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Sulla negazione dell’ineguaglianza, di Paul Krugman (New York Times 1 giugno 2014)

 

On Inequality Denial

JUNE 1, 2014 Paul Krugman

A while back I published an article titled “The Rich, the Right, and the Facts,” in which I described politically motivated efforts to deny the obvious — the sharp rise in U.S. inequality, especially at the very top of the income scale. It probably won’t surprise you to hear that I found a lot of statistical malpractice in high places.

Nor will it surprise you to learn that nothing much has changed. Not only do the usual suspects continue to deny the obvious, but they keep rolling out the same discredited arguments: Inequality isn’t really rising; O.K., it’s rising, but it doesn’t matter because we have so much social mobility; anyway, it’s a good thing, and anyone who suggests that it’s a problem is a Marxist.

What may surprise you is the year in which I published that article: 1992.

Which brings me to the latest intellectual scuffle, set off by an article by Chris Giles, the economics editor of The Financial Times, attacking the credibility of Thomas Piketty’s best-selling “Capital in the Twenty-First Century.” Mr. Giles claimed that Mr. Piketty’s work made “a series of errors that skew his findings,” and that there is in fact no clear evidence of rising concentration of wealth. And like just about everyone who has followed such controversies over the years, I thought, “Here we go again.”

Sure enough, the subsequent discussion has not gone well for Mr. Giles. The alleged errors were actually the kinds of data adjustments that are normal in any research that relies on a variety of sources. And the crucial assertion that there is no clear trend toward increased concentration of wealth rested on a known fallacy, an apples-to-oranges comparison that experts have long warned about — and that I identified in that 1992 article.

At the risk of giving too much information, here’s the issue. We have two sources of evidence on both income and wealth: surveys, in which people are asked about their finances, and tax data. Survey data, while useful for tracking the poor and the middle class, notoriously understate top incomes and wealth — loosely speaking, because it’s hard to interview enough billionaires. So studies of the 1 percent, the 0.1 percent, and so on rely mainly on tax data. The Financial Times critique, however, compared older estimates of wealth concentration based on tax data with more recent estimates based on surveys; this produced an automatic bias against finding an upward trend.

In short, this latest attempt to debunk the notion that we’ve become a vastly more unequal society has itself been debunked. And you should have expected that. There are so many independent indicators pointing to sharply rising inequality, from the soaring prices of high-end real estate to the booming markets for luxury goods, that any claim that inequality isn’t rising almost has to be based on faulty data analysis.

Yet inequality denial persists, for pretty much the same reasons that climate change denial persists: there are powerful groups with a strong interest in rejecting the facts, or at least creating a fog of doubt. Indeed, you can be sure that the claim “The Piketty numbers are all wrong” will be endlessly repeated even though that claim quickly collapsed under scrutiny.

By the way, I’m not accusing Mr. Giles of being a hired gun for the plutocracy, although there are some self-proclaimed experts who fit that description. And nobody’s work should be considered above criticism. But on politically charged issues, critics of the consensus need to be self-aware; they need to ask whether they’re really seeking intellectual honesty, or are effectively acting as concern trolls, professional debunkers of liberal pieties. (Strange to say, there are no trolls on the right debunking conservative pieties. Funny how that works.)

So here’s what you need to know: Yes, the concentration of both income and wealth in the hands of a few people has increased greatly over the past few decades. No, the people receiving that income and owning that wealth aren’t an ever-shifting group: People move fairly often from the bottom of the 1 percent to the top of the next percentile and vice versa, but both rags to riches and riches to rags stories are rare — inequality in average incomes over multiple years isn’t much less than inequality in a given year. No, taxes and benefits don’t greatly change the picture — in fact, since the 1970s big tax cuts at the top have caused after-tax inequality to rise faster than inequality before taxes.

This picture makes some people uncomfortable, because it plays into populist demands for higher taxes on the rich. But good ideas don’t need to be sold on false pretenses. If the argument against populism rests on bogus claims about inequality, you should consider the possibility that the populists are right.

