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Imprese ed economia, di Paul Krugman (New York Times 2 novembre 2014)

 

Business vs. Economics

NOV. 2, 2014 Paul Krugman

TOKYO — The Bank of Japan, this country’s equivalent of the Federal Reserve, has lately been making a big effort to end deflation, which has afflicted Japan’s economy for almost two decades. At first its efforts — which involve printing a lot of money and, even more important, trying to assure investors that it will keep printing money until inflation reaches 2 percent — seemed to be going well. But more recently the economy has lost momentum, and last week the bank announced new, even more aggressive monetary measures.

I am, as you might guess, very much in favor of this move, although I worry that the policy might nonetheless fail thanks to fiscal mistakes. (More about that later.) While the bank did the right thing, however, it did so amid substantial internal dissent. In fact, the new stimulus was approved by only five of the bank board’s nine members, with those closest to business voting against. Which brings me to the subject of this column: the economic wisdom, or lack thereof, of business leaders.

Some of the people I’ve spoken to here argue that the opposition of many Japanese business leaders to the Bank of Japan’s actions shows that it’s on the wrong track. In saying this, they’re echoing a common sentiment in many countries, including America — the belief that if you want to fix an ailing economy, you should turn to people who have been successful in business, like leaders of major corporations, entrepreneurs and wealthy investors. After all, doesn’t their success with money mean that they know how the economy really works?

Actually, no. In fact, business leaders often give remarkably bad economic advice, especially in troubled times. And I think it’s important to understand why.

About that bad advice: Think of the hugely wealthy money managers who warned Ben Bernanke that the Fed’s efforts to boost the economy risked “currency debasement”; think of the many corporate chieftains who solemnly declared that budget deficits were the biggest threat facing America, and that fixing the debt would cause growth to soar. In Japan, business leaders played an important role in the fiscal mistakes that have undermined recent policy success, calling for a tax hike that caused growth to stall earlier this year, and a second tax hike next year that would be an even worse error.

And on the other side, the past few years have seen repeated vindication for policy makers who have never met a payroll, but do know a lot about economic theory and history. The Federal Reserve and the Bank of England have navigated their way through a once-in-three-generations economic crisis under the leadership of former college professors — Ben Bernanke, Janet Yellen and Mervyn King — who, among other things, had the courage to defy all those tycoons demanding that they stop printing money. The European Central Bank brought the euro back from the brink of collapse under the leadership of Mario Draghi, who spent the bulk of his career in academia and public service.

Obviously there are business leaders who have gotten the economic analysis right, and plenty of academics who have gotten it wrong. (Don’t get me started.) But success in business does not seem to convey any special insight into economic policy. Why?

The answer, to quote the title of a paper I published many years ago, is that a country is not a company. National economic policy, even in small countries, needs to take into account kinds of feedback that rarely matter in business life. For example, even the biggest corporations sell only a small fraction of what they make to their own workers, whereas even very small countries mostly sell goods and services to themselves.

So think of what happens when a successful businessperson looks at a troubled economy and tries to apply the lessons of business experience. He or (rarely) she sees the troubled economy as something like a troubled company, which needs to cut costs and become competitive. To create jobs, the businessperson thinks, wages must come down, expenses must be reduced; in general, belts must be tightened. And surely gimmicks like deficit spending or printing more money can’t solve what must be a fundamental problem.

In reality, however, cutting wages and spending in a depressed economy just aggravates the real problem, which is inadequate demand. Deficit spending and aggressive money-printing, on the other hand, can help a lot.

But how can this kind of logic be sold to business leaders, especially when it comes from pointy-headed academic types? The fate of the world economy may hinge on the answer.

Here in Japan, the fight against deflation is all too likely to fail if conventional notions of prudence prevail. But can unconventionality triumph over the instincts of business leaders? Stay tuned.

 

Imprese ed economia, di Paul Krugman

New York Times 2 novembre 2014

TOKYO – La Banca del Giappone, l’equivalente della Federal Reserve di questo paese, ha recentemente fatto un grande sforzo per metter fine alla deflazione che affligge l’economia giapponese da quasi due decenni. All’inizio i suoi sforzi – che riguardano lo stampare una gran quantità di valuta e, anche più importante, il cercare di rassicurare gli investitori che essa continuerà a stampare valuta sinché l’inflazione non raggiunga il 2 per cento – parevano andare a buon esito. Ma più di recente l’economia ha perso slancio, e la scorsa settimana la banca ha annunciato nuove misure monetarie, persino più aggressive.

