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Il Medio Oriente e il ritorno della storia, di Joschka Fischer (da Project Syndicate, 1 luglio 2014)

 

Joschka Fischer

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JUL 1, 2014

The Middle East and the Return of History

BERLIN – Ever since Francis Fukuyama argued, more than two decades ago, that the world had reached the end of history, history has made the world hold its breath. China’s rise, the Balkan wars, the terrorist attacks of September 11, 2001, the wars in Afghanistan and Iraq, the global financial crisis of 2008, the “Arab Spring,” and the Syrian civil war all belie Fukuyama’s vision of the inevitable triumph of liberal democracy. In fact, history could be said to have come full circle in the space of a quarter-century, from the fall of communism in Europe in 1989 to renewed confrontation between Russia and the West.

But it is in the Middle East that history is at work on a daily basis and with the most dramatic consequences. The old Middle East, formed out of the remains of the Ottoman Empire after World War I, is clearly falling apart, owing, in no small part, to America’s actions in this conflict-prone region.

The United States’ original sin was its military invasion of Iraq in 2003 under President George W. Bush. The “neoconservatives” in power at the time were oblivious to the need to fill the power vacuum both in Iraq and the region following the removal of Saddam Hussein. President Barack Obama’s hasty, premature military withdrawal constituted a second US failure.

America’s withdrawal, nearly coinciding with the outbreak of the Arab Spring and the eruption of the Syrian civil war, and its persistent passivity as the regional force for order, now threatens to lead to the disintegration of Iraq, owing to the rapid advance of the Islamic State in Iraq and Syria, including its capture of the country’s second-largest city, Mosul. Indeed, with ISIS in control of most of the area northwest of Baghdad, the border between Iraq and Syria has essentially ceased to exist. Many of their neighbors’ borders may also be redrawn by force. An already massive humanitarian disaster seems certain to become worse.

Should ISIS succeed in establishing a permanent state-like entity in parts of Iraq and Syria, the disintegration of the region would accelerate, the US would lose its “global war on terror,” and world peace would be seriously threatened. But even without an ISIS terror state, the situation remains extremely unstable, because the Syrian civil war is proving to be highly contagious. In fact, “civil war” is a misnomer, because events there have long entailed a struggle between Saudi Arabia and Iran for regional predominance, powered by the age-old conflict between Islam’s Sunni majority and Shia minority.

The Kurds form another unstable component of the Ottoman legacy. Divided among several Middle Eastern countries – Iran, Iraq, Syria, and Turkey – the Kurds have been fighting for their own state for decades. Nonetheless, they have shown great restraint in northern Iraq since Saddam’s fall, contenting themselves with building up their autonomous province both economically and politically – to the point that it is independent in all but name, with a strong and experienced army in the Peshmerga militia.

The advance of ISIS and its capture of Mosul have now resolved, in one fell swoop, all territorial disputes between the central government and the Kurdish regional government in favor of the latter, particularly regarding the city of Kirkuk. Following the Iraqi army’s retreat, the Peshmerga promptly took over the city, giving the Kurdish north ample oil and gas reserves. Moreover, neighboring Iran and Turkey, as well as the US, will urgently need the Peshmerga’s support against ISIS. Thus, an unexpected window of opportunity has opened for the Kurds to achieve full independence, though their dependence on good relations with both Turkey and Iran for access to global markets will moderate their political ambitions.

Moreover, with its invasion of Iraq, the US opened the door to regional hegemony for Iran and initiated a dramatic shift in its own regional alliances, the long-term effects of which – including the current nuclear negotiations with the Iranian government – are now becoming apparent. Both sides are fighting the same jihadists, who are supported by America’s supposed allies, the Sunni-ruled Gulf states. Though the US and Iran remain opposed to official cooperation, the wheels have been set in motion, with direct bilateral talks becoming routine.

One key question for the future is whether Jordan, which plays a key function in the region’s equilibrium, will survive the geopolitical shifts unscathed. If it does not, the entire balance of power in the traditional Middle East conflict between Israel and the Palestinians could collapse. The consequences would most likely be far-reaching, if difficult to assess in advance.

For Europe, developments in the Middle East pose two major risks: returning jihadi fighters who threaten to bring the terror with them, and a spillover of their extremist ideas to parts of the Balkans. In the interest of their own security, the European Union and its member states will be compelled to pay much closer attention to southeastern Europe than they have until now.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Medio Oriente e il ritorno della storia

di Joschka Fischer

 

BERLINO – E’ da quando Francis Fukuyama sostenne, più di vent’anni fa, che il mondo aveva raggiunto la fine della storia, che la storia costringe il mondo a stare col fiato sospeso. L’ascesa della Cina, le guerre nei Balcani, le guerre in Afghanistan e in Iraq, la crisi finanziaria globale del 2008, la “Primavera Araba” e la guerra civile siriana hanno tutte contraddetto la visione di Fukuyama del trionfo inevitabile della democrazia liberale. Di fatto, si potrebbe dire che la storia nello spazio di venticinque anni abbia percorso un cerchio completo, dalla caduta del comunismo in Europa al nuovo confronto tra la Russia e l’Occidente.

