JUL 9, 2014
NEW YORK – For better or worse, economic-policy debates in the United States are often echoed elsewhere, regardless of whether they are relevant. Australian Prime Minister Tony Abbott’s recently elected government provides a case in point.
As in many other countries, conservative governments are arguing for cutbacks in government spending, on the grounds that fiscal deficits imperil their future. In the case of Australia, however, such assertions ring particularly hollow – though that has not stopped Abbott’s government from trafficking in them.
Even if one accepts the claim of the Harvard economists Carmen Reinhart and Kenneth Rogoff that very high public debt levels mean lower growth – a view that they never really established and that has subsequently been discredited – Australia is nowhere near that threshold. Its debt/GDP ratio is only a fraction of that of the US, and one of the lowest among the OECD countries.
What matters more for long-term growth are investments in the future – including crucial public investments in education, technology, and infrastructure. Such investments ensure that all citizens, no matter how poor their parents, can live up to their potential.
There is something deeply ironic about Abbott’s reverence for the American model in defending many of his government’s proposed “reforms.” After all, America’s economic model has not been working for most Americans. Median income in the US is lower today than it was a quarter-century ago – not because productivity has been stagnating, but because wages have.
The Australian model has performed far better. Indeed, Australia is one of the few commodity-based economies that has not suffered from the natural-resource curse. Prosperity has been relatively widely shared. Median household income has grown at an average annual rate above 3% in the last decades – almost twice the OECD average.
To be sure, given its abundance of natural resources, Australia should have far greater equality than it does. After all, a country’s natural resources should belong to all of its people, and the “rents” that they generate provide a source of revenue that could be used to reduce inequality. And taxing natural-resource rents at high rates does not cause the adverse consequences that follow from taxing savings or work (reserves of iron ore and natural gas cannot move to another country to avoid taxation). But Australia’s Gini coefficient, a standard measure of inequality, is one-third higher than that of Norway, a resource-rich country that has done a particularly good job of managing its wealth for the benefit of all citizens.
One wonders whether Abbott and his government really understand what has happened in the US? Does he realize that since the era of deregulation and liberalization began in the late 1970s, GDP growth has slowed markedly, and that what growth has occurred has primarily benefited those at the top? Does he know that prior to these “reforms,” the US had not had a financial crisis – now a regular occurrence around the world – for a half-century, and that deregulation led to a bloated financial sector that attracted many talented young people who otherwise might have devoted their careers to more productive activities? Their financial innovations made them extremely rich but brought America and the global economy to the brink of ruin.
Australia’s public services are the envy of the world. Its health-care system delivers better outcomes than the US, at a fraction of the cost. It has an income-contingent education-loan program that permits borrowers to spread their repayments over more years if necessary, and in which, if their income turns out to be particularly low (perhaps because they chose important but low-paying jobs, say, in education or religion), the government forgives some of the debt.
The contrast with the US is striking. In the US, student debt, now in excess of $1.2 trillion (more than all credit-card debt), is becoming a burden for graduates and the economy. America’s failed financial model for higher education is one of the reasons that, among the advanced countries, America now has the least equality of opportunity, with the life prospects of a young American more dependent on his or her parents’ income and education than in other advanced countries.
Abbott’s notions about higher education also suggest that he clearly does not understand why America’s best universities succeed. It is not price competition or the drive for profit that has made Harvard, Yale, or Stanford great. None of America’s great universities are for-profit-institutions. They are all not-for-profit institutions, either public or supported by large endowments, contributed largely by alumni and foundations.
There is competition, but of a different sort. They strive for inclusiveness and diversity. They compete for government research grants. America’s under-regulated for-profit universities excel in two dimensions: the ability to exploit young people from poor backgrounds, charging them high fees without delivering anything of value, and the ability to lobby for government money without regulation and to continue their exploitative practices.
Australia should be proud of its successes, from which the rest of the world can learn a great deal. It would be a shame if a misunderstanding of what has happened in the US, combined with a strong dose of ideology, caused its leaders to fix what is not broken.
Illusioni americane all’altro capo del mondo
di Joseph Stiglitz
NEW YORK – In un modo più o meno positivo, si è spesso avuta eco dappertutto dei dibattiti di politica economica negli Stati Uniti, a prescindere dalla loro rilevanza. Il Governo recentemente eletto del Primo Ministro australiano Tony Abbot ce ne fornisce un esempio.
Come in molti altri paesi, i governi conservatori si stanno pronunciando per tagli alla spesa pubblica, sulla base del fatto che i deficit della finanza pubblica metterebbero in pericolo il futuro. Nel caso dell’Australia, tuttavia, tali giudizi sembrano particolarmente vacui – sebbene questo non abbia impedito ad Abbot a metterli in circolazione.
Anche se uno accettasse la pretesa degli economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff secondo la quale elevati livelli di debito pubblico comportano una crescita minore – un punto di vista che essi non hanno mai effettivamente dimostrato e che successivamente è stato screditato – l’Australia non è affatto vicina ad una soglia del genere. Il suo rapporto tra debito e PIL è solo una frazione di quello degli Stati Uniti, ed uno dei più bassi tra i paesi dell’OCSE.
Quello che conta per la crescita a lungo termine sono gli investimenti nel futuro – compresi gli investimenti cruciali nell’istruzione, nella tecnologia e nelle infrastrutture. Tali investimenti assicurano che tutti i cittadini, a prescindere dalla povertà dei loro genitori, possono essere all’altezza delle loro potenzialità.
C’è qualcosa di profondamente ironico nell’ossequio di Abbot al modello americano, quando egli difende molte delle “riforme” proposte dal suo Governo. Il reddito mediano [1] è oggi più basso negli Stati Uniti di quanto fosse 25 anni orsono – non perché abbia ristagnato la produttività, ma perché sono ristagnati i salari.
Il modello australiano ha avuto prestazioni molto migliori. In effetti, l’Australia è una delle poche economie basate sulle derrate alimentari che non ha sofferto per la maledizione delle risorse naturali. La prosperità è stata abbastanza ampiamente condivisa. Il reddito mediano delle famiglie è cresciuto ad una tasso medio annuale superiore al 3 per cento negli ultimi decenni – quasi il doppio della media OCSE.
Per la verità, data la sua abbondanza di risorse naturali, l’Australia avrebbe dovuto avere una eguaglianza molto maggiore. Dopo tutto, le risorse naturali del paese dovrebbero appartenere a tutti i suoi cittadini, e le “rendite” che esse generano dovrebbero fornire una fonte di reddito che potrebbe essere utilizzata per ridurre l’ineguaglianza. E tassare le rendite delle risorse naturali con aliquote elevate non provoca le conseguenze negative che derivano dal tassare i risparmi o il lavoro (le riserve dei minerali ferrosi o del gas naturale non possono spostarsi in un altro paese per evitare le tasse). Ma il coefficiente Gini [2] dell’Australia, il metro di misura standard dell’ineguaglianza, è un terzo più elevato di quello della Norvegia, un paese ricco di risorse che ha fatto un lavoro particolarmente buono nel gestire la sua ricchezza a beneficio di tutti i cittadini.
C’è da chiedersi se Abbot e il suo Governo comprendano per davvero quello che è accaduto negli Stati Uniti. Ci si rende conto che a partire dalla deregolamentazione e dalla liberalizzazione avviate sulla fine degli anni ’70, la crescita del PIL è rallentata in modo evidente, e che della crescita che si è realizzata hanno principalmente beneficiato coloro che sono in cima alla scala sociale? Si sa che prima di quelle “riforme” per mezzo secolo gli Stati Uniti non ebbero una crisi finanziaria – ora diventata un evento consueto in tutto il mondo, e che la deregolamentazione ha riempito il settore finanziario di giovani di valore, che altrimenti avrebbero potuto dedicare le loro carriere ad attività più produttive? Le loro innovazioni finanziarie li hanno resi estremamente ricchi, ma hanno portato l’America e l’economia globale sull’orlo della rovina.
Il mondo intero invidia i servizi pubblici dell’Australia. Il suo sistema di assistenza sanitaria produce risultati migliori di quello degli Stati Uniti, con una frazione di costi. Essa ha un programma di prestiti educativi dipendenti dal reddito che, se necessario, permette a chi prende prestiti di distribuire la loro restituzione su più anni, e con il quale, se si scopre che il loro reddito è particolarmente basso (perché, ad esempio, essi scelgono lavori importanti ma con bassi stipendi, in settori come l’istruzione o la religione), lo Stato condona una parte del debito.
Il contrasto con gli Stati Uniti è impressionante. Negli Stati Uniti, il debito per studente, oggi superiore a 1.200 miliardi di dollari (più del debito di tutte le carte di credito), sta diventando un fardello per i laureati e per l’economia. Il fallimento del modello finanziario dell’istruzione superiore dell’America è una delle ragioni per le quali essa, tra i paesi avanzati, ha la minore eguaglianza di opportunità, con le prospettive di vita di un giovane americano che dipendono dal reddito e dalla istruzione dei suoi genitori, più di ogni altro paese avanzato.
Le idee di Abbot sulla istruzione superiore indicano anche che egli chiaramente non capisce perché le migliori Università degli Stati Uniti abbiano successo. Non è la competizione sui prezzi o la spinta al profitto che ha reso grandi Harvard, Yale o Stanford. Esse sono tutte istituzioni no-profit, sia che siano pubbliche oppure sostenute da larghe sovvenzioni, alle quali contribuiscono ampiamente ex-allievi o fondazioni.
C’è competizione, ma di un genere differente. Esse sono in concorrenza per il loro grado di apertura e di diversificazione. Competono per le borse di studio della ricerca statale. Le università americane scarsamente regolamentate a scopo di profitto eccellono in due caratteristiche: la capacità di sfruttare i giovani di origini povere, caricandoli di imposte senza dare in cambio niente che abbia effettivo valore, e la abilità in attività lobbystiche per accaparrarsi soldi statali senza alcuna regola e per continuare nelle loro pratiche di sfruttamento.
L’Australia dovrebbe essere orgogliosa dei suoi successi, dai quali il resto del mondo può apprendere molto. Sarebbe una vergogna se una incomprensione di quello che è successo negli Stati Uniti, combinata con una buona dose di ideologia, portasse i suoi dirigenti a cambiare ciò che ha ben funzionato.
[1] Cioè, suppongo, calcolato come media delle medie dei vari raggruppamenti – ad esempio in decili – della popolazione e non suddiviso semplicemente tra il totale degli abitanti. In questo modo l’effetto statistico dei redditi altissimi su tutti gli altri si riduce. A meno che non si intende il reddito medio della categoria ‘intermedia’.
[2] Il coefficiente di Gini, introdotto dallo statistico italiano Corrado Gini, è una misura della diseguaglianza di una distribuzione. È spesso usato come indice di concentrazione per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza. È un numero compreso tra 0 ed 1. Valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, con il valore 0 che corrisponde alla pura equidistribuzione, ad esempio la situazione in cui tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito; valori alti del coefficiente indicano una distribuzione più diseguale, con il valore 1 che corrisponde alla massima concentrazione, ovvero la situazione dove una persona percepisca tutto il reddito del paese mentre tutti gli altri hanno un reddito nullo. Si può incontrare la notazione con indice di Gini espresso in percentuale (0% – 100%), ovvero anche tra 0 e 100.(Wikipedia)
By mm
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