Perché ammettere una crisi della domanda è così ostico? Settembre 2014
Ancora alcune mie impressioni sul tema del rapporto tra ricerca economica e dibattito politico, in particolare il nostro. Chi legge regolarmente gli scritti di Krugman (in particolare, ma anche di altri) avrà notato quanto questo tema ricorra, in modo continuo e quasi ossessivo. Pare che su tutto incomba questo pensiero: perché, e come è accaduto che la politica nel suo complesso sia stata così refrattaria ad intendere il problema della crisi della domanda aggregata? La questione investe tutta la politica, anche se il fronte del “diniego” è soprattutto la destra americana ed i gruppi dirigenti europei, ma le sfumature sono più complesse e, con il tempo, si evolvono in relazione alle acquisizioni della ricerca economica.
Mi pare si possano, retrospettivamente, distinguere alcuni principali periodi.
Negli Stati Uniti, all’indomani della crisi finanziaria globale, i temi furono soprattutto inerenti alla politica economica della Amministrazione americana, alla adeguatezza o meno delle misure di sostegno all’economia. Nei giorni e mesi della esplosione della crisi – si era al trapasso tra la amministrazione repubblicana e quella di Obama – si imponevano le emergenze dei salvataggi, e se un tema più di fondo si annunciava era sostanzialmente quello della constatazione del fallimento della ideologia delle sorti magnifiche del capitalismo dominato dalla finanza. Ma subito dopo, le prime scelte di Obama, agli inizi del 2009, riguardarono le dimensioni dello “stimulus”. Si ricorderà come alcuni economisti – non molti – furono subito critici sulle scelte proposte dalla Amministrazione, peraltro in non poca misura ridotte per la opposizione repubblicana. Interventi più radicali venivano chiesti da Krugman, da Stiglitz e da Christina Romer, contro la posizione assai più riduttiva di Geithner e dello stesso Summers. Come ricorda Krugman nella recensione del recente libro di Geithner (“Ha superato la prova?”, 10 luglio 2014) erano già allora aperte due letture della crisi: quella minimalista la faceva coincidere, in fondo, con i salvataggi e con il superamento del collasso nel settore creditizio; l’altra ne percepiva il carattere molto più vasto. In Europa prevaleva in fondo l’idea di dover solo pagare un prezzo alle ‘esagerazioni’ delle bolle americane, sino al punto che la BCE di Trichet si avventurava in una pazzesca decisione di aumento dei tassi. Una notevole e solitaria eccezione, in Europa, fu Tommaso Padoa Schioppa, col suo intervento qua tradotto del febbraio del 2010 all’Università di Louvain. Ma, in conclusione, in questo primo anno e mezzo della crisi, lo sguardo è rivolto al passato ed al presente quotidiano, sono pochi ed abbastanza inascoltati quelli che intuiscono che, oltre al cospicuo infortunio, si sia giunti ad un passaggio di epoca.
In effetti, con il 2010, si entra in una fase nella quale, in qualche modo suturata la ferita della crisi finanziaria ed apparentemente superata la recessione, si tratta fondamentalmente di osservare se il sisma abbia esaurito i suoi effetti, o se la trasmissione di essi dalla finanza all’economia reale non abbia messo a nudo un quadro molto più fosco. Il 2010 è un anno cruciale, da due punti di vista. Inizia un periodo nel quale l’osservazione degli andamenti del tassi di interesse e dell’inflazione dovrebbe rappresentare e dar conto della fondatezza di una di quelle due letture; la destra economica e politica americana comincia a strepitare sulla imminenza di una inflazione fuori controllo e di tassi di interesse in forte crescita. Chi, al contrario, aveva individuato i chiari prodromi di una lunga crisi di tipo giapponese, si aspetta l’opposto; ha ormai compreso tutti i sintomi di una “trappola di liquidità”. E l’esito di questo “esperimento naturale” è di una chiarezza assoluta: l’inflazione non si accende ed i tassi di interesse restano per anni ai minimi storici. Ma il secondo evento del 2010 è la crisi greca e più in generale la crisi dei debiti sovrani in vari paesi europei. L’Europa si colloca al centro della scena, e con la sua recessione che si rinnova, viene offerto un pretesto anche oltreoceano per fingere di non vedere il chiaro responso dell’ “esperimento naturale”. La possibilità di interpretare la crisi della domanda – di diagnosticarla in termini economici e, ancora più difficile, di tradurla in termini politici – anziché avvicinarsi, sembra allontanarsi.
