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La democrazia nel Ventunesimo Secolo di Joseph Stiglitz (da Project Syndicate, 1 settembre 2014)

 

Joseph E. Stiglitz

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SEP 1, 2014

Democracy in the Twenty-First Century

NEW YORK – The reception in the United States, and in other advanced economies, of Thomas Piketty’s recent book Capital in the Twenty-First Centuryattests to growing concern about rising inequality. His book lends further weight to the already overwhelming body of evidence concerning the soaring share of income and wealth at the very top.

Piketty’s book, moreover, provides a different perspective on the 30 or so years that followed the Great Depression and World War II, viewing this period as a historical anomaly, perhaps caused by the unusual social cohesion that cataclysmic events can stimulate. In that era of rapid economic growth, prosperity was widely shared, with all groups advancing, but with those at the bottom seeing larger percentage gains.

Piketty also sheds new light on the “reforms” sold by Ronald Reagan and Margaret Thatcher in the 1980s as growth enhancers from which all would benefit. Their reforms were followed by slower growth and heightened global instability, and what growth did occur benefited mostly those at the top.

But Piketty’s work raises fundamental issues concerning both economic theory and the future of capitalism. He documents large increases in the wealth/output ratio. In standard theory, such increases would be associated with a fall in the return to capital and an increase in wages. But today the return to capital does not seem to have diminished, though wages have. (In the US, for example, average wages are down some 7% over the past four decades.)

The most obvious explanation is that the increase in measured wealth does not correspond to an increase in productive capital – and the data seem consistent with this interpretation. Much of the increase in wealth stemmed from an increase in the value of real estate. Before the 2008 financial crisis, a real-estate bubble was evident in many countries; even now, there may not have been a full “correction.” The rise in value also can represent competition among the rich for “positional” goods – a house on the beach or an apartment on New York City’s Fifth Avenue.

Sometimes an increase in measured financial wealth corresponds to little more than a shift from “unmeasured” wealth to measured wealth – shifts that can actually reflect deterioration in overall economic performance. If monopoly power increases, or firms (like banks) develop better methods of exploiting ordinary consumers, it will show up as higher profits and, when capitalized, as an increase in financial wealth.

But when this happens, of course, societal wellbeing and economic efficiency fall, even as officially measured wealth rises. We simply do not take into account the corresponding diminution of the value of human capital – the wealth of workers.

Moreover, if banks succeed in using their political influence to socialize losses and retain more and more of their ill-gotten gains, the measured wealth in the financial sector increases. We do not measure the corresponding diminution of taxpayers’ wealth. Likewise, if corporations convince the government to overpay for their products (as the major drug companies have succeeded in doing), or are given access to public resources at below-market prices (as mining companies have succeeded in doing), reported financial wealth increases, though the wealth of ordinary citizens does not.

What we have been observing – wage stagnation and rising inequality, even as wealth increases – does not reflect the workings of a normal market economy, but of what I call “ersatz capitalism.” The problem may not be with how markets should or do work, but with our political system, which has failed to ensure that markets are competitive, and has designed rules that sustain distorted markets in which corporations and the rich can (and unfortunately do) exploit everyone else.

Markets, of course, do not exist in a vacuum. There have to be rules of the game, and these are established through political processes. High levels of economic inequality in countries like the US and, increasingly, those that have followed its economic model, lead to political inequality. In such a system, opportunities for economic advancement become unequal as well, reinforcing low levels of social mobility.

Thus, Piketty’s forecast of still higher levels of inequality does not reflect the inexorable laws of economics. Simple changes – including higher capital-gains and inheritance taxes, greater spending to broaden access to education, rigorous enforcement of anti-trust laws, corporate-governance reforms that circumscribe executive pay, and financial regulations that rein in banks’ ability to exploit the rest of society – would reduce inequality and increase equality of opportunity markedly.

If we get the rules of the game right, we might even be able to restore the rapid and shared economic growth that characterized the middle-class societies of the mid-twentieth century. The main question confronting us today is not really about capital in the twenty-first century. It is about democracy in the twenty-first century.

 

La democrazia nel Ventunesimo Secolo

di Joseph Stiglitz

NEW YORK – L’accoglienza negli Stati Uniti, ed in altre economie avanzate, al recente libro di Thomas Picketty “Il capitale nel ventunesimo secolo” prova la crescente preoccupazione sulla crescente ineguaglianza. Il suo libro dà maggior peso al complesso già schiacciante di prove che riguardano la sempre più elevata quota di reddito e di ricchezza che va a chi è in alto nella scala sociale.

Il libro di Piketty, inoltre, fornisce una diversa prospettiva ai circa trent’anni che hanno seguito la Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale, considerando questo periodo come una anomalia storica, forse provocata dalla inconsueta coesione sociale che eventi catastrofici possono stimolare. In quell’epoca di rapida crescita economica, la prosperità era ampiamente condivisa, tutti i gruppi sociali miglioravano, ma quelli che erano in basso conoscevano maggiori incrementi percentuali.

