June 5, 2014 8:17 am
Nate Silver got a lot of grief when he chose Roger Pielke Jr., of all people, to write about environment for the new 538. Pielke is regarded among climate scientists as a concern troll – someone who pretends to be open-minded, but is actually committed to undermining the case for emissions limits any way he can. But is this fair?
Well, I’m happy to report that Pielke has a letter in today’s Financial Times about the economics of emissions caps – something I know a fair bit about – that abundantly confirms his bad reputation. Better still, the letter offers a teachable moment, a chance to explain why claims that we can’t limit emissions without destroying economic growth are nonsense.
Here’s Pielke:
Carbon emissions are the product of growth in gross domestic product and of the technologies of energy consumption and production. More precisely, this relationship is called the Kaya Identity – after Yoichi Kaya, the Japanese scientist who first proposed it in the 1980s.
Thus, by definition, a “carbon cap” necessarily means that a government is committing to either a cessation of economic growth or to the systematic advancement of technological innovation in energy systems on a predictable schedule, such that economic growth is not constrained. Because halting economic growth is not an option, in China or anywhere else, and because technological innovation does not occur via fiat, there is in practice no such thing as a carbon cap.
This is actually kind of wonderful, in a bang-your-head-on-the-table sort of way. Pielke isn’t claiming that it’s hard in practice to limit emissions without halting economic growth, he’s arguing that it’s logically impossible. So let’s talk about why this is stupid.
Yes, emissions reflect the size of the economy and the available technologies. But they also reflect choices – choices about what to consume and how to produce it, choices about which of a number of energy technologies to use. These choices are, in turn, strongly affected by incentives: change the incentives and you can greatly change the quantity of emissions associated with a given amount of real GDP.
Take, as an example we’re all familiar with, auto emissions. In a wealthy economy, people will want to move around. But some of them might use public transit if the price and quality is right; they could drive fuel-efficient cars rather than big SUVs; they could use diesel, or hybrid vehicles. All these choices would impose some cost, and reduce real income to some extent — but the effect wouldn’t remotely be that real GDP would fall one-for-one with emissions.
As it happens, by the way, the Obama administration’s tightening of fuel economy standards is by some measures as important a move as its power-plant regulations. Still, the power plant policy is what’s in the news and motivate Pielke’s letter. Where are the choices there?
The answer is, everywhere. Electricity consumption isn’t in a fixed relationship with GDP: there are many choices to be made on things like insulation and building design. Even more important, there are many ways to generate electricity: coal, gas, nuclear, hydro, wind, solar — and the alternatives to coal are more competitive than ever before. That doesn’t mean that reducing emissions has no cost — but again, the idea that, say, a 30 percent fall in emissions requires a 30 percent fall in GDP is ludicrous.
Nor am I just speculating idly. Data on the energy intensity of GDP show big variations across time and space, e.g. the sharp decline in US intensity after the oil shocks of the 1970s, which then flattened out as prices came down, and the much lower energy intensity of European nations with high gasoline taxes. And energy economists have devoted a lot of effort to modeling the effects of carbon limits like those the EPA is proposing, generally finding at most modest costs.
Let me add, by the way, that Pielke’s fallacy here — the notion that there’s a rigid link between growth and pollution — is shared by some people on the left, who believe that saving the planet means that economic growth must end. What we actually need is a change in the form of growth — and that’s exactly the kind of thing markets are good at, if you get the prices right.
Anyway, I guess I should thank Pielke for his intervention, which has helped clarify how we should think both about energy issues and about him.
Scelte energetiche
Nate Silver ha fatto un gran disastro quando ha scelto, per scrivere sui temi dell’ambiente nel nuovo blog “538”, Roger Pielke Jr. Tra gli scienziati del clima, Pielke è considerato un po’ come un provocatore – uno che pretende di essere di mente aperta, ma in effetti è impegnato a indebolire in tutti i modi l’argomento dei limiti sulle emissioni. Ma è una cosa giusta?
Ebbene, sono contento di poter riferire che Pielke ha oggi pubblicato una lettera sul Financial Times sull’economia dei limiti delle emissioni – un argomento che un po’ conosco – che conferma abbondantemente la sua cattiva reputazione. Più ancora: la lettera offre una occasione istruttiva, una possibilità per spiegare perché gli argomenti sulla impossibilità di limitare le emissioni senza distruggere la crescita dell’economia sono un nonsenso.