E’ cruciale, a quel punto, la spiegazione che si dà della crisi del debito europea. Se la si interpreta secondo la lettura tedesca, esso è la manifestazione pura e semplice di un fallimento di politiche permissive della finanza pubblica, in Grecia come in Spagna, Irlanda, Portogallo ed Italia. L’unico rimedio è una dura politica di austerità, che in Europa viene messa in atto quasi con un consenso generale. Ci sarebbe un seconda interpretazione, che vari economisti segnalano. Si possono vedere – tra i testi tradotti – l’europeo DeGrauwe e, in particolare, il testo della conferenza di Krugman al FMI del 27 ottobre 2013 “Regimi valutari, flussi di capitali e crisi”, che è la lettura più riflettuta e teorica di quella spiegazione. In Europa la crisi non è derivata dal debito (la Spagna e l’Irlanda erano praticamente virtuose, l’Italia da anni stava recuperando un rapporto tra debito e PIL più contenuto), è derivata dal “blocco improvviso” dei flussi dei capitali, soprattutto tedeschi, dei primi anni dell’euro. La crisi è derivata dal fatto che la moneta unica, senza una banca centrale messa nelle condizioni di presidiarla e senza una politica economica unitaria, ha aperto il varco alla crisi di fiducia degli investitori. Ancora una volta, come si si trattasse di un oggetto che inesorabilmente la corrente riporta lontano quando pare avvicinarsi, la natura epocale della crisi si sfrangia in letture improprie o secondarie. L’Europa si lancia all’inseguimento della “fata della fiducia”. In Italia e in Europa il termine “trappola di liquidità” è sottoposto a censura e iniziano i danni dell’austerità, anch’essi sostanzialmente mistificati e sino al possibile censurati, in attesa della “luce in fondo al tunnel”.
Ma più che ci si avvicina al quinto anno della “luce in fondo al tunnel”, più che il malessere per letture che non stanno in piedi si diffonde. Anche perché quel timore che Krugman con sorpresa aveva constatato non avverarsi nella prima fase, balza in primo piano sulla scena europea. Come si ricorderà, in alcune occasioni Krugman aveva ammesso di essere rimasto agli inizi sorpreso dal fatto che non si fosse apertamente manifestato un fenomeno deflattivo. Più di recente, però, esso si era annunciato nella forma di diffusi episodi di troppo bassa inflazione, non a caso a partire dai paesi europei in sofferenza. Probabilmente non a caso, nel maggio del 2014, Mario Draghi invitò Krugman a tenere una relazione ad una conferenza della BCE in Portogallo, che è qua tradotta. Dopo di che è nel testo del discorso di Mario Draghi a Jackson Hole del 22 agosto scorso che si può ricostruire l’onesto decorso della sua sempre più viva apprensione. Per la prima volta, con quel discorso, un dirigente europeo di primissimo piano riconosce pienamente il carattere di una, dispiegata ormai, crisi da domanda. Negli stessi mesi la politica europea – passata nel frattempo dall’appuntamento delle elezioni del Parlamento e dalla nomina del nuovo Presidente della Commissione – opera un qualche tentativo di sintonizzarsi su ciò che non sembra più negabile. Rilevante, in questa primavera-estate del 2014, è anche il fatto che – nel mentre l’Europa, a forza di inseguire gli eventi, è sempre più nel panico per il disastroso ritardo sulle sue responsabilità – negli Stati Uniti molti economisti ormai guardano assai più in avanti. Là si discute, con una situazione migliore, di stagnazione secolare e di crescente ineguaglianza; qua si cercano le parole per spiegare un ritardo di anni.
