ‘giuste’.

[3] Nel linguaggio politico americano “K Street” è sinonimo di un luogo dove prosperano attività varie foraggiate dalle lobby. Effettivamente, è una strada di Washington che nel passato ha ospitato quel genere di attività, anche se oggi in gran parte si sono trasferite altrove.

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