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Costi del lavoro: chi ha deviato? di Francesco Saraceno (dal blog “Sparse thoughts of a gloomy european economist”, 11 settembre 2014)

 

Labour Costs: Who is the Outlier?

By Francesco Saraceno

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September 11, 2014

Spain is today the new model, together with Germany of course, for policy makers in Italy and France. A strange model indeed, but this is not my point here. The conventional wisdom, as usual, almost impossible to eradicate, states that Spain is growing because it implemented serious structural reforms that reduced labour costs and increased competitiveness. A few laggards (in particular Italy and France) stubbornly refuse to do the same, thus hampering recovery across the eurozone. The argument is usually supported by a figure like this

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And in fact, it is evident from the figure that all peripheral countries diverged from the benchmark, Germany, and that since 2008-09 all of them but France and Italy have cut their labour costs significantly. Was it costly? Yes. Could convergence have made easier by higher inflation and wage growth in Germany, avoiding deflationary policies in the periphery? Once again, yes. It remains true, claims the conventional wisdom,  that all countries in crisis have undergone a painful and necessary adjustment. Italy and France should therefore also be brave and join the herd.

Think again. What if we zoom out, and we add a few lines to the figure? From the same dataset (OECD. Productivity and ULC By Main Economic Activity) we obtain this:

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It is unreadable, I know. And I did it on purpose. The PIIGS lines (and France) are now indistinguishable from other OECD countries, including the US. In fact the only line that is clearly visible is the dotted one, Germany, that stands as the exception. Actually no, it was beaten by deflation-struck Japan. As I am a nice guy, here is a more readable figure:

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The figure shows the difference between change in labour costs in a given country, and the change in Germany (from 1999 to 2007). labour costs in OECD economies increased 14% more than in Germany. In the US, they increased 19% more, like in France, and slightly better than in virtuous Netherlands or Finland. Not only Japan (hardly a model) is the only country doing “better” than Germany. But second best performers (Israel, Austria and Estonia) had labour costs increase 7-8% more than in Germany.

Thus, the comparison with Germany is misleading. You should never compare yourself with an outlier! If we compare European peripheral countries with the OECD average, we obtain the following (for 2007 and 2012, the latest available year in OECD.Stat):

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If we take the OECD average as a benchmark, Ireland and Spain were outliers in 2007, as much as Germany; And while since then they reverted to the mean, Germany walked even farther away. It is interesting to notice that unreformable France, the sick man of Europe, had its labour costs increase slightly less than OECD average.

Of course, most of the countries I considered when zooming out have floating exchange rates, so that they can compensate the change in relative labour costs through exchange rate variation. This is not an option for EMU countries. But this means that it is even more important that the one country creating the imbalances, the outlier, puts its house in order. If only Germany had followed the European average, it would have labour costs 20% higher than their current level. There is no need to say how much easier would adjustment have been, for crisis countries. Instead, Germany managed to impose its model to the rest of the continent, dragging the eurozone on the brink of deflation.

What is enraging is that it needed not be that way.

 

 

 

 

 

 

 

Costi del lavoro: chi ha deviato?

di Francesco Saraceno

Oggi la Spagna è il modello di riferimento per gli operatori politici in Italia e in Francia, assieme alla Germania naturalmente. In effetti, uno strano modello, ma non è quello che ora mi interessa. La saggezza convenzionale, come al solito quasi impossibile da sradicare, stabilisce che la Spagna sta crescendo perché ha messo in atto riforme strutturali serie che hanno ridotto i costi del lavoro ed aumentato la competitività. Pochi ritardatari (in particolare Italia e Francia) si rifiutano ostinatamente di fare la stessa cosa e di conseguenza impediscono la ripresa in tutta l’eurozona. Normalmente, l’argomento è sostenuto attraverso un diagramma come quello che segue:

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Di fatto, è evidente dal diagramma che tutti i paesi periferici divergono dal punto di riferimento, la Germania, e che a partire dal 2008-2009 tutti, ad eccezione di Francia ed Italia, hanno tagliato in modo significativo i loro costi del lavoro. E’ stato oneroso? Sì. Sarebbe stata più semplice una convergenza attraverso una inflazione più elevata ed una crescita dei salari in Germania, evitando politiche deflazionistiche nella periferia? Ancora, sì. Resta vero, sostiene la saggezza convenzionale, che tutti i paesi in crisi hanno subito un aggiustamento doloroso e necessario. L’Italia e la Francia dovrebbero, di conseguenza, essere coraggiosi e raggiungere il resto della comitiva.

Riflettiamo meglio. Cosa accade se torniamo indietro sull’immagine, aggiungendo ad essa qualche riga? Dalla stessa fonte (OCSE. Produttività e costi unitari del lavoro secondo le principali attività) otteniamo il seguente risultato:

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E’ illeggibile, lo capisco. E l’ho fatto apposta. Le righe dei PIIGS (e della Francia) sono ora indistinguibili dagli altri paesi dell’OCSE, inclusi gli Stati Uniti. Di fatto, l’unica linea che è chiaramente leggibile è quella a puntini, la Germania, che si distingue come una eccezione. Per la verità non del tutto, essa è stata superata dal Giappone colpito dalla deflazione. Dato che sono una persone gentile, ecco un diagramma più leggibile:

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La figura mostra la differenza tra i cambiamenti nei costi del lavoro nei vari paesi, rispetto al cambiamento in Germania (dal 1999 al 2007). I costi del lavoro nelle economie OCSE sono cresciuti del 14% più della Germania. Negli Stati Uniti essi sono cresciuti del 19% di più, come in Francia, e leggermente di meno che nelle virtuose Olanda e Finlandia. Il Giappone (che è difficile definire un modello) non è l’unico modello a fare “meglio” che in Germania. Ma coloro che si sono piazzati alle seconde migliori prestazioni (Israele, Austria ed Estonia) hanno avuto incrementi del costi del lavoro del 7-8% superiori alla Germania.

Quindi, il confronto con la Germania è fuorviante. Non ci si dovrebbe mai confrontare con una eccezione alla norma. Se si confrontano i paesi periferici europei con la media OCSE, otteniamo i dati seguenti (dal 2007 al 2012, l’ultimo dato annuale disponibile in OCSE.Stat):

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Se prendiamo la media dell’OCSE come un punto di riferimento, nel 2007 Irlanda e Spagna erano fenomeni di deviazione altrettanto della Germania; e mentre da quel momento essi sono tornati nella media, la Germania se ne è discostata anche maggiormente. E’ interessante notare che l’incorreggibile Francia, il malato d’Europa, ha visto una crescita nei suoi costi del lavoro leggermente inferiore alla media OCSE.

Naturalmente, gran parte dei paesi che ho considerato tornando indietro sull’immagine hanno avuto fluttuazioni nei loro tassi di cambio, in modo tale da compensare i mutamenti nei costi del lavoro relativi attraverso variazioni nei tassi di cambio. Questo non è possibile per l’Unione Monetaria Europea. Ma questo significa che è anche più importante che il paese che crea squilibri, il fattore di deviazione, metta ordine in casa propria. Se la Germania avesse seguito la media europea, avrebbe costi del lavoro del 20% superiori al loro attuale livello. Non c’è bisogno di dire quanto sarebbe stata più semplice la correzione, per i paesi in crisi. Invece, la Germania ha operato per imporre il suo modello al resto del continente, portando l’eurozona sull’orlo della deflazione.

Quello che manda in bestia è che non era necessario fare in tal modo.

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