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Plutocrati contro la democrazia, di Paul Krugman (New York Times 23 ottobre 2014)

 

Plutocrats Against Democracy

OCT. 23, 2014 Paul Krugman

It’s always good when leaders tell the truth, especially if that wasn’t their intention. So we should be grateful to Leung Chun-ying, the Beijing-backed leader of Hong Kong, for blurting out the real reason pro-democracy demonstrators can’t get what they want: With open voting, “You would be talking to half of the people in Hong Kong who earn less than $1,800 a month. Then you would end up with that kind of politics and policies” — policies, presumably, that would make the rich less rich and provide more aid to those with lower incomes.

So Mr. Leung is worried about the 50 percent of Hong Kong’s population that, he believes, would vote for bad policies because they don’t make enough money. This may sound like the 47 percent of Americans who Mitt Romney said would vote against him because they don’t pay income taxes and, therefore, don’t take responsibility for themselves, or the 60 percent that Representative Paul Ryan argued pose a danger because they are “takers,” getting more from the government than they pay in. Indeed, these are all basically the same thing.

For the political right has always been uncomfortable with democracy. No matter how well conservatives do in elections, no matter how thoroughly free-market ideology dominates discourse, there is always an undercurrent of fear that the great unwashed will vote in left-wingers who will tax the rich, hand out largess to the poor, and destroy the economy.

In fact, the very success of the conservative agenda only intensifies this fear. Many on the right — and I’m not just talking about people listening to Rush Limbaugh; I’m talking about members of the political elite — live, at least part of the time, in an alternative universe in which America has spent the past few decades marching rapidly down the road to serfdom. Never mind the new Gilded Age that tax cuts and financial deregulation have created; they’re reading books with titles like “A Nation of Takers: America’s Entitlement Epidemic,” asserting that the big problem we have is runaway redistribution.

This is a fantasy. Still, is there anything to fears that economic populism will lead to economic disaster? Not really. Lower-income voters are much more supportive than the wealthy toward policies that benefit people like them, and they generally support higher taxes at the top. But if you worry that low-income voters will run wild, that they’ll greedily grab everything and tax job creators into oblivion, history says that you’re wrong. All advanced nations have had substantial welfare states since the 1940s — welfare states that, inevitably, have stronger support among their poorer citizens. But you don’t, in fact, see countries descending into tax-and-spend death spirals — and no, that’s not what ails Europe.

Still, while the “kind of politics and policies” that responds to the bottom half of the income distribution won’t destroy the economy, it does tend to crimp the incomes and wealth of the 1 percent, at least a bit; the top 0.1 percent is paying quite a lot more in taxes right now than it would have if Mr. Romney had won. So what’s a plutocrat to do?

One answer is propaganda: tell voters, often and loudly, that taxing the rich and helping the poor will cause economic disaster, while cutting taxes on “job creators” will create prosperity for all. There’s a reason conservative faith in the magic of tax cuts persists no matter how many times such prophecies fail (as is happening right now in Kansas): There’s a lavishly funded industry of think tanks and media organizations dedicated to promoting and preserving that faith.

Another answer, with a long tradition in the United States, is to make the most of racial and ethnic divisions — government aid just goes to Those People, don’t you know. And besides, liberals are snooty elitists who hate America.

A third answer is to make sure government programs fail, or never come into existence, so that voters never learn that things could be different.

But these strategies for protecting plutocrats from the mob are indirect and imperfect. The obvious answer is Mr. Leung’s: Don’t let the bottom half, or maybe even the bottom 90 percent, vote.

And now you understand why there’s so much furor on the right over the alleged but actually almost nonexistent problem of voter fraud, and so much support for voter ID laws that make it hard for the poor and even the working class to cast ballots. American politicians don’t dare say outright that only the wealthy should have political rights — at least not yet. But if you follow the currents of thought now prevalent on the political right to their logical conclusion, that’s where you end up.

