June 28, 2014 3:00 pm
Simon Wren-Lewis and Mark Thoma write about the rise of New Classical Macroeconomics — basically the rejection of Keynes and the attempted assimilation of macro into micro. Unusually, I have some bones to pick with both, although we clearly agree on the big stuff.
Mark writes about the rise and fall of new classical macro — which is, I’m sorry to say, much too optimistic. Anti-Keynesian views, indeed real business cycle theory asserting that inadequate demand can never be a problem, retains a firm grip on much of the profession. It’s still quite hard to publish papers doing anything like what I would consider useful business cycle analysis in good journals, and it’s still very hard for young macroeconomists with a reality sense to get appointments and promotion.
More broadly, the fundamental shift in intellectual criteria that Simon has written about several times — from “does the model fit the facts?” to “does it have rigorous foundations in maximization?” — remains very much in force.
You might have expected both the 2008 crisis and the years of poor performance that followed — years in which new classical types made massively wrong predictions, while people who remembered IS-LM did much better — would have changed this a lot. But remember that new classical macro fundamentally elevated microfoundations above empirical success; so orthodoxy largely brushed aside empirical failure.
But my small quarrel with Simon involves how we got into this state. He dismisses the stagflation of the 1970s, on the grounds that IS-LM macroeconomics quickly adapted to the new information. Indeed, this happened very fast: by 1978 both the leading undergraduate macro textbooks, Dornbusch-Fischer and Gordon, had accelerationist Phillips curves and extensive discussions of stagflation. (Compare this with new classical macro, which failed decisively in the 1980s, but never adjusted at all.)
Nonetheless, I remember the 70s quite well, and stagflation did indeed play a role in the rise of new classical macro, albeit in a subtler way than the caricature that it proved Keynes wrong, or something like that.
What mattered instead was the fact that stagflation had in effect been predicted by Friedman and Phelps; and the way they made that prediction was by taking a step in the direction of microfoundations. Specifically, they asked what a more or less rational price-setter would do in the face of persistent inflation; their answer was, raise prices preemptively, and if everyone did this it would shift the Phillips curve up by the amount of expected inflation. Sure enough, the Phillips curve did seem to shift as predicted.
What this did was to give immense prestige to the notion that you could use the assumption of rationality to make better predictions than you could using historical experience alone. And for a while, this created a presumption that more rationality in the model was always progress.
In the 80s, as I said, this was proved wrong, and the whole enterprise should have been reconsidered. But by then you already had a self-perpetuating clique that cared very little about evidence and regarded the assumption of perfect rationality as sacrosanct — if you weren’t assuming that, you weren’t doing real economics. So the effects of events were asymmetric: the 70s led Keynesians to adapt, but new classicals shrugged off the 80s, just as they are shrugging off the Great Recession.
In the long run, new classical macro may erode in the face of its uselessness. But in the long run — well, you know.
La Stagflazione e la caduta della macroeconomia
Simon Wren-Lewis e Mark Thoma scrivono sulla ascesa di una Nuova Macroeconomia Neoclassica – fondamentalmente il rigetto di Keynes ed il tentativo di assimilare la macroeconomia alla microeconomia. Non è frequente, ma ho qualche punto da chiarirmi con entrambi, sebbene sulle cose più importanti siamo d’accordo.
Mark scrive della ascesa e della caduta di una nuova macroeconomia classica – la qualcosa, mi spiace dirlo, è troppo ottimistica. I punti di vista anti-keynesiani, in sostanza la teoria del ciclo economico reale che sostiene che una domanda inadeguata non può mai essere un problema, mantengono una forte presa su una buona parte della disciplina. E’ ancora abbastanza arduo pubblicare saggi facendo ciò che io riterrei utile come analisi del ciclo economico su riviste importanti, ed è davvero molto difficile per giovani macroeconomisti con un senso della realtà ottenere nomine e promozioni.
Più in generale, il fondamentale cambiamento nei criteri intellettuali di cui Simon ha scritto molte volte – da “il modello si adatta ai fatti?” al “ci sono fondamenti rigorosi nella teoria della massimizzazione?” – resta in gran parte irrealizzato.
Ci si sarebbe potuto aspettare che sia la crisi del 2008 che gli anni delle modeste prestazioni che sono seguiti – anni nei quali gli individui dell’orientamento neoclassico hanno fatto previsioni completamente sbagliate, mentre le persone che si ricordavano del modello IS-LM si sono comportate assai meglio – avrebbero modificato molto questa situazione. Ma si rammenti che la nuova macroeconomia classica sostanzialmente pone i fondamenti microeconomici al di sopra delle affermazioni empiriche; dunque l’ortodossia in gran parte trascura le controindicazioni empiriche.
Ma il mio piccolo dissenso con Simon riguarda il modo in cui siamo finiti in questa situazione. Egli trascura la stagflazione degli anni ’70, sulla base del fatto che la macroeconomia del modello IS-LM si adattò rapidamente alle nuove acquisizioni. In effetti, questo avvenne molto rapidamente: con il 1978, entrambi i più importanti libro di testo, di Dornbusch-Fisher e di Gordon, contenevano le curve accelerazioniste di Phillips [1] ed ampie trattazioni sulla stagflazione (a confronto con la macroeconomia classica, che in modo definitivo non fu all’altezza dei problemi negli anni ’80, ma non si corresse mai).
Purtuttavia io ricordo abbastanza bene gli anni ’70, e la stagflazione giocò in effetti un ruolo nell’ascesa della nuova macroeconomia classica, sebbene in un modo più sottile della caricatura secondo la quale essa avrebbe smascherato il torto di Keynes, o cose del genere.
Quello che invece fu importante fu il fatto che la stagflazione era in effetti stata prevista da Friedman e Phelps; ed il modo in cui essi fecero quella previsione consistette nel fare un passo verso la teoria dei fondamenti micro. In modo particolare, essi si chiesero cosa avrebbe fatto un più o meno razionale determinatore dei prezzi a fronte di una persistente inflazione; la loro risposta fu che avrebbe elevato i prezzi preventivamente, e se ognuno si fosse comportato in questo modo ciò avrebbe spostato verso l’alto la curva di Phillips per la quantità della inflazione attesa. Di fatto, la curva di Phillips non sembrò spostarsi come previsto.
Negli anni ’80, come ho detto, questo si mostrò infondato, e l’intera impresa dovette essere riconsiderata. Ma a quel punto esisteva già una cricca tendente alla auto-perpetuazione che si curava molto poco delle prove e considerava gli assunti della perfetta razionalità come sacrosanti – se non partivate da quelle premesse, non stavate facendo vera economia. Dunque, gli effetti dei fatti furono asimmetrici: gli anni ’70 portano i keynesiani ad un adattamento, ma i neoclassici trascurano gli anni ’80, proprio come stanno trascurando la Grande Recessione.
Nel lungo periodo la macroeconomia neoclassica può sgretolarsi a fronte della sua inutilità. Ma nel lungo periodo …. ebbene, lo sapete [2].
[1] Per la “curva di Phillips” vedi le note sulla traduzione.
[2] Nel lungo periodo, secondo la nota espressione di Keynes, saremo tutti morti.
By mm
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