Oct 7 3:48 pm
I rarely disagree with Jared Bernstein, and actually agree with most of his latest post. Yes, the persistent US trade deficit is a problem for achieving full employment, and we should have a weak-dollar, not strong-dollar policy.
But is the dollar’s reserve-currency status the root of the problem? I have long argued that reserve-currency status is a much overrated phenomenon — it’s not actually a significant benefit to the country that issues the currency, even aside from the employment issues. But I’m also not convinced that it’s that big a deal when we try to understand persistent trade deficits. After all, we’re not the only country that has run persistent external deficits:
We do have things that cause a global savings glut to spill into America — a big, deep financial market, with lots of players willing to create what look like safe assets, a general sense that America is the refuge of last resort, and so on. But Britain offers many of the same things, and has in fact a comparable record of persistent capital inflows and deficits; while Australia has run really big external deficits for a very long time.
As a policy issue I don’t think this matters too much — we should seek a weaker dollar. But I don’t think phrasing it in terms of the reserve currency status is helpful.
Puniti per la virtù del dollaro?
Raramente sono in disaccordo con Jared Bernstein, e per la verità sono molto d’accordo con il suo post più recente. Sì, il persistente deficit commerciale degli Stat Uniti è un ostacolo a conseguire la piena occupazione, e dovremmo avere una politica per un dollaro debole, non per un dollaro forte.
Ma è lo status di valuta di riserva del dollaro la radice del problema? Ho a lungo sostenuto che lo status di valuta di riserva è un fenomeno molto sopravvalutato – in verità non è un beneficio significativo per il paese che emette la valuta, anche a prescindere dai temi dell’occupazione. Ma non sono neanche convinto che sia un grande affare quando cerchiamo di capire i persistenti deficit commerciali. Dopotutto, non siamo l’unico paese che realizza persistenti deficit verso l’estero:
[1]
Abbiamo davvero condizioni che provocano un riversarsi dell’eccesso dei risparmi globali in America – un grande, radicato mercato finanziario, con uno stuolo di operatori disponibili a creare quelli che sembrano asset sicuri, la sensazione generale che l’America sia il rifugio dell’ultima istanza, e così via. Ma l’Inghilterra offre molte delle stesse cose, ed ha di fatto un record paragonabile di persistenti flussi di capitali e di deficit; mentre l’Australia ha gestito per davvero grandi deficit verso l’estero per lunghissimo tempo.
Come tema politico non penso che questo conti poi tanto – dovremmo perseguire un dollaro più debole. Ma non penso che esprimerlo nei termini dello status di una valuta di riserva sia utile.
[1] La tabella mostra gli equilibri del conto corrente dei tre paesi, dal 1999 al 2013.
In economia il “conto corrente” è una delle due componenti primarie della bilancia dei pagamenti, essendo l’altra il “conto capitale”. Il “conto corrente” è la somma della bilancia commerciale (esportazioni meno importazioni di beni e servizi), del reddito netto di fattori della produzione (come gli interessi ed i dividendi) e dei trasferimenti (come gli aiuti all’estero). Il “conto corrente” è una delle due più importanti misure delle caratteristiche del commercio estero di un paese (l’altra essendo il flusso netto di capitali investiti all’estero). Surplus nel conto corrente aumentano gli asset netti all’estero, mentre deficit di conto corrente producono l’effetto contrario. O, per meglio dire, l’esistenza di asset che attraggono capitali internazionali verso un paese, accresce i deficit di conto corrente di quel paese. Sono inclusi nel calcolo sia i pagamenti dello Stato che dei privati. E’ chiamato “conto corrente” perché in generale i beni ed i servizi sono consumati nel periodo “corrente”.
By mm
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