Ma è nel Medio Oriente che la storia è quotidianamente al lavoro e con le conseguenze più drammatiche. Il vecchio Medio Oriente, scaturito dai resti dell’Impero Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale, chiaramente sta andando a pezzi, a seguito, non in piccola misura, delle iniziative dell’America, in questa regione così incline al conflitto.

Il peccato originale degli Stati Uniti è stata l’invasione dell’Iraq nel 2003, sotto il Presidente George W. Bush. I “neoconservatori” al potere in quei tempi neppure percepirono la necessità di coprire il vuoto di potere conseguente alla rimozione di Saddam Hussein. Il frettoloso, prematuro ritiro militare del Presidente Obama, ha rappresentato un secondo insuccesso degli Stati Uniti.

Il ritiro dell’America, che ha coinciso da vicino con l’esplosione della Primavera Araba e con lo scoppio della guerra civile siriana, e la sua prolungata passività come fattore regionale di ordine, ora minaccia di portare alla disintegrazione dell’Iraq, a seguito del rapido avanzamento dello Islamic State in Iraq e in Siria, compresa la conquista della seconda città del paese, Mosul. In pratica, con il controllo dell’ISIS [1] di gran parte dell’area a nord ovest di Bagdad, il confine tra l’Iraq e la Siria ha cessato di esistere. Anche molti dei confini dei loro vicini potrebbero essere ridisegnati con la forza. Un disastro umanitario già massiccio pare destinato con certezza a peggiorare.

Se l’ISIS dovesse avere successo nello stabilire una entità di tipo statale in zone dell’Iraq e della Siria, si avrebbe una accelerazione della disintegrazione della regione, e la pace mondiale sarebbe seriamente minacciata. Ma anche senza uno stato del terrore dell’ISIS, la situazione resterebbe estremamente instabile, perché la guerra civile siriana si sta dimostrando altamente contagiosa. Di fatto “guerra civile” è una definizione impropria, giacché gli eventi nella regione hanno da tempo comportato una battaglia per il predominio regionale tra l’Arabia Saudita e l’Iran, acuita da un conflitto di vecchia data tra la maggioranza islamica sunnita e la minoranza sciita [2].

I Curdi costituiscono un’altra componente instabile dell’eredità ottomana. Divisi tra vari paesi del Medio Oriente – Iran, Iraq, Siria e Turchia – i curdi stanno combattendo da decenni per un loro proprio Stato. Ciononostante, essi hanno mostrato grande moderazione nell’Iraq settentrionale dal momento della caduta di Saddam, accontentandosi di far crescere la loro provincia autonoma sia economicamente che politicamente – al punto che essa è indipendente in tutti i sensi ad eccezione che nella denominazione, con un esercito forte ed esperto costituito dalla milizia Peshmerga [3].

L’avanzata dell’ISIS e la sua cattura di Mosul hanno ora risolto, in un colpo solo, tutte le dispute territoriali tra il Governo centrale ed il Governo regionale dei Curdi a favore di quest’ultimo, in particolare nel caso della città di Kirkuk. A seguito della ritirata dell’esercito iracheno, i Peshmerga hanno prontamente preso il controllo della città, consegnando ai Curdi ampie riserve di petrolio e di gas naturale. Inoltre, i pasi vicini dell’Iran e della Turchia, come gli Stati Uniti, avranno urgentemente bisogno del sostegno dei Peshmerga contro l’ISIS. Dunque, si è aperta una inaspettata finestra per i Curdi per ottenere piena indipendenza, sebbene il loro bisogno di buone relazioni sia con la Turchia che con l’Iran per l’accesso ai mercato globali sarà un fattore di moderazione delle loro ambizioni politiche.

Inoltre, con la loro invasione dell’Iraq, gli Stati Uniti hanno aperto la porta all’egemonia regionale dell’Iran ed hanno dato inizio ad uno spettacolare spostamento delle sue stesse alleanze politiche, i cui effetti a lungo termine – inclusi gli attuali negoziati nucleari con il Governo iraniano – stanno ora divenendo evidenti. Entrambi gli schieramenti stanno combattendo i medesimi jihadisti, che sono sostenuti dai presunti alleati dell’America, gli Stati del Golfo governati dai Sunniti. Sebbene gli Stati Uniti e l’Iran restino ostili ad una cooperazione ufficiale, le cose si sono messe in movimento, attraverso diretti colloqui bilaterali che stanno diventando normali.