The truth is that a lot of what’s going on in American politics is, at root, a fight between democracy and plutocracy. And it’s by no means clear which side will win.

 

Plutocrati contro la democrazia, di Paul Krugman

New York Times 23 ottobre 2014

E’ sempre bene quando i leader dicono la verità, specialmente se non era nelle loro intenzioni. Dovremmo dunque essere grati a Leung Chun-ying, il dirigente di Hong Kong sostenuto da Pechino, per aver indicato inavvertitamente una delle principali ragioni per le quali i coloro che manifestano per la democrazia non possono avere quello che vogliono: con libere elezioni “si finirebbe col parlare con metà della popolazione di Hong Kong che guadagna meno di 1.800 dollari al mese. Dopodiché si finirebbe con quel genere di politica e di scelte” – scelte, presumibilmente, che renderebbero i ricchi meno ricchi e fornirebbero più aiuti a quelli che anno redditi più bassi.

Dunque, il signor Leung è preoccupato del 50 per cento della popolazione di Hong Kong che, a suo avviso, voterebbe per politiche negative perché non guadagna a sufficienza. Assomiglia al 47 per cento degli americani che Mitt Romney disse avrebbero votato contro di lui perché non pagano le tasse sul reddito e, di conseguenza, non si assumono le loro responsabilità, oppure al 60 per cento che il congressista Paul Ryan sostenne costituivano un pericolo in quanto “assistiti”, gente che prende dallo stato federale più di quanto versa. In effetti, si tratta sostanzialmente della stessa cosa.

Perché la destra politica è sempre stata a disagio con la democrazia. Non conta quanto i conservatori vadano bene alle elezioni, non conta con quanta ampiezza l’ideologia del libero mercato domini il dibattito, c’è sempre un sottofondo di paura che le grandi masse votino per una sinistra che metterà le tasse sui ricchi, sarà generosa con i poveri e distruggerà l’economia.

Di fatto, il vero e proprio successo del programma conservatore semplicemente acuisce questa paura. A destra, molti vivono in un universo alternativo, dentro il quale l’America ha trascorso i decenni trascorsi scendendo lungo una china che conduce ad un sistema servile – e non sto solo parlando delle persone che ascoltano Rush Limbaugh; sto parlando dei componenti della élite politica. Non conta la nuova Età dell’Oro che gli sgravi fiscali e la deregolamentazione finanziaria hanno creato; costoro leggono libri che si intitolano “Una nazione di assistiti: l’epidemia americana dei diritti sociali”, secondo i quali il grande problema che abbiamo è quello della redistribuzione galoppante.

Si tratta di una fantasia. In fin dei conti, c’è un fondamento nei timori che un programma economico a favore del popolo [1] porterà al disastro economico? In realtà no. Gli elettori con i redditi più bassi sono molto più inclini dei ricchi verso quelle politiche che portano loro benefici, e in generale sostengono una tassazione maggiore su chi è in alto nella scala sociale. Ma se siete preoccupati che gli elettori con bassi redditi dilaghino, che afferrino ogni cosa voracemente e tassino i ‘creatori’ di posti di lavoro sino a farli scomparire, è la storia che dice che siete fuori strada. A partire dagli anni ’40 tutte le nazioni avanzate hanno in sostanza stati assistenziali – stati che, inevitabilmente, hanno un sostegno più forte tra i cittadini più poveri. Ma, di fatto, non si vedono paesi che sprofondano in una spirale fatale di tasse e di spesa pubblica – né è questo che affligge l’Europa.

Eppure, mentre quel “genere di politica e di scelte” che risponde alla metà più in basso della distribuzione del reddito non distruggerà l’economia, essa in effetti tende a creare qualche problema, almeno un po’, all’1 per cento dei redditi e delle ricchezze maggiori; in questo momento, lo 0,1 per cento dei più ricchi sta pagando un po’ di tasse in più di quelle che avrebbe pagato se avesse vinto il signor Romney. Cosa deve fare, dunque, un plutocrate?

