SEPT. 14, 2014 Paul Krugman
Last week I participated in a conference organized by Rethinking Economics, a student-run group hoping to promote, you guessed it, a rethinking of economics. And Mammon knows that economics needs rethinking in the wake of a disastrous crisis, a crisis that was neither predicted nor prevented.
It seems to me, however, that it’s important to realize that the enormous intellectual failure of recent years took place at several levels. Clearly, economics as a discipline went badly astray in the years — actually decades — leading up to the crisis. But the failings of economics were greatly aggravated by the sins of economists, who far too often let partisanship or personal self-aggrandizement trump their professionalism. Last but not least, economic policy makers systematically chose to hear only what they wanted to hear. And it is this multilevel failure — not the inadequacy of economics alone — that accounts for the terrible performance of Western economies since 2008.
In what sense did economics go astray? Hardly anyone predicted the 2008 crisis, but that in itself is arguably excusable in a complicated world. More damning was the widespread conviction among economists that such a crisis couldn’t happen. Underlying this complacency was the dominance of an idealized vision of capitalism, in which individuals are always rational and markets always function perfectly.
Now, idealized models have a useful role to play in economics (and indeed in any discipline), as ways to clarify your thinking. But starting in the 1980s it became harder and harder to publish anything questioning these idealized models in major journals. Economists trying to take account of imperfect reality faced what Harvard’s Kenneth Rogoff, hardly a radical figure (and someone I’ve sparred with) once called “new neoclassical repression.” And it should go without saying that assuming away irrationality and market failure meant assuming away the very possibility of the kind of catastrophe that overtook the developed world six years ago.
Still, many applied economists retained a more realistic vision of the world, and textbook macroeconomics, while it didn’t predict the crisis, did a pretty good job of predicting how things would play out in the aftermath. Low interest rates in the face of big budget deficits, low inflation in the face of a rapidly growing money supply, and sharp economic contraction in countries imposing fiscal austerity came as surprises to the talking heads on TV, but they were just what the basic models predicted under the conditions that prevailed postcrisis.
But while economic models didn’t perform all that badly after the crisis, all too many influential economists did — refusing to acknowledge error, letting naked partisanship trump analysis, or both. “Hey, I claimed that another depression wasn’t possible, but I wasn’t wrong, it’s all because businesses are reacting to the future failure of Obamacare.”
You might say that this is just human nature, and it’s true that while the most shocking intellectual malfeasance has come from conservative economists, some economists on the left have also seemed more interested in defending their turf and sniping at professional rivals than in getting it right. Still, this bad behavior has come as a shock, especially to those who thought we were having a real conversation.
But would it have mattered if economists had behaved better? Or would people in power have done the same thing regardless?
If you imagine that policy makers have spent the past five or six years in thrall to economic orthodoxy, you’ve been misled. On the contrary, key decision makers have been highly receptive to innovative, unorthodox economic ideas — ideas that also happen to be wrong but which offered excuses to do what these decision makers wanted to do anyway.
The great majority of policy-oriented economists believe that increasing government spending in a depressed economy creates jobs, and that slashing it destroys jobs — but European leaders and U.S. Republicans decided to believe the handful of economists asserting the opposite. Neither theory nor history justifies panic over current levels of government debt, but politicians decided to panic anyway, citing unvetted (and, it turned out, flawed) research as justification.
I’m not saying either that economics is in good shape or that its flaws don’t matter. It isn’t, they do, and I’m all for rethinking and reforming a field.
The big problem with economic policy is not, however, that conventional economics doesn’t tell us what to do. In fact, the world would be in much better shape than it is if real-world policy had reflected the lessons of Econ 101. If we’ve made a hash of things — and we have — the fault lies not in our textbooks, but in ourselves.
Come fare le cose sbagliate, di Paul Krugman
New York Times 14 settembre 2014
La scorsa settimana ho partecipato ad una conferenza organizzata da Ripensare l’economia, un gruppo gestito da studenti che auspica, niente di meno, che un ripensamento dell’economia. E Mammona è consapevole che l’economia vada ripensata, nei postumi di una crisi disastrosa, crisi che non è stata né prevista né tantomeno impedita.
A me pare, tuttavia, che sia importante comprendere che l’immane fallimento intellettuale degli anni recenti si sia manifestato a vari livelli. Chiaramente, l’economia come disciplina si è smarrita malamente negli anni – per la verità nei decenni – che hanno portato alla crisi. Ma i fallimenti dell’economia sono stati grandemente aggravati dai peccati degli economisti, che anche troppo spesso hanno permesso che la faziosità o la personale carriera prevalesse sulla loro professionalità. Da ultimo ma non per ultimo, gli operatori della politica economica hanno scelto di ascoltare solo quelli che volevano ascoltare. Ed è questo molteplice fallimento – non la sola inadeguatezza dell’economia – che spiega la terribile prestazione delle economie occidentali a partire dal 2008.