Piketty porta anche nuova luce sulle “riforme” pubblicizzate da Ronald Reagan e Margaret Thatcher come fattori che avrebbero arricchito la vita di tutti. Le loro riforme furono seguite da una crescita più lenta e da una accentuata instabilità globale, e quella crescita che effettivamente vi fu andò a vantaggio in gran parte di coloro che stavano in alto.

Ma il lavoro di Piketty solleva temi fondamentali che riguardano sia la teoria economica che il futuro del capitalismo. Egli documenta gli ampi incrementi nel rapporto tra ricchezza e produzione. Nella teoria comune, tali incrementi sarebbero associati ad una caduta nel rendimento del capitale e ad una crescita dei salari. Ma oggi il rendimento del capitale non sembra essere diminuito, sebbene lo siano i salari (negli Stati Uniti, ad esempio, i salari medi sono scesi di qualcosa come il 7% nel corso dei quattro decenni passati).

La spiegazione più ovvia è che l’incremento nella ricchezza accertata non corrisponde ad un incremento del capitale produttivo – e i dati sembrano coerenti con questa spiegazione. Gran parte dell’incremento della ricchezza deriva da un incremento nel valore dei patrimoni immobiliari. Prima della crisi finanziaria del 2008, una bolla immobiliare era evidente in molti paesi; persino oggi potrebbe non esserci stata una piena “correzione”. La crescita nel valore può anche rappresentare una competizione tra i ricchi per i beni “di posizione” – una casa sulla spiaggia o un appartamento nella Fifth Avenue a New York City.

Talvolta un incremento in ricchezza finanziaria accertata corrisponde a poco di più che uno spostamento da una ricchezza “non accertata” ad una ricchezza misurabile – spostamenti che possono effettivamente riflettere un deterioramento nell’andamento economico generale. Se il potere dei monopoli cresce, o imprese come le banche sviluppano metodi più efficienti di sfruttamento dei consumatori ordinari, ciò si manifesterà nella forma di profitti più alti e, una volta capitalizzati, di un incremento nella ricchezza finanziaria.

Ma quando questo accadrà, naturalmente, il benessere sociale e l’efficienza economica diminuiranno, anche se la ricchezza ufficialmente accertata cresce. Semplicemente noi non mettiamo nel conto la corrispondente diminuzione del valore del capitale umano – la ricchezza dei lavoratori.

Inoltre, se le banche hanno successo nell’utilizzare la loro influenza politica per socializzare le perdite e trattenere sempre di più i loro profitti illeciti, la ricchezza accertata nel settore finanziario cresce. Noi non misuriamo la corrispondente diminuzione della ricchezza dei contribuenti. Nello stesso modo, se le imprese convincono il governo a pagare in eccesso i loro prodotti (come le importanti imprese farmaceutiche sono riuscite a fare), oppure se viene loro dato accesso alle risorse pubbliche a prezzi al di sotto di quelli di mercato (come le imprese minerarie riescono ad ottenere), la ricchezza finanziaria resocontata cresce, sebbene la ricchezza dei cittadini comuni non cresca.

Quello che siamo venuti constatando – una stagnazione dei salari ed un’ineguaglianza crescente, pure in presenza di una ricchezza che cresce – non riflette il funzionamento di una normale economia di mercato, ma quello che io chiamo “ersatz capitalism” o “pseudo capitalismo”. Il problema può non riguardare come i mercati dovrebbero funzionare o di fatto funzionano, ma il nostro sistema politico, che non è stato capace di garantire la competitività nei mercati, ed ha disegnato regole che sostengono mercati distorti, nei quali le imprese ed i ricchi possono sfruttare tutti gli altri (sfortunatamente riuscendoci).

I mercati, naturalmente, non esistono nel vuoto. Ci devono essere le regole del gioco, e queste sono stabilite attraverso un processo politico. Elevati livelli di ineguaglianza economica in paesi come gli Stati Uniti e, sempre di più, in quelli che hanno seguito il loro modello economico, portano all’ineguaglianza politica. In un tale sistema, anche le opportunità di avanzamento economico diventano ineguali, accentuando bassi livelli di mobilità sociale.

Quindi, la previsione di Piketty di livelli ancora più elevati di ineguaglianza, non riflette le inesorabili leggi dell’economia. Semplici cambiamenti – inclusa una tassazione più alta dei profitti da capitale e delle successioni ereditarie, una spesa maggiore per ampliare l’accesso alla istruzione, un potenziamento rigoroso delle leggi anti-trust, riforme della governance delle imprese che delimitino i compensi degli amministratori e regolamenti finanziari che mettano un freno alla possibilità delle banche di sfruttare il resto della società – ridurrebbero sensibilmente l’ineguaglianza ed aumenterebbero nella stessa misura l’eguaglianza delle opportunità.

Se ci dotassimo delle regole del gioco giuste, potremmo persino essere capaci di ripristinare la rapida e condivisa crescita economica che caratterizzò le società di classe media della metà del ventesimo secolo. La principale domanda che abbiamo di fronte oggi non riguarda, in realtà, il capitale nel ventunesimo secolo. Riguarda la democrazia nel ventunesimo secolo.

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