Articoli sul NYT

Chi vuole una depressione?, di Paul Krugman (New York Times 10 luglio 2014)

 

Who Wants a Depression?

JULY 10, 2014 Paul Krugman

One unhappy lesson we’ve learned in recent years is that economics is a far more political subject than we liked to imagine. Well, duh, you may say. But, before the financial crisis, many economists — even, to some extent, yours truly — believed that there was a fairly broad professional consensus on some important issues.

This was especially true of monetary policy. It’s not that many years since the administration of George W. Bush declared that one lesson from the 2001 recession and the recovery that followed was that “aggressive monetary policy can make a recession shorter and milder.” Surely, then, we’d have a bipartisan consensus in favor of even more aggressive monetary policy to fight the far worse slump of 2007 to 2009. Right?

Well, no. I’ve written a number of times about the phenomenon of “sadomonetarism,” the constant demand that the Federal Reserve and other central banks stop trying to boost employment and raise interest rates instead, regardless of circumstances. I’ve suggested that the persistence of this phenomenon has a lot to do with ideology, which, in turn, has a lot to do with class interests. And I still think that’s true.

But I now think that class interests also operate through a cruder, more direct channel. Quite simply, easy-money policies, while they may help the economy as a whole, are directly detrimental to people who get a lot of their income from bonds and other interest-paying assets — and this mainly means the very wealthy, in particular the top 0.01 percent.

The story so far: For more than five years, the Fed has faced harsh criticism from a coalition of economists, pundits, politicians and financial-industry moguls warning that it is “debasing the dollar” and setting the stage for runaway inflation. You might have thought that the continuing failure of the predicted inflation to materialize would cause at least a few second thoughts, but you’d be wrong. Some of the critics have come up with new rationales for unchanging policy demands — it’s about inflation! no, it’s about financial stability! — but most have simply continued to repeat the same warnings.

Who are these always-wrong, never-in-doubt critics? With no exceptions I can think of, they come from the right side of the political spectrum. But why should right-wing sentiments go hand in hand with inflation paranoia? One answer is that using monetary policy to fight slumps is a form of government activism. And conservatives don’t want to legitimize the notion that government action can ever have positive effects, because once you start down that path you might end up endorsing things like government-guaranteed health insurance.

But there’s also a much more direct reason for those defending the interests of the wealthy to complain about easy money: The wealthy derive an important part of their income from interest on bonds, and low-rate policies have greatly reduced this income.

Complaints about low interest rates are usually framed in terms of the harm being done to retired Americans living on the interest from their CDs. But the interest receipts of older Americans go mainly to a small and relatively affluent minority. In 2012, the average older American with interest income received more than $3,000, but half the group received $255 or less. The really big losers from low interest rates are the truly wealthy — not even the 1 percent, but the 0.1 percent or even the 0.01 percent. Back in 2007, before the slump, the average member of the 0.01 percent received $3 million (in 2012 dollars) in interest. By 2011, that had fallen to $1.3 million — a loss equivalent to almost 9 percent of the group’s 2007 income.

That’s a lot, and it surely explains a lot of the hysteria over Fed policy. The rich are even more likely than most people to believe that what’s good for them is good for America — and their wealth and the influence it buys ensure that there are always plenty of supposed experts eager to find justifications for this attitude. Hence sadomonetarism.

Which brings me back to the politicization of economics.

Before the financial crisis, many central bankers and economists were, it’s now clear, living in a fantasy world, imagining themselves to be technocrats insulated from the political fray. After all, their job was to steer the economy between the shoals of inflation and depression, and who could object to that?

It turns out, however, that using monetary policy to fight depression, while in the interest of the vast majority of Americans, isn’t in the interest of a small, wealthy minority. And, as a result, monetary policy is as bound up in class and ideological conflict as tax policy.

The truth is that in a society as unequal and polarized as ours has become, almost everything is political. Get used to it.

Chi vuole una depressione?, di Paul Krugman

New York Times 10 luglio 2014

Una spiacevole lezione che abbiamo appreso negli anni recenti è che la scienza economica è molto più dipendente dalla politica di quello che ci piaceva immaginare. Non è una grande scoperta, direte. Il fatto è che, prima della crisi finanziaria, molti economisti – persino, in qualche misura, il sottoscritto – credevano che ci fosse nella disciplina un consenso abbastanza generale su alcuni temi importanti.

Questo era particolarmente vero per la politica monetaria. Non sono passati molti anni da quando l’Amministrazione di George W. Bush dichiarava che una lezione della recessione del 2001 e della successiva ripresa era stata che “una politica monetaria aggressiva può rendere più breve e più leggera la recessione”. E’ certo, dunque, che avremmo avuto un consenso bipartisan a favore di una politica monetaria anche più aggressiva per combattere la recessione molto peggiore dal 2007 al 2009. Non è così?