In che senso l’economia si è smarrita? A fatica si potrebbe fare l’esempio di qualcuno che aveva previsto la crisi del 2008, ma in un mondo complicato questa cosa in sé sarebbe probabilmente scusabile. Più colpevole fu la generale convinzione tra gli economisti che una crisi del genere non poteva avvenire. Era implicito in questa compiacenza il dominio di una visione idealizzata del capitalismo, secondo la quale gli individui sono sempre razionali ed i mercati funzionano sempre perfettamente.
Ora, i modelli idealizzati giocano un ruolo utile nell’economia (in effetti, in ogni disciplina): sono modi per chiarire il proprio pensiero. Ma a partire dagli anni ’80 era diventato sempre più difficile, nelle riviste importanti, pubblicare qualcosa che mettesse in dubbio questi modelli idealizzati. Gli economisti che cercavano di considerare la realtà imperfetta dovevano fare i conti con quella che Kenneth Rogoff, dell’Università di Harvard, un tempo chiamò la “nuova repressione neoclassica” (e Rogoff, con il quale mi sono trovato ai ferri corti, difficilmente è definibile un radicale). Non ci dovrebbe esser bisogno di dire che espungere l’irrazionalità e l’inadeguatezza del mercato equivaleva ad espungere la possibilità stessa di quel genere di catastrofe che sei anni orsono lasciò sul terreno il mondo sviluppato.
Eppure, molti economisti che si applicano alla realtà mantennero una visione del mondo più realistica, ed i libri di testo di macroeconomia, seppure non prevedevano la crisi, spiegavano abbastanza bene come le cose si sarebbero sviluppate a seguito di essa. I bassi tassi di interesse a fronte di ampi deficit di bilancio, la bassa inflazione a fronte di una offerta di moneta in rapida crescita, e la brusca contrazione economica nei paesi che imponevano l’austerità nei bilanci, furono una sorpresa per i conduttori di programmi televisivi, ma erano esattamente quello che i fondamentali modelli prevedevano, nelle condizioni che prevalsero dopo la crisi.
Sennonché, se i modelli economici non funzionarono così male dopo la crisi, ciò accadde a molti economisti influenti – con il rifiuto di riconoscere l’errore e consentendo che la pura e semplice faziosità si imponesse alla analisi, quando non entrambe le cose. “Ehi, io ho sostenuto che un’altra depressione non era possibile, ma non avevo torto! Tutto è dipeso dal fatto che le imprese hanno reagito al prossimo fallimento delle riforma sanitaria di Obama!”
Si potrebbe sostenere che questo sia proprio della natura umana, ed è vero che mentre la più stupefacente scorrettezza intellettuale è venuta dagli economisti conservatori, anche alcuni economisti a sinistra sono parsi più interessati a difendere il loro orticello ed a prendere di mira i professionisti rivali, piuttosto che a fare le cose giuste. Eppure, questa pessima condotta è stata vissuta con turbamento, in particolare da parte di chi pensava che fossimo impegnati in una discussione vera.
Ma, avrebbe avuto qualche peso se gli economisti si fossero comportati meglio? Oppure le persone che sono al potere avrebbe reagito nello stesso modo, a prescindere?
Se si pensa che gli operatori politici abbiano passato gli ultimi cinque o sei anni alle prese con l’ortodossia economica, si è fuori strada. Al contrario, coloro che hanno preso le decisioni fondamentali sono stati altamente recettivi verso idee economiche innovative e non ortodosse – idee che, nella fattispecie, erano anche sbagliate, ma offrivano pretesti per fare ciò che questi responsabili politici volevano fare in ogni modo.
La grande maggioranza degli economisti che si occupano di governo credono che aumentare la spesa pubblica in una economia depressa crei posti di lavoro, e che tagliare la spesa li distrugga – ma i dirigenti europei e i repubblicani statunitensi hanno deciso di credere a quella manciata di economisti che sostenevano il contrario. Né l’economia né la storia giustifica il panico sui livelli attuali del debito pubblico, ma gli uomini politici hanno deciso comunque per il panico, citando come giustificazioni ricerche prive di riscontri (ed errate, come si è scoperto).
Non sto dicendo che le condizioni dell’economia siano ottime o che i suoi difetti non contino. Non è così, sono importanti, ed io sono del tutto a favore di un ripensamento e di una riforma della disciplina.
Il grande problema della politica economica, tuttavia, non è che l’economia convenzionale non ci dice cosa si deve fare. Di fatto, il mondo sarebbe in condizioni molto migliori se la politica del mondo reale avesse riflettuto le lezioni di un qualsiasi libro di testo universitario. Se abbiamo fatto il pasticcio che abbiamo fatto, la responsabilità non sta nei nostri libri di testo, sta in noi stessi.
By mm
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