Una questione chiave per il futuro è se la Giordania, che gioca una funzione chiave nell’equilibrio della regione, resterà indenne agli spostamenti della geopolitica. Se non accadesse, l’intero equilibrio dei poteri nel conflitto tradizionale medio orientale tra Israele ed i palestinesi entrerebbe in crisi. Le conseguenze, con tutta probabilità, sarebbero di vasta portata, seppure difficili da stimare in anticipo.

Per l’Europa, gli sviluppi nel Medio Oriente comportano due rischi importanti: il ritorno dei combattenti jihadisti che minacciano di portarsi dietro il terrorismo, ed una espansione delle idee estremistiche dalle parti dei Balcani. Nell’interesse della loro propria sicurezza, l’Unione Europea ed i suoi stati membri saranno costretti a prestare una attenzione molto più ravvicinata all’Europa sud orientale, rispetto a quanto non hanno fatto sino ad ora.

 

 

 

[1] Lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (in arabo: al-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa al-Shām, a volte tradotto come Stato Islamico dell’Iraq e della Siria), spesso abbreviato con l’acronimo inglese ISIL, ISIS o in arabo: Dāʿish, è uno stato non riconosciuto e un gruppo jihadista attivo in Siria e in Iraq. Nel giugno 2014 ha proclamato la nascita dello Stato Islamico, con il suo comandante Abu Bakr al-Baghdadi come “califfo“. (Wikipedia) E queste sono le sue impressionanti dimensioni (le parti in rosso sono quelle controllate, quelle in rosa sono quelle rivendicate):

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[2] Gli sciiti devono il loro nome all’espressione “shīʿat ʿAlī” (fazione di ʿAlī), sovente abbreviata semplicemente in “Shīʿa“. Hanno cominciato il loro lento cammino di differenziazione da quello che, sotto Ahmad ibn Hanbal, diventerà il Sunnismo per motivi al contempo politici e spirituali. L’occasione fu offerta dall’assassinio perpetrato dalle forze califfali omayyadi ai danni di al-Ḥusayn b. ʿAlī, figlio di ʿAlī b. Abī Ṭālib, avvenuto nel 680 a Karbalāʾ, in Iraq. In quell’occasione si pose con forza la questione-cardine dell’Imamato: se cioè ammettere che alla suprema carica islamica potesse accedere un qualsiasi credente (come era già stato il caso di Mu’awiya ibn Abi Sufyan e di suo figlio e successore Yazid ibn Mu’awiya), oppure riservare il posto di Califfo/Imam a un appartenente alla cerchia ristretta dei Compagni del Profeta e – con l’inevitabile trascorrere del tempo – riservarlo a un appartenente al lignaggio di Maometto (Ahl al-Bayt). Gli alidi si cominciarono a differenziare dal resto della Umma, dal momento che considerarono unica legittimata a governare l’Ahl al-Bayt, mentre il resto dei musulmani ritenne che qualsiasi fedele di buona capacità religiosa, non necessariamente discendente del Profeta, anche se preferibilmente appartenente alla sua tribù – i Coreisciti -, potesse guidare a pieno titolo la Comunità islamica. Col tempo gli alidi misero per scritto le loro riflessioni teologiche e politologiche, evolvendo verso quello che diventerà il vero e proprio Sciismo. Da quanti si potranno di lì a poco legittimamente chiamare “sunniti” (la definizione sarà data da Ibn Ḥanbal, col suo auspicio che la Umma fosse una Ahl al-sunna wa l-jamāʿa, cioè “Gente che si rifà alla tradizione [di Maometto] e che non origina secessioni”), gli sciiti presero a differenziarsi anche a proposito di alcuni altri istituti giuridici, ammettendo, ad esempio, la legittimità del matrimonio a tempo prefissato, detto mutʿa, sulla scorta di precisi ḥadīth del Profeta, negando (come facevano i sunniti) che Maometto avesse posto fine a una tal pratica preislamica al ritorno dalla conquista di Khaybar. Secondo alcuni studiosi sunniti (e, negli ultimi tempi, i wahhabiti in particolare), una parte dello Sciismo penserebbe che dal Corano – raccolto all’epoca del califfo ʿUthmān b. ʿAffān – siano stati espunti alcuni passaggi e una sura intera (la sūrat al-wilāya, ovvero “capitolo della luogotenenza”) che attestavano la designazione a succedergli, fatta da Maometto in favore di ʿAlī. Questa affermazione è decisamente respinta dagli attuali sciiti che ribadiscono invece che nello Sciismo nessuno avrebbe mai affermato l’incompletezza del Testo Sacro islamico. (Wikipedia)

 

[3] La parola Peshmerga indica un combattente guerrigliero che intende battersi fino alla morte. Il nome è stato ugualmente usato per i combattenti autonomisti e indipendentisti curdi in Iraq e per i combattenti pathani (pashtun) lungo la frontiera dell’Afghanistan. (Wikipedia)

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