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Errori ed emissioni, di Paul Krugman (New York Times 18 settembre 2014)

 

Errors and Emissions

Could Fighting Global Warming Be Cheap and Free?

SEPT. 18, 2014 Paul Krugman

This just in: Saving the planet would be cheap; it might even be free. But will anyone believe the good news?

I’ve just been reading two new reports on the economics of fighting climate change: a big study by a blue-ribbon international group, the New Climate Economy Project, and a working paper from the International Monetary Fund. Both claim that strong measures to limit carbon emissions would have hardly any negative effect on economic growth, and might actually lead to faster growth. This may sound too good to be true, but it isn’t. These are serious, careful analyses.

But you know that such assessments will be met with claims that it’s impossible to break the link between economic growth and ever-rising emissions of greenhouse gases, a position I think of as “climate despair.” The most dangerous proponents of climate despair are on the anti-environmentalist right. But they receive aid and comfort from other groups, including some on the left, who have their own reasons for getting it wrong.

Where is the new optimism about climate change and growth coming from? It has long been clear that a well-thought-out strategy of emissions control, in particular one that puts a price on carbon via either an emissions tax or a cap-and-trade scheme, would cost much less than the usual suspects want you to think. But the economics of climate protection look even better now than they did a few years ago.

On one side, there has been dramatic progress in renewable energy technology, with the costs of solar power, in particular, plunging, down by half just since 2010. Renewables have their limitations — basically, the sun doesn’t always shine, and the wind doesn’t always blow — but if you think that an economy getting a lot of its power from wind farms and solar panels is a hippie fantasy, you’re the one out of touch with reality.

On the other side, it turns out that putting a price on carbon would have large “co-benefits” — positive effects over and above the reduction in climate risks — and that these benefits would come fairly quickly. The most important of these co-benefits, according to the I.M.F. paper, would involve public health: burning coal causes many respiratory ailments, which drive up medical costs and reduce productivity.

And thanks to these co-benefits, the paper argues, one argument often made against carbon pricing — that it’s not worth doing unless we can get a global agreement — is wrong. Even without an international agreement, there are ample reasons to take action against the climate threat.

But back to the main point: It’s easier to slash emissions than seemed possible even a few years ago, and reduced emissions would produce large benefits in the short-to-medium run. So saving the planet would be cheap and maybe even come free.

Enter the prophets of climate despair, who wave away all this analysis and declare that the only way to limit carbon emissions is to bring an end to economic growth.

You mostly hear this from people on the right, who normally say that free-market economies are endlessly flexible and creative. But when you propose putting a price on carbon, suddenly they insist that industry will be completely incapable of adapting to changed incentives. Why, it’s almost as if they’re looking for excuses to avoid confronting climate change, and, in particular, to avoid anything that hurts fossil-fuel interests, no matter how beneficial to everyone else.

But climate despair produces some odd bedfellows: Koch-fueled insistence that emission limits would kill economic growth is echoed by some who see this as an argument not against climate action, but against growth. You can find this attitude in the mostly European “degrowth” movement, or in American groups like the Post Carbon Institute; I’ve encountered claims that saving the planet requires an end to growth at left-leaning meetings on “rethinking economics.” To be fair, anti-growth environmentalism is a marginal position even on the left, but it’s widespread enough to call out nonetheless.

And you sometimes see hard scientists making arguments along the same lines, largely (I think) because they don’t understand what economic growth means. They think of it as a crude, physical thing, a matter simply of producing more stuff, and don’t take into account the many choices — about what to consume, about which technologies to use — that go into producing a dollar’s worth of G.D.P.

So here’s what you need to know: Climate despair is all wrong. The idea that economic growth and climate action are incompatible may sound hardheaded and realistic, but it’s actually a fuzzy-minded misconception. If we ever get past the special interests and ideology that have blocked action to save the planet, we’ll find that it’s cheaper and easier than almost anyone imagines.

 

Errori ed emissioni, di Paul Krugman

Potrebbe essere conveniente e senza costi combattere il riscaldamento globale?

New York Times 18 settembre 2014

Notizia appena arrivata: salvare il pianeta sarebbe economico, potrebbe essere persino gratuito. Ma crederà qualcuno alla buona notizia?

Ho appena letto due nuovi rapporti sull’economia del contrasto al cambiamento climatico; un grande studio da parte di un gruppo internazionale di alta qualità, il Nuovo progetto di economia del clima, e una ricerca a cura del Fondo Monetario Internazionale. Entrambi sostengono che forti misure per limitare le emissioni di anidride carbonica probabilmente non avrebbero alcun effetto negativo sulla crescita economica, e potrebbero effettivamente provocare una crescita più rapida. Sembra troppo bello per essere vero, ma non è così. Si tratta di analisi serie, condotte con scrupolo.

Ma si sa che questi giudizi dovranno fare i conti con le pretese per le quali è impossibile rompere il legame tra crescita economica ed emissioni di gas serra in continuo sviluppo, una posizione che definirei di “angoscia climatica”. I più pericolosi tra i sostenitori dell’angoscia climatica sono nella destra anti-ambientalista. Ma ricevono aiuto e conforto da altri gruppi, compresi alcuni a sinistra, che hanno le proprie ragioni per porre la questione nel modo sbagliato.

