Sep 1 2:23 pm
The bad news from Europe is a reminder that the basic insight some of us have been trying to convey, mostly in vain, ever since 2008 remains valid: the great danger facing advanced economies is that governments and central banks will do too little, not too much. The risk of elevated inflation or fiscal difficulties is dwarfed by the risk of ending up trapped in a deflationary vortex. This view has been overwhelmingly supported by recent experience — if you acted on what they were saying on CNBC or the WSJ editorial page, you would have lost a lot of money. Yet the power of the hard money/fiscal austerity orthodoxy (yes, market monetarists want one without the other, but they have no constituency) remains immense. Why?
I’m currently mucking around on the political economy of hard money/austerity — looking at the available data, trying out various stories, to see how they work. This post is mainly notes to myself.
One thought I’ve had and written about is that the one percent (or actually the 0.01 percent) like hard money because they’re rentiers. But you can argue that this is foolish — that they have much more to gain from asset appreciation than they have to lose from the small chance of runaway inflation. In fact, if you compare stock prices in the US, with its aggressively easing Fed, with Europe, you can see the difference:
But maybe the 1% doesn’t make the connection?
An alternative is selective historical memory. Some time ago Kevin Drum suggested that it’s all about septaphobia, fear of the 1970s. And it’s true that the 70s were a really bad time for investors, although not nearly as bad for workers as the post-2008 era:
But weren’t the one percent equally devoted to the gold standard in the 1930s, with no Jimmy Carter in their past? And why does the inflation of 1979 remain seared in memory, while the boom after Volcker loosened money in 1982 is forgotten? (This is like the question of why Germans remember 1923 but not Bruening.)
Finally, there’s the notion that it’s implicitly about politics: crises are a chance to force “reforms” that strip away worker protections and the welfare state, and any suggestion that technical solutions, monetary or fiscal, could do the job is rejected.
The thing is, it sure looks like a form of false consciousness on the part of elite. But I’m still trying to figure it out.
L’inflazione, la fobia degli anni Settanta e la dottrina dello shock
La cattiva notizia dall’Europa ci ricorda che l’intuizione di fondo che alcuni di noi avevano cercato di trasmettere, in gran parte invano, sin dal 2008 resta valida: il grande pericolo dinanzi al quale si trovano le economie avanzate non è quello che i governi e le banche centrali facciano troppo, ma troppo poco. Il rischio della elevata inflazione o le difficoltà di bilancio sono poca cosa, rispetto al rischio di ritrovarsi intrappolati in un vortice deflazionistico. Le recenti esperienze hanno confermato in modo schiacciante questo punto di vista – se aveste agito sulla base di quello che dicevano la CNBC [1] o la pagina editoriale del Wall Street Journal, avreste perso una gran quantità di denaro. Tuttavia il potere della ortodossia della restrizione monetaria/austerità di bilancio (è vero, i monetaristi di mercato vorrebbero l’una senza l’altra, ma non hanno seguiti) resta immenso. Perché?
Attualmente sto un po’ giocando sui temi dell’economia politica della restrizione monetaria e dell’austerità – osservando i dati disponibili, provando varie ricostruzioni, per vedere come funzionano. Questo post è principalmente una annotazione per me stesso.
Un pensiero che ho avuto e che ho messo per scritto su questo è che l’1 per cento dei più ricchi (per la verità, lo 0,01 per cento) amano la moneta forte perché sono redditieri. Ma si può sostenere che sia una sciocchezza – che essi abbiano molto più da guadagnare da una rivalutazione degli asset, rispetto a quello che hanno da perdere da una piccola possibilità di una inflazione fuori controllo. Di fatto, se confrontate i prezzi delle azioni negli Stati Uniti, con le facilitazioni aggressive della Fed, con l’Europa, potete vedere la differenza [2]:
Ma forse l’1 per cento non coglie la connessione?
In alternativa si può ricorrere alla memoria storica selettiva. Un po’ di tempo fa indicò che questo dipende tutto dalla “septafobia”, dalla paura degli anni ’70. Ed è vero che gli anni ’70 furono un’epoca realmente negativa per gli investitori, sebbene neanche lontanamente così negativa come il periodo successivo al 2008 per i lavoratori:
Ma l’1 per cento non era in egual modo fanatico del gold standard degli anni ’30, senza che ci fosse alcun Jimmy Carter in quel passato? E perché l’inflazione del 1979 continua a bruciare nella memoria, mentre l’espansione dopo l’allentamento monetario di Volcker nel 1982 è dimenticata? Domanda, questa, simile a quella per la quale i tedeschi ricordano il 1923 ma non Bruening [3].
C’è, infine, un concetto che riguarda implicitamente la politica: le crisi sono una possibilità per costringere a quelle “riforme” che liquidano le protezioni dei lavoratori e lo stato assistenziale, ed ogni suggerimento secondo il quale soluzioni tecniche, monetarie o di bilancio, potrebbero creare lavoro, viene respinto.
Il punto è che sembra chiaro si tratti di una forma di falsa coscienza di una parte delle classi dirigenti. Ma sto ancora cercando di capirlo.
[1] La CNBC (“Notizie per i consumatori e canale per le imprese”) è un canale televisivo americano di proprietà della NBC Universal News Group).
[2] La tabella è interessante in particolare per noi. Il dato in rosso è relativo agli Stati Uniti, quello in blu alla Germania, quello in verde all’Italia. In particolare si nota che il disaccoppiamento ha cominciato ad essere marcato con le seconda recessione dovuta ai debiti sovrani in Europa, ma in modo molto più marcato nel caso italiano.
[3] Il 1923 fu l’epoca della iperinflazione tedesca. Bruening invece fu Cancelliere della Repubblica della Germania dal 1930 al 1932, ed è noto che reagì alla Grande Depressione con una forte restrizione monetaria e di bilancio che esasperò la disoccupazione e portò il Cancelliere alla sfiducia del Reichstag. Per quella ed altre ragioni, comprese alcune ambiguità nel rapporto con il Partito nazista, il fallimento di Bruening fu un fattore decisivo della ascesa del nazismo.
By mm
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