 

Sulla negazione dell’ineguaglianza, di Paul Krugman

New York Times 2 giugno 2014

 

Un po’ di tempo fa pubblicai un articolo dal titolo “Il ricco, il giusto e i fatti”, nel quale descrivevo sforzi per negare l’evidenza con motivazioni politiche – la brusca crescita dell’ineguaglianza, specialmente nelle posizioni più in alto della scala dei redditi. Probabilmente non vi sorprenderà sapere che scoprii un bel po’ di negligenza statistica nelle alte sfere.

Né vi sorprenderà apprendere che non è cambiato molto. Non solo i soliti noti continuano a negare l’evidenza, ma continuano a svolgere gli stessi argomenti screditati: l’ineguaglianza non sta realmente crescendo; va bene, sta crescendo, ma non è importante perché abbiamo una così grande mobilità sociale; in ogni modo, è una cosa positiva, e chiunque sostenga che è un problema è un marxista.

Quello che può essere sorprendente è l’anno in cui pubblicai quell’articolo: il 1992 [1].

La qualcosa mi porta all’ultima baruffa intellettuale, esplosa a seguito di un articolo di Chris Giles, redattore economico del Financial Times, che ha attaccato la credibilità del best-seller di Thomas Piketty “Il capitale nel Ventunesimo Secolo”. Il signor Giles ha sostenuto che il lavoro di Piketty contiene “una serie di errori che distorcono le sue scoperte” e che, di fatto, non c’è alcuna chiara prova della crescente concentrazione della ricchezza. E proprio come quasi tutti coloro che hanno seguito quelle controversie nel corso degli anni, io ho pensato “ci risiamo!”.

E’ indubbio che la discussione successiva non è andata bene per il signor Giles. I pretesi errori erano semplicemente quel tipo di aggiustamenti statistici che sono normali in ricerche che si basano su una varietà di fonti. E l’affermazione cruciale secondo la quale non c’è alcuna evidente tendenza verso la concentrazione della ricchezza si basa su un errore noto, un confronto ‘pere con mele’ sul quale gli esperti hanno messo in guardia da tempo – e che io mettevo in evidenza nell’articolo del 1992.

Al rischio di fornire troppa informazione, il tema è il seguente. Abbiamo due fonti di prova per il reddito e per la ricchezza: i sondaggi, nel quali si chiedono alle persone informazioni sulle loro finanze, e le statistiche fiscali. I dati dei sondaggi, mentre sono utili per seguire gli andamenti per i poveri e per la classe media, notoriamente sottostimano i redditi più elevati e la ricchezza – per dirla in modo semplicistico, perché è difficile intervistare un numero sufficiente di miliardari. Dunque, gli studi sull’1 per cento, sullo 0,1 per cento, e così via si basano principalmente sui dati fiscali. La critica del Financial Times, tuttavia, confrontava stime più antiche sulla concentrazione della ricchezza basate sui dati fiscali con stime recenti basate sui sondaggi; con il che si produceva una sorta di pregiudizio automatico, che impedisce di scoprire una tendenza alla crescita dell’ineguaglianza.

In breve, questo ultimissimo tentativo di confutare il concetto che siamo diventati una società molto più ineguale, è esso stesso stato smascherato. E ce lo saremmo dovuti aspettare. C’erano talmente tanti indicatori oggettivi che indicavano una brusca crescita dell’ineguaglianza, dai prezzi che vanno alle stelle degli immobili esclusivi all’esplosione dei mercati per i beni di lusso, che ogni pretesa secondo la quale l’ineguaglianza non starebbe crescendo deve basarsi su una analisi fallace delle statistiche.

Tuttavia la negazione dell’ineguaglianza persiste, più o meno per le stesse ragioni per le quali persiste la negazione del cambiamento climatico: ci sono gruppi potenti che hanno un forte interesse a rigettare i fatti, o almeno a creare una cortina fumogena di dubbi. In sostanza, si può star certi che la pretesa secondo la quale “i dati di Piketty sono tutti sbagliati” verrà ripetuta all’infinito, anche se si tratta di una tesi che non regge un istante alla prova dei fatti.