Il problema serio è che, se gli alibi via via si vengono riducendo, non è detto che si stia creando un sufficiente consenso attorno ad una nuova politica, e neanche che le ragioni di scontro stiano diventando meno aspre. Il nodo sempre più chiaro è se gli interessi tedeschi, quali sono stati interpretati sino a questo punto, siano una base ragionevole per una politica economica europea. Particolarmente chiari, da questo punto di vista, sono i recenti interventi di Francesco Saraceno, di Simon Wren-Lewis e di Philippe Legrain (si vedano le traduzioni delll’11, del 13 e del 23 settembre). A me pare che mai, con la chiarezza di questi tre recenti interventi, si era osservato che l’architrave della competitività tedesca – che indubbiamente risiede anche nella qualità dei prodotti – sia consistito molto in un differenziale dei costi del lavoro che ha contrassegnato praticamente l’intero periodo dal 2000 al 2007. Si trattò di circa 20 punti di crescita dei costi del lavoro in meno, che attendevano di essere corretti all’interno delle regole della moneta unica, e che invece sono stati ancora di più accentuati, successivamente, dal fatto che la Germania ha goduto di un tasso di cambio, con l’euro, estremamente favorevole rispetto a quello che sarebbe derivato dalla continuazione delle monete nazionali (il marco tedesco si sarebbe certamente rivalutato, mentre i paesi europei in maggiore difficoltà, sarebbero certamente ricorsi a svalutazioni). Temi di questo genere, che Legrain riassume in una descrizione più generale dei problemi dell’economia tedesca, cominciano oggi ad essere proposti con maggiore chiarezza. A fronte di essi, la posizione ufficiale della Germania insiste in modo sempre più scoperto sulla inevitabilità di un complessivo allineamento dei paesi europei alle esigenze particolari di quel paese (il nuovo feticcio della “riforma strutturale”, come lo definisce Krugman). Ancora una volta, il rischio è quello che la comprensione della natura della crisi non si avvicini. E che – contro ogni buon senso – vadano avanti politiche che alla fine convergono nel rendere inemendabili gli errori economici che hanno accompagnato la moneta unica. Se la moneta unica diviene la camicia di forza obbligata che nasconde interessi nazionali che non solo non si vogliono conciliare, ma si contendono sempre più aspramente e visibilmente, i fenomeni centrifughi diverranno chiaramente inarrestabili.
C’è dunque qualcosa che rende sempre ardua la comprensione, in termini politici, della diagnosi economica di una crisi della domanda aggregata. E mentre gli economisti si affannano contro questa specie di maledizione, la politica, in particolare quella ufficiale dei partiti della sinistra cui spetterebbe una lettura sensata, pare non intenda occuparsene. Eppure, probabilmente è proprio al livello della politica, del suo linguaggio e delle sue logiche, che stanno una parte delle spiegazioni. A me pare che la sinistra dovrebbe provare a dare una risposta ad una domanda: cosa è che rende oggi così lontano il New Deal dal comune senso politico europeo (ma, certo, anche da quello statunitense)? Se ci si riflette, forse non si tratta tanto dei suoi obbiettivi e delle sue realizzazioni materiali. L’Europa, in momenti diversi, non fu meno capace di conquiste importanti, e probabilmente anche più durature. La distanza maggiore forse consiste in altro: nell’ammettere che gli Stati, nel capitalismo contemporaneo, devono saper talora scendere in campo con grande determinazione, con un molto maggiore senso del loro ruolo, nella storia in generale e nelle crisi in particolare. I nostri avanzamenti sociali sono stati conseguenza di una dialettica acuta tra le forze sociali; gli Stati spesso l’hanno registrata ed assecondata successivamente. Ma forse, due guerre mondiali ci hanno portato a ripiegare in una sorta di autocensura e di autolimitazione del ruolo degli Stati. Eppure, la crisi che viviamo nasce dalla evidente inadeguatezza delle funzioni di guida degli Stati, quando essi si limitino a registrare il potere che le forze sociali conquistano nei mercati. Keynes scrisse che l’aspetto più strano della crisi di allora, era che tutto pareva crollare, mentre le risorse – di lavoro, di imprenditorialità, di tecnica, di attrezzature – erano esattamente quelle che erano esistite sino alla vigilia della crisi. E’ difficile intendere in che modo la domanda aggregata possa come incepparsi, se non si riacquista una idea del ruolo naturale degli Stati, seppure non tramite le guerre.
(Quanto alla “copertina” di questo mese, mi limito a segnalare il bel libro di Davide Abulafia “Il grande mare”. Ho deciso di resistere un po’ meglio al mio difetto di descrivere libri che mi hanno appassionato, dando quasi l’impressione di averne qualche titolo. Lo segnalo perché è un libro che appassiona. Perché di continuo vengono i mente le immagini di quei disgraziati che in quel mare oggi annegano. E di contro vengono in mente le immagini delle straordinarie città – come Livorno, o come Salonicco, o come Alessandria d’Egitto – figlie di quel mare quando potè essere fattore di civiltà, per quella semplice ragione per secoli così simili tra loro.)
By mm
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