Una risposta è la propaganda: raccontare agli elettori, in modo frequente ed assordante, che tassare i ricchi ed aiutare i poveri provocherà un disastro economico, mente tagliare le tasse ai “creatori di lavoro” creerà prosperità per ciascuno. C’è una ragione per la quale la fede conservatrice nella magia degli sgravi fiscali persiste, a prescindere da quante volte tali profezie abbiano fallito (come sta accadendo in questo momento in Kansas): c’è un intero sistema di gruppi di ricerca e di organizzazioni mediatiche generosamente foraggiato che è dedito alla promozione ed al mantenimento di quella fede.

Un’altra risposta, che ha una lunga storia negli Stati Uniti, è trarre il massimo vantaggio dalle divisioni razziali ed etniche – gli aiuti del governo vanno proprio a “Quella Gente”[2], si sa! Per di più, i progressisti sono una élite altezzosa che odia l’America.

Una terza risposta consiste nell’assicurarsi che i programmi sociali governativi vadano in malora, o non vengano mai alla luce, cosicché gli elettori non possano mai apprendere che le cose potrebbero andare diversamente.

Ma queste strategia per proteggere i plutocrati dalle masse sono indirette ed imperfette. La risposta naturale è quella del signor Leung: non permettere che la metà dei cittadini che sta più in basso, o forse persino il 90 per cento di coloro che non sono ricchissimi, vada a votare.

E così si capisce perché ci sia tanto furore a destra sul preteso ma effettivamente quasi inesistente problema delle frodi elettorali, e tanto sostegno a leggi sul riconoscimento dell’identità degli elettori [3] che rendano più difficile per i poveri e persino per i lavoratori la partecipazione al voto. Gli uomini politici americani non osano dire apertamente che soltanto i ricchi dovrebbero avere diritti politici – almeno non ancora. Me se si va dietro alle correnti di pensiero che oggi prevalgono sui diritti politici sino alle loro logiche conclusioni, è lì che si va a finire.

La verità è che una gran parte di quello che sta accadendo nella politica americana è, alla sua radice, uno scontro tra democrazia e plutocrazia. E non è in nessun modo chiaro quale schieramento l’avrà vinta.

 

 

[1] Come ho segnalato altre volte, nel linguaggio politico americano il termine “populism” non ha necessariamente un connotato negativo. In questo caso, più che ‘populismo economico’ noi diremmo ‘un programma economico a favore del popolo’.

[2] “Those people” è l’espressione con la quale il linguaggio comune conservatore si rivolge al popolo che fruisce di qualche forma di assistenza. Conta poco che la maggioranza siano lavoratori bianchi; “quella gente” sono loro, in genere le persone di colore.

[3] Il tema delle supposte “frodi” elettorali da anni è motivo di scontro tra i democratici ed i repubblicani. In molti Stati un documento di identità con foto è obbligatorio, in altri leggi specifiche sono in corso di definizione. Ciononostante nella maggioranza degli Stati non esistono tali norme. Probabilmente la questione è più complicata di quello che non si possa immaginare noi. Pare che lo strumento di identificazione più universale provvisto di foto sia la patente di guida, ma varie minoranze – anziani, persone con redditi più bassi, persone con handicap – ne sono maggiormente sprovviste. Inoltre il tema della identificazione lambisce un’altra questione, quella delle revisione delle liste elettorali e della eliminazione di elettori dalle liste. Ad esempio, in Georgia nel 2008 fu attuata, per un errore informatico, un ‘purga’ degli iscritti alle liste elettorali che riguardò ben 98.000 individui. Suppongo che un altro problema abbastanza connesso sia quello della facilità con la quale si possa perdere il diritto di voto a seguito di provvedimenti di carcerazione, notoriamente molto più frequenti che in Europa e particolarmente diffusi tra la popolazione di colore.

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