No, non è così. Ho scritto varie volte sul fenomeno del “sadomonetarismo”, la richiesta costante alla Federal Reserve e ad altre banche centrali di cessare di cercare di incoraggiare l’occupazione e piuttosto di elevare i tassi di interesse, a prescindere dalle circostanze. Ho suggerito che la persistenza di questo fenomeno avesse molto a che fare con l’ideologia, la quale, a sua volta, ha molto a che fare con gli interessi di classe. E penso ancora che sia vero.

Ma oggi penso che gli interessi di classe abbiano operato attraverso un canale più rozzo e più diretto. Abbastanza semplicemente, le politiche della moneta facile, mentre possono essere di sostegno all’economia nel suo complesso, sono direttamente a detrimento delle persone che ottengono una gran parte del loro reddito dai bond e da altri asset che pagano interessi – e questo significa principalmente i molto ricchi, in particolare lo 0,01 per cento di quelli che hanno i redditi più elevati.

Ecco la storia sino a questo punto: per più di cinque anni la Fed ha fronteggiato aspre critiche da parte di una coalizione di economisti, commentatori, uomini politici e magnati del settore finanziario che mettevano in guardia sul fatto che essa stava “svalutando il dollaro” e creando le premesse per una inflazione fuori controllo. E’ possibile che abbiate pensato che il permanente mancato avveramento della predetta inflazione avrebbe almeno provocato un po’ di ripensamenti, ma avreste avuto torto. Alcuni dei critici sono venuti fuori con nuovi argomenti per richieste politiche immutate – “Riguarda l’inflazione! No, dipende dalla stabilità finanziaria!” – ma la maggioranza ha semplicemente continuato a ripetere gli stessi ammonimenti.

Chi sono questi critici, che sbagliano sempre e non hanno mai dubbi? Posso individuarli senza incertezza, vengono dallo schieramento di destra della compagine politica. Ma perché i sentimenti di destra dovrebbero andare a braccetto con la paranoia dell’inflazione? Una risposta è che usare la politica monetaria per combattere le recessioni è una forma di attivismo dei governi. Ed i conservatori non vogliono legittimare l’idea che l’azione dei governi possa mai avere effetti positivi, perché una volta che ci si incammina su quel sentiero si potrebbe finire con l’appoggiare cose come l’assicurazione sanitaria garantita dallo Stato.

Ma c’è anche una ragione più diretta per coloro che difendono le ragioni dei ricchi a protestare contro la moneta facile: i più ricchi derivano una parte importante del loro reddito dagli interessi sui bond, e le politiche dei bassi tassi hanno grandemente ridotto questa fonte di reddito.

Le lamentele sui bassi tassi di interesse sono normalmente presentate nella forma del danno che viene fatto ai pensionati americani che vivono sugli interessi dei loro ‘certificati di deposito’. Ma le ricevute degli interessi degli americani più anziani principalmente vanno ad una piccola minoranza di persone relativamente benestanti. Nel 2012, la media degli americani più anziani con un reddito derivante da interessi riceveva più di 3000 dollari, ma per la metà di loro non si superavano i 255 dollari. I veri grandi perdenti dai bassi tassi di interesse sono i veri ricchi – neanche il cosiddetto ‘1 per cento’, ma lo 0,1 per cento e persino lo 0,01 per cento. Nel passato 2007, prima della recessione, un componente medio della frazione dello 0,01 per cento riceveva 3 milioni di dollari (in dollari del 2012) in interessi. Con il 2012, quella somma era caduta a 1 milione e trecentomila dollari – una perdita equivalente a quasi il 9 per cento del reddito dell’intero gruppo.

E’ una quantità notevole, e certamente spiega un bel po’ dell’isteria sulla politica della Fed. I ricchi sono capaci di credere, ancora di più della maggioranza delle persone, che quello che va bene a loro va bene all’America – e la loro ricchezza, nonché l’influenza che essa può acquistare, gli consente di avere sempre in abbondanza sedicenti esperti, ansiosi di trovare giustificazioni a questa inclinazione. Da qua il sadomonetarismo.

La qualcosa mi riporta alla politicizzazione dell’economia.

Prima della crisi finanziaria, molti banchieri centrali ed economisti, adesso è chiaro, vivevano in un mondo fantastico, si immaginavano come tecnocrati estranei alla mischia della politica. Dopo tutto, il loro lavoro consisteva nel pilotare l’economia tra le secche dell’inflazione e della recessione, e chi poteva essere contrario?

Si scopre, tuttavia, che utilizzare la politica monetaria per combattere la depressione, mentre è nell’interesse della grande maggioranza degli americani, non è nell’interesse della piccola minoranza dei più ricchi. E, di conseguenza, la politica monetaria è legata al conflitto di classe ed ideologico nello stesso modo della politica fiscale.

La verità è che in società così ineguali e polarizzate come le nostre, quasi tutto è politica. Facciamoci l’abitudine.

By


Commenti dei Lettori (0)


E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"