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Le pie illusioni e l’economia di Simon Wren-Lewis (da Mainly Macro, 19 settembre 2014)

 

Friday, 19 September 2014

Wishful thinking and economics

By Simon Wren-Lewis

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Economics is often called the dismal science, and the Scottish referendum showed why this description has stuck. The Yes side appeared full of hope and optimism about what could happen once the constraints of Westminster rule had been cast off, while the No campaign kept on going on about one problem or other, which usually involved economics.

 

The general meme is that this negativity was a tactical mistake by the No side, but it was a quite understandable mistake, because the economic problems were large and self evident. It is no surprise that the vast majority of economists thought Scotland would be worse off under independence (see here, or here, or here). They had looked at the numbers and issues, or looked at institutions they respected that had done so, and thought this does not look good. Even for some of those economists who are in favour of independence, like Joe Stiglitz for example, it is clear that the attraction is despite, rather than because, of the basic macro and fiscal numbers. (See also Adam Posen’s response.)

 

This is of course not new. Politicians on the right like to believe that tax cuts will pay for themselves, and it is boring economists who (mostly) point out this is not true. Politicians of all shades thought that austerity would not have much impact on output and growth, while the vast majority of economists knew better. One of the reasons for deficit bias is that politicians believe that their policies will galvanize the economy and raise the tax base, and most of the time the macroeconomy stubbornly refuses to be impressed.

Now it is tempting to say, given this evidence, that politicians will believe anything that suits them. But what the independence referendum showed us is that voters have similar problems. As the campaign progressed the stronger the Yes vote became, and there is some evidence that this reflected additional information they received. As I suggested here, the problem is that this information was superficially credible sounding stuff from either side, but often with no indication from those who might have known better of the quality of the analysis.

For me this has always been the major argument for establishing fiscal councils – independent institutions who are charged with, at a minimum, scrutinising fiscal projections. Although the OBR (the UK’s fiscal council) has a remit that is quite narrow, we also have the highly respected IFS. In Sweden the fiscal council itself has a much wider economic remit.

Whenever I make this point, someone puts forward the argument that this is anti-democratic, or that I want economists to dictate decisions. This is wrong on at least two levels. First, my general argument is not specific to economics, but involves any area that involves technical expertise. Indeed, the case I make here is partly to avoid politicians using the views of a small minority of economists as cover. Second, the problem with democratic accountability as normally defined is that it is very weak: voters make one decision every five years that involves a whole basket of issues. I would suggest that charging an institution with a small set of tasks, where there is effective democratic oversight over the performance of that institution, can make that institution more accountable to the electorate than any politician doing the same.

In the case of Scottish independence, although we did not have a direct assessment of fiscal prospects from the OBR, that organisation’s oil revenue forecasts were used by the equally respected and independent IFS to point out the problematic outlook that an independent Scotland would face. Although the Yes side attempted to suggest that the OBR was part of the very Westminster elite that it wanted a divorce from, I suspect many voters saw this as independent analysis and were concerned by it. In a world where politicians can always find some experts to back their view, I suspect it is only through singular institutions like the OBR and IFS that the views of the majority of economists get to have some influence, and the economics of wishful thinking gets exposed.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le pie illusioni e l’economia

di Simon Wren-Lewis

L’economia viene spesso chiamata la scienza triste, e il referendum scozzese ha mostrato perché quella denominazione coglie nel segno. Lo schieramento del SI appariva pieno di speranza e di ottimismo su quello che sarebbe accaduto, una volta che ci si fosse liberati dai condizionamenti del dominio di Westminster, mentre la campagna dei NO ha continuato ad occuparsi di vari problemi, che normalmente attengono all’economia.

La voce comune era che questa negatività fosse un errore tattico da parte dello schieramento del NO, ma si trattava di un errore abbastanza comprensibile, giacché i problemi economici erano vasti e chiari in se stessi. Non è una sorpresa se la grande maggioranza degli economisti pensasse che la Scozia sarebbe stata peggio in condizioni di indipendenza (si vedano queste posizioni, come esempi [1]). Essi avevano osservato i dati ed i temi coinvolti, oppure le istituzioni che godevano della loro stima che si erano espresse in modo simile, ed avevano pensato che le cose non tornavano. Anche nel caso di alcuni economisti che erano a favore dell’indipendenza, come Joe Stiglitz [2] ad esempio, era chiaro che la loro inclinazione non dipendeva da fondamentali considerazioni macroeconomiche e dai dati della finanza pubblica, piuttosto si manifestava nonostante questi elementi (si veda anche la risposta di Adam Posen).