Da dove viene il nuovo ottimismo sul cambiamento del clima e sulla crescita? Era chiaro da tempo che una strategia ben riflettuta di controllo delle emissioni, in particolare una strategia che stabilisse un prezzo alla anidride carbonica, o attraverso una tassa sulle emissioni o attraverso uno schema cap-and-trade [1], sarebbe costata molto meno di quello che i soliti noti volevano farci pensare. Ma l’economia della protezione del clima appare oggi persino migliore di quando essi sostenevano quelle posizioni anni orsono.

Da una parte, c’è stato uno spettacolare progresso nelle tecnologie delle fonti rinnovabili, con i costi dell’energia solare, in particolare, che sono crollati della metà a partire appena dal 2010. Le rinnovabili hanno i loro limiti – fondamentalmente, il sole che non brilla sempre ed il vento che non soffia in continuazione – ma se pensate che una economia che ottiene una grande quantità della sua energia dagli impianti eolici e dai pannelli solari sia una fantasia di hippy, siete persone fuori dalla realtà.

D’altra parte, si scopre che stabilire un prezzo per l’anidride carbonica avrebbe ampi benefici “collaterali” – effetti positivi molto oltre la riduzione del clima – e questi benefici sarebbero discretamente rapidi. Il più importante di questi benefici collaterali, secondo la ricerca del FMI, riguarderebbe la salute pubblica: bruciare carbone provoca molte malattie respiratorie, che alzano i costi della sanità e riducono la produttività.

E grazie a questi benefici collaterali, sostiene la ricerca, viene a cadere un argomento spesso avanzato contro il fissare un costo per l’anidride carbonica: che non ne valga la pena, a meno che non si possa ottenere un accordo globale. Anche senza un accordo internazionale, ci sono grandi ragioni per assumere una iniziativa contro la minaccia climatica.

Ma torniamo al punto principale: è più facile abbattere le emissioni di quello che si pensava sino a pochi anni fa, ed emissioni ridotte produrrebbero grandi benefici nel breve e medio periodo. Dunque, salvare il pianeta sarebbe conveniente e potrebbe persino non avere alcun costo.

Entrano in scena a questo punto i profeti dell’angoscia climatica, che spazzano via quell’intera analisi e dichiarano che l’unico modo per contenere le emissioni di anidride carbonica è mettere un termine alla crescita dell’economia.

Per la maggior parte si sentono questi argomenti da persone di destra, secondo le quali normalmente le economie del libero mercato sono infinitamente flessibili e creative. Ma quando proponete di stabilire un prezzo sull’anidride carbonica, all’improvviso si impuntano sulla tesi che l’economia sarebbe completamente incapace di adattarsi a incentivi diversi. Il punto è che essi sono quasi sempre alla ricerca di scuse per evitare un confronto sul cambiamento climatico e, in particolare, per evitare qualsiasi cosa danneggi gli interessi sui combustibili fossili, a prescindere dai vantaggi per tutti gli altri.

Ma l’angoscia del clima produce curiosi compagni di viaggio: all’insistenza foraggiata dai fratelli Koch, secondo la quale i limiti alle emissioni ucciderebbero la crescita economica, fanno eco altri che considerano questo un argomento non contro l’iniziativa sul clima, ma contro la crescita. Si può trovare una tendenza del genere in gran parte del movimento europeo per la “decrescita”, oppure in gruppi americani come il Post Carbon Institute; ho ritrovato la tesi che salvare il pianeta richieda una fine della crescita negli incontri, di orientamento di sinistra, di Ripensare l’economia [2]. A dire la verità, l’ambientalismo anti-crescita è una posizione marginale persino a sinistra, ciononostante è abbastanza diffusa da essere citata.

E talvolta si osservano scienziati severi che avanzano argomenti dello stesso genere, in gran parte (suppongo) perché non capiscono cosa significhi la crescita dell’economia. Essi pensano ad un rozzo oggetto fisico, al semplice caso di produrre più oggetti, e non mettono nel conto le molte scelte – su cosa consumare, su quali tecnologie usare – che finiscono con il determinare il valore in dollari del PIL.

Ecco dunque cosa serve sapere: l’angoscia del clima è del tutto sbagliata. L’idea che la crescita economica e la iniziativa sul clima siano incompatibili può sembrare ben riflettuta e realistica, ma è in effetti un pregiudizio confusionario. Se andremo mai oltre gli interessi particolari e l’ideologia che hanno bloccato l’azione per salvare il pianeta, scopriremo che essa è più conveniente e più semplice di quanto quasi tutti si immaginano.

 

 

[1] Ovvero, un sistema mirante alla limitazione delle emissioni che si basa sulla definizione di un limite (“cap”) e sulla possibilità successiva di aprire un commercio tra le imprese, facendo diventare il rispetto o il superamento qualitativo di tale limite un valore, ed il non-rispetto un costo. Vale a dire che chi realizza buone prestazioni può “venderle” a chi non le realizza, per consentire a questi ultimi di continuare ad operare. In altre parole, ci sarebbero limiti e su quei limiti si avvierebbe una competizione economica reale, essendo interesse di tutti – almeno in teoria – di comportarsi nel migliore dei modi, per guadagnare ed evitare costi, ed anche – se virtuosi – di ‘rivendere’ i propri buoni risultati.

[2] Ad un recente di questi incontri, Krugman ha partecipato traendone spunto per l’articolo del 14 settembre sul New York Times.

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