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Cina, carbone e clima, di Paul Krugman (New York Times 13 novembre 2014)

 

China, Coal, Climate

NOV. 13, 2014

Paul Krugman

z 259

 

 

 

 

 

 

 

 

It’s easy to be cynical about summit meetings. Often they’re just photo ops, and the photos from the latest Asia-Pacific Economic Cooperation meeting, which had world leaders looking remarkably like the cast of “Star Trek,” were especially cringe-worthy. At best — almost always — they’re just occasions to formally announce agreements already worked out by lower-level officials.

Once in a while, however, something really important emerges. And this is one of those times: The agreement between China and the United States on carbon emissions is, in fact, a big deal.

To understand why, you first have to understand the defense in depth that fossil-fuel interests and their loyal servants — nowadays including the entire Republican Party — have erected against any action to save the planet.

The first line of defense is denial: there is no climate change; it’s a hoax concocted by a cabal including thousands of scientists around the world. Bizarre as it is, this view has powerful adherents, including Senator James Inhofe, who will soon lead the Senate Environment and Public Works Committee. Indeed, some elected officials have done all they can to pursue witch hunts against climate scientists.

Still, as a political matter, attacking scientists has limited effectiveness. It plays well with the Tea Party, but to the broader public — even to non-Tea Party Republicans — it sounds like a crazy conspiracy theory, because it is.

The second line of defense involves economic scare tactics: any attempt to limit emissions will destroy jobs and end growth. This argument sits oddly with the right’s usual faith in markets; we’re supposed to believe that business can transcend any problem, adapt and innovate around any limits, but would shrivel up and die if policy put a price on carbon. Still, what’s bad for the Koch brothers must be bad for America, right?

Like claims of a vast conspiracy of scientists, however, the economic disaster argument has limited traction beyond the right-wing base. Republican leaders may talk of a “war on coal” as if this were self-evidently an attack on American values, but the reality is that the coal industry employs very few people. The real war on coal, or at least on coal miners, was waged by strip-mining and natural gas, and ended a long time ago. And environmental protection is quite popular with the nation at large.

Which brings us to the last line of defense, claims that America can’t do anything about global warming, because other countries, China in particular, will just keep on spewing out greenhouse gases. This is a standard argument at think tanks like the Cato Institute and among conservative pundits. And, to be fair, anyone proposing climate action does have to explain how we can deal with the free-rider problem of countries that refuse to contain emissions.

Now, there is a good answer already available: “carbon tariffs” levied against the exports of countries that refuse to join in the effort to limit emissions. Such tariffs probably wouldn’t even require any change in existing trade law, and they would provide a powerful incentive for holdouts to get with the program. Still, until now, the suggestion that China could be induced to participate in climate protection was informed speculation at best.

But now we have it straight from the source: China has declared its intention to limit carbon emissions.

I know, I know. The language is a little vague, and the target levels of emissions are much higher than environmental experts want. Indeed, even if the deal were to work exactly as stated, the planet would experience a highly damaging rise in temperatures.

But consider the situation. America is not exactly the most reliable negotiating partner on these issues, with climate denialists controlling Congress and the only prospect of action in the near future, and maybe for many years, coming from executive orders. (Not to mention the possibility that the next president could well be an anti-environmentalist who could reverse anything President Obama does.) Meanwhile, China’s leadership has to deal with its own nationalists, who hate any suggestion that the newly risen superpower might be letting the West dictate its policies. So what we’re getting here is more a statement of principle than the shape of policy to come.

But the principle that has just been established is a very important one. Until now, those of us who argued that China could be induced to join an international climate agreement were speculating. Now we have the Chinese saying that they are, indeed, willing to deal — and the opponents of action have to claim that they don’t mean what they say.

Needless to say, I don’t expect the usual suspects to concede that a major part of the anti-environmentalist argument has just collapsed. But it has. This was a good week for the planet.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Cina, carbone e clima, di Paul Krugman

New York Times 13 novembre 2014

E’ facile essere cinici sugli incontri al vertice. Spesso sono soltanto occasioni fotografiche, e le foto dell’ultimo incontro per la Cooperazione Economica Asia-Pacifico, nel quale i leader del mondo assomigliavano considerevolmente al cast di “Star Trek”, erano particolarmente imbarazzanti. Nel migliore dei casi sono quasi sempre soltanto occasioni per annunciare formalmente accordi per i quali i dirigenti di più basso livello hanno trovato soluzioni.

Talvolta, tuttavia, emerge qualcosa di realmente importante. E questo è uno di quei casi: l’accordo sulle emissioni di anidride carbonica tra Cina e Stati Uniti è, sul serio, una faccenda importante.

Per capire in che senso, si deve prima comprendere la difesa in profondità che è stata eretta dagli interessi dei combustibili fossili e da coloro che sono fedelmente al loro servizio – che al giorno d’oggi comprendono l’intero Partito Repubblicano – contro ogni iniziativa per salvare il pianeta.

La prima linea di tale sbarramento consiste nel negare: non c’è alcun cambiamento climatico: è una bufala ordita da una setta che comprende qualche migliaio di scienziati a giro per il mondo. Nella sua bizzarria, a questo punto di vista aderiscono persone potenti, compreso il Senatore James Inhofe, che presta sarà alla guida della Commissione Ambiente e Lavori Pubblici del Senato. In effetti, alcuni funzionati elettivi hanno già fatto tutto quello che potevano per mettere in atto una caccia alle streghe contro gli scienziati del clima.

Ciononostante, da un punto di vista politico, attaccare gli scienziati ha una efficacia limitata. Funziona bene con il Tea Party, ma alla più ampia opinione pubblica – compresi i repubblicani che non aderiscono al Tea Party – finisce col sembrare una pazzesca teoria complottarda, come in effetti è.

La seconda linea difensiva riguarda tattiche di dissuasione economica: ogni tentativo di limitare le emissioni distruggerà posti di lavoro e metterà fine alla crescita. Questo argomento si adatta malamente alla consueta fede nei mercati della destra; pensavamo di dover credere che le imprese possono superare ogni problema, adattarsi ed innovare a fronte di ogni ostacolo, e invece rinsecchirebbero sino a scomparire se la politica mettesse un prezzo all’anidride carbonica. Ancora; quello che non va bene ai fratelli Koch non può andar bene all’America, non è così?

Come le pretese relative ad una ampia cospirazione di scienziati, tuttavia, l’argomento del disastro economico ha una presa limitata oltre i confini della base repubblicana. I dirigenti repubblicani possono parlare di “guerra sul carbone” come se questa fosse in se stessa un attacco ai valori americani, ma la realtà è che l’industria del carbone occupa davvero poche persone. La vera guerra sul carbone, o almeno sui minatori di carbone, venne dichiarata per conto della estrazione a cielo aperto e del gas naturale, e terminò molto tempo fa. E nella nazione nel suo complesso, la protezione ambientale è piuttosto popolare.

La qualcosa ci conduce all’ultima linea difensiva, gli argomenti secondo i quali l’America non può far niente sul riscaldamento globale, perché altri paesi, la Cina in particolare, semplicemente continueranno ad emettere i gas serra. E’ questo l’argomento consueto dei gruppi di ricerca come il Cato Institute e tra i commentatori conservatori. E, ad esser giusti, chiunque proponga una iniziativa sul clima non può evitare di spiegare come possiamo fare i conti con il problema della volontà di approfittare dei comportamenti altrui da parte dei paesi che rifiutano di contenere le emissioni.

Ora, in questo caso è disponibile una buona risposta: l’imposizione di “tariffe della anidride carbonica” contro le esportazioni dei paesi che rifiutano di unirsi allo sforzo del contenimento delle emissioni. Tali tariffe probabilmente non richiederebbero neppure alcuna modifica nelle esistenti leggi sul commercio, e fornirebbero un potente incentivo per coloro che resistono ad aderire al programma. Eppure, sino ad ora, l’idea che la Cina potesse essere indotta a partecipare alla protezione ambientale era nel migliore dei casi una consapevole congettura.

Ma ora essa ci viene direttamente dalla fonte: la Cina ha dichiarato la sua intenzione di limitare le emissioni di anidride carbonica.

Lo so, lo so. Il linguaggio è un po’ vago, ed i livelli degli obbiettivi di emissioni sono molto più alti di quello che vorrebbero gli esperti dell’ambiente. In effetti, anche se l’accordo fosse destinato a funzionare esattamente come stabilito, il pianeta sarebbe costretto ad una crescita delle temperature gravemente dannosa.

Ma si consideri il contesto. L’America non è esattamente su questi temi il partner negoziale più affidabile, con i negazionisti del riscaldamento del clima che controllano il Congresso ed una prospettiva di azione derivante da disposizioni dell’esecutivo [1] soltanto per il prossimo futuro, e forse tra molti anni (per non dire della possibilità che il prossimo Presidente possa ben essere un anti-ambientalista, che ribalterebbe tutto ciò che il Presidente Obama mette in atto). Nel frattempo, la leadership cinese deve fare i conti con i nazionalisti di casa sua, che detestano ogni idea che la nuova superpotenza in ascesa possa consentire all’Occidente di imporre le sue politiche. Dunque, quello che stiamo ottenendo in questo caso è più una dichiarazione di principio, non ha i connotati di una vera e propria politica in arrivo.

Ma il principio che è stato fissato è davvero di quelli importanti. Sinora, coloro tra noi che sostenevano che la Cina potesse essere indotta a partecipare ad un accordo internazionale sul clima, facevano speculazioni. Ora abbiamo i cinesi che affermano di essere, in effetti disponibili ad un accordo – e gli oppositori devono sostenere che essi non dicono la verità.

Non è il caso di aggiungere che non mi aspetto che ammettano che una parte importante della argomentazione degli antiambientalisti sia appena entrata in crisi. Ma così è stato. E’ stata una buona settimana per il pianeta.

 

 

[1] Come si è visto in articoli precedenti di Krugman, stante l’indisponibilità del Congresso (ieri di un ramo, oggi di due), l’unica possibilità di interventi sulle emissioni viene affidata a regolamentazioni più severe da parte della Agenzia americana per la protezione ambientale.

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