Naturalmente, non è una novità. Agli uomini politici della destra fa piacere credere che gli sgravi fiscali si ripagheranno da soli, e vengono a noia gli economisti che (in maggioranza) sottolineano che questo non è vero. Politici di tutti i tipi pensavano che l’austerità non avrebbe avuto un grande impatto sulla produzione e sulla crescita, mentre la grande maggioranza degli economisti si mostrava più consapevole. Una delle ragioni per i pregiudizi sul deficit è che gli uomini politici credono che le loro politiche galvanizzeranno l’economia ed aumenteranno l’imponibile fiscale, e nella maggioranza dei casi la macroeconomia si rifiuta ostinatamente di restarne influenzata.

Date queste testimonianze, si è tentati di dire che gli uomini politici possono credere a tutto quello che fa loro comodo. Ma quello che il referendum ci ha dimostrato è che gli elettori hanno problemi simili. Nel mentre la campagna procedeva, la preferenza di voto per il SI diventava più forte, e c’era in questo una qualche prova di un riflesso di una informazione supplementare che quegli elettori ricevevano. Come indicavo in questo post, il problema era che questa informazione era credibile solo superficialmente, sulla base delle cose che si sentivano dall’altro schieramento, ma spesso senza alcuna indicazione da parte di coloro che potevano giudicare meglio della qualità delle analisi.

Io penso che questo sia sempre stato l’argomento fondamentale per istituire “Consigli” sulla finanza pubblica – istituti indipendenti che abbiano il compito, come minimo, di vagliare le previsioni dei bilanci pubblici. Sebbene l’Office for Budget Responsability (il Consiglio sulla finanza pubblica del Regno Unito) abbia competenze abbastanza ristrette, abbiamo anche lo Institute for fiscal Studies, che gode di molto prestigio. In Svezia, il Consiglio stesso ha competenze economiche molto più ampie.

Ogni volta che affermo questa idea, c’è qualcuno che avanza l’argomento che non sarebbe democratica, oppure che io voglio che gli economisti stabiliscano le decisioni. Questo è sbagliato per almeno due ragioni. La prima, la mia tesi generale non riguarda soltanto l’economia, ma ogni area che richiede esperienze tecniche. In effetti, la tesi che avanzo in questo caso ha parzialmente lo scopo di evitare che gli uomini politici usino come copertura i punti di vista di una piccola minoranza di economisti. La seconda, il problema della responsabilità democratica è che essa è, per come viene definita normalmente, assai debole: gli elettori prendono ogni cinque anni una decisione che riguarda un intero paniere di tematiche. Il mio suggerimento è che incaricare una istituzione di un complesso modesto di obbiettivi, con una efficace vigilanza democratica sulle prestazioni di quella istituzione, può renderla più responsabile verso l’elettorato, che non ogni singolo politico che faccia la stessa cosa.

Nel caso dell’indipendenza scozzese, sebbene non avessimo un esplicito giudizio da parte dell’Office for Budget Responsability sulle prospettive della finanza pubblica, le previsioni sulle entrate dal petrolio di quella organizzazione sono state utilizzate dall’egualmente rispettato ed indipendente Institute for Fiscal Studies per indicare la prospettiva problematica che una Scozia indipendente avrebbe dovuto affrontare. Sebbene il fronte del SI abbia tentato di suggerire che l’Office for Budget Responsability facesse parte di quella stessa classe dirigente di Westminster dalla quale intendevano separarsi, ho la sensazione che molti elettori l’abbiano considerata come una analisi non di parte e se ne siano preoccupati. In un mondo nel quale gli uomini politici possono sempre trovare qualche esperto che va dietro al loro punto di vista, ho la sensazione che solo attraverso istituti speciali come l’OBR e lo IFS i punti di vista della maggioranza degli economisti arrivino ad avere una qualche influenza, e l’economia delle pie illusioni venga allo scoperto.

 

 

[1] La prima connessione è con un sondaggio tra persone comuni ed esperti, a cura del Centre for Macroeconomics; la seconda un articolo su Mirror concentrato sui temi delle preoccupazioni economiche per l’indipendenza; la terza un articolo del Financial Times sugli stessi temi.

[2] In effetti, la presa di posizione di Joseph Stiglitz era stata pubblicata su The Scotsman, sotto il titolo più cauto: “L’indipendenza ha costi e benefici”.

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