Tra parentesi, io non sto accusando il signor Giles di essere un sicario della plutocrazia, sebbene ci siano alcuni sedicenti esperti per i quali quella definizione andrebbe a pennello. E nessun lavoro dovrebbe essere considerato immune da critiche. Ma su tematiche che hanno implicazioni politiche, le critiche alle posizioni prevalenti dovrebbero essere autoconsapevoli: ci si deve chiedere se si è davvero alla ricerca dell’onestà intellettuale, o se non ci si stia effettivamente comportando come agitatori di interessi, come smascheratori delle indulgenze progressiste (strano a dirsi, a destra non ci sono smascheratori delle debolezze conservatrici. E’ curioso come vadano le cose).

Dunque, ecco quello che si deve sapere: sì, la concentrazione sia del reddito che della ricchezza è grandemente cresciuta nei decenni passati. Ed anche: no, le persone che ricevono quel reddito e possiedono quella ricchezza non sono un gruppo che cambia in continuazione; le persone si spostano abbastanza spesso dall’1 per cento dei più poveri alla parte superiore del successivo percentile e viceversa [2], ma i racconti di chi passa dagli stracci alla ricchezza e dalla ricchezza agli stracci sono abbastanza rari – l’ineguaglianza nei redditi medi in un certo numero di anni non è minore dell’ineguaglianza in un unico anno. E infine, no: le tasse ed i sussidi non cambiano di molto il quadro – di fatto, a partire dagli anni ‘70, i grandi sgravi fiscali per i più ricchi hanno permesso all’ineguaglianza dopo le tasse di crescere più rapidamente dell’ineguaglianza prima delle tasse.

Questo quadro ad alcuni risulta sgradito, perché fa gioco alle richieste populiste di tasse più elevate sui ricchi. Ma le buone idee non hanno bisogno di essere messe in circolazione sotto mentite spoglie. Se l’argomento contro il populismo si basa sulle pretese fasulle sull’ineguaglianza, si dovrebbe anche considerare la possibilità che i populisti abbiano ragione [3].

 

 

[1] Una curiosità: dal blog di Krugman (31 maggio) è possibile una connessione con un suo vecchio articolo con il titolo suddetto, ma l’articolo, che si riferisce al dibattito nel 1992, è però del dicembre del 2001.

[2]Ovvero, dal livello minimo della ricchezza che riguarda la fetta dell’uno per cento di coloro che sono più in basso nella scala sociale, al livello immediatamente superiore che riguarda il 2 per cento della scala sociale.

[3] Come si può notare l’uso del termine “populismo/populista” ha un significato precipuamente comprensibile dentro la cultura politica americana, e non del tutto esportabile.

La cosa non è semplice da spiegare. Il ‘populismo’ in parte è ed in parte non è un giudizio di valore negativo. La democrazia reale – questo è il concetto che mi pare implicito – non dà a tutti le stesse possibilità di espressione; quello è un principio della democrazia, e non è possibile confonderlo con un esito assicurato. Sulla base reale di questa ineguaglianza materiale dei diritti, si può fondare una politica che si fonda sull’idea di un rovesciamento dei valori. Di per sé quell’idea è inaccettabile, e “unamerican”, perché i valori politici americani si fondano sull’idea di liberi processi di miglioramento, non su ideologie che cristallizzano le realtà. Il che però comporta anche che in vari casi la politica ufficiale abbia ‘bisogno’ di populismo, per essere costretta a reimmergersi nella realtà effettiva. Il primo è un populismo inconcludente – che in qualche modo segna tutto l’anticomunismo e l’antisocialismo della storia politica americana, con varie derive apertamente antidemocratiche e maccartiste; il secondo invece spiega il motivo per il quale si possa parlare talora di populismo senza una particolare connotazione pregiudiziale. Ad esempio, il populismo designò fenomeni politici sulla fine dell’Ottocento (il “People’s Party” del 1982, composto dai contadini del Sud e del MidWest) ed è rimasto una caratterizzazione possibile di posizioni, sia democratiche che conservatrici.

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