Ecco Pielke:
“Le emissioni di anidride carbonica sono il prodotto della crescita del prodotto interno lordo e delle tecnologie del consumo e della produzione di energia. Più precisamente, questa relazione è chiamata “l’identità di Kaya” – da Yoichi Kaya, lo scienziato giapponese che per primo la propose negli anno ’80.
Di conseguenza, per definizione, un “limite al carbone” significa necessariamente che un governo è impegnato o a interrompere la crescita economica, oppure a interrompere l’avanzamento sistematico dell’innovazione tecnologica nei sistemi energetici sulla base di programmi definiti, in modo tale che la crescita economica non subisca restrizioni. In pratica, non esiste una soluzione come un limite al carbone, perché interrompere la crescita economica non è un’opzione, e perché l’innovazione tecnologica non avviene per decreto.”
E’ un ragionamento meraviglioso, del genere dello “sbattere la testa sul tavolo”. Pielke non sta sostenendo che è difficile nella pratica limitare le emissioni senza bloccare la crescita economica, sta sostenendo che è logicamente impossibile. Fatemi dunque dire quanto questo sia stupido.
Sì, le emissioni sono un riflesso della dimensione delle attività economiche e delle tecnologie disponibili. Ma sono anche il riflesso di scelte – scelte su cosa consumare e su come produrlo, scelte su quali tecnologie energetiche utilizzare entro un certo numero di possibilità. Queste scelte sono, a loro volta, fortemente influenzate dagli incentivi: si cambino gli incentivi e si potrà modificare notevolmente la quantità di emissioni connesse con una data quantità di PIL.
Si prenda un esempio che è a tutti familiare, le emissioni dell’automobile. In una economia ricca, la gente vuole circolare. Ma alcuni di loro potrebbero utilizzare il trasporto pubblico, se il prezzo e la qualità fossero giusti; potrebbero guidare macchine con combustibili efficienti invece di grandi SUV; potrebbero utilizzare diesel o veicoli ibridi. Tutte queste scelte imporrebbero alcuni costi, e in qualche misura ridurrebbero il reddito effettivo – ma l’effetto non sarebbe neanche lontanamente quello di una riduzione del PIL reale in un rapporto di uno ad uno con le emissioni.
Si dà il caso, per inciso, che la restrizione degli standard dell’economia di combustibili da parte della Amministrazione Obama sia, in qualche misura, un mossa significativa nei regolamenti delle centrali elettriche. Inoltre, la politica per le centrali elettriche è quanto appare nelle recenti notizie e nella ispirata lettera di Pielke. Dove sono, in quel caso, le scelte?
La risposta è: dappertutto. Il consumo di elettricità non è in una relazione obbligata col PIL: ci sono molte scelte da fare su cose come l’isolamento e la progettazione dei palazzi. Ancora più importante, ci sono molti modi per generare elettricità: carbone, gas, nucleare, idroelettrico, eolico, solare – e le alternative al carbone sono più economiche di quanto non siano mai state. Questo non significa che ridurre le emissioni non abbia un costo – ma anche qua, l’idea che, diciamo, ridurre del 30 per cento le emissioni comporti una caduta del 30 per cento del PIL è ridicola.
Né sto affatto facendo supposizioni per inerzia. I dati sull’intensità di energia sul PIL mostrano grandi variazioni nel tempo e nello spazio, ad esempio il brusco declino dell’intensità energetica degli Stati Uniti dopo gli shock del petrolio degli anni ’70, che successivamente si appiattì con la caduta dei prezzi, e la molto più bassa intensità di energia delle nazioni europee con elevate tasse sulle benzine. E gli economisti energetici hanno dedicato molti sforzi a modellare gli effetti dei limiti sulla anidride carbonica che l’EPA sta proponendo, in generale trovando nella maggioranza dei casi costi modesti.
Fatemi aggiungere, per inciso, che in questo caso l’errore di Pielke – l’idea che vi sia una connessione rigida tra crescita ed inquinamento – è condivisa alla sinistra da alcune persone, che credono che salvare il pianeta significhi che la crescita economica si debba interrompere. Quello di cui abbiamo effettivamente bisogno è un cambiamento nella forma delle crescita – ed è esattamente il genere di cose che i mercati sono buoni a fare, se si gestiscono correttamente i prezzi.
In ogni modo, suppongo di dover ringraziare Pielke per il suo intervento, che ha contribuito a render chiaro come dovremmo ragionare sulle tematiche energetiche e su lui stesso.
By mm
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