Come vi potete immaginare, sono molto a favore di questa iniziativa, sebbene mi preoccupi che tale politica possa comunque non avere effetto grazie agli errori della finanza pubblica (tornerò su questo aspetto più oltre). E tuttavia, se la banca ha fatto la cosa giusta, l’ha fatto in mezzo a sostanziali dissensi interni. Di fatto, le nuove misure di sostegno sono state approvate soltanto da cinque membri su nove del Consiglio della Banca, con il voto contrario di coloro che sono più vicini alle imprese. La qualcosa mi porta al tema di quest’articolo: la saggezza convenzionale, o piuttosto la mancanza di essa, da parte dei dirigenti del sistema delle imprese.

Alcune delle persone con le quali ho parlato sostengono in questo caso che l’opposizione di molti dirigenti d’impresa giapponesi verso le iniziative della Banca del Giappone dimostra che quest’ultima è sulla strada sbagliata. Così dicendo, essi fanno eco ad una sentimento comune in molti paesi, inclusa l’America – la convinzione che se si vuole riparare un’economia malandata, si dovrebbe rivolgersi alle persone che hanno avuto successo negli affari, come il dirigenti delle società più importanti, imprenditori e investitori facoltosi. Dopo tutto, il loro successo col denaro non dimostra che sanno come l’economia realmente funziona?

Per la verità, no. Di fatto, i dirigenti di impresa danno spesso pessimi consigli economici, particolarmente in periodi difficili. E penso sia importante capirne in motivo.

A proposito dei pessimi consigli: si pensi ai ricchissimi manager finanziari che ammonirono Ben Bernanke che gli sforzi della Fed di incoraggiare l’economia rischiavano di “svalutare la moneta”; si pensi ai molti capitani d’azienda che dichiararono solennemente che i deficit di bilancio erano la più grande minaccia di fronte all’America, e che riparare il debito avrebbe spinto la crescita in alto. Nel Giappone, i dirigenti di impresa hanno giocato un ruolo importante negli errori di finanza pubblica che hanno messo a repentaglio i recenti successi della politica, chiedendo un rialzo delle tasse che ha provocato il blocco della crescita agli inizi di quest’anno, ed un secondo rialzo nel prossimo anno che sarà un errore anche maggiore.

D’altra parte, gli ultimi anni hanno conosciuto una serie di risarcimenti per quei dirigenti pubblici che non hanno mai visto una busta paga, ma sanno molto di teoria e di storia dell’economia. La Federal Reserve e la Banca di Inghilterra hanno mantenuto la loro rotta attraverso crisi economiche che si sono ripetute ogni tre generazioni, sotto la guida di precedenti docenti universitari – Ben Bernanke, Janet Yellen e Mervyn King – che, tra le altre cose, hanno avuto il coraggio di sfidare tutti quei magnati che chiedevano loro di smettere di stampare valuta. La Banca Centrale Europea ha tirato indietro l’euro dal ciglio di un collasso sotto la guida di Mario Draghi, che aveva speso buona parte della sua carriera nell’università e nel servizio pubblico.

Ovviamente, ci sono dirigenti di impresa che hanno fatto in modo corretto l’analisi economica, ed una miriade di universitari che l’hanno fatta in modo sbagliato (non fatemi parlare!). Ma il successo negli affari non sembra comporti alcuna particolare intuizione di politica economica. Perché?

La risposta, per riprendere il titolo di un saggio che pubblicai molti anni orsono, è che un paese non è un’impresa. La politica economica nazionale, anche in paesi piccoli, richiede che si mettano nel conto tipi di riscontri che raramente sono importanti nella vita di un’impresa. Per esempio, anche la società più grande vende solo una piccola frazione di ciò che produce ai propri lavoratori, mentre persino i paesi più piccoli vendono a se stessi i loro beni e servizi.

Si pensi, dunque, a quello che succede quando un impresario di successo si rivolge ad un’economia in difficoltà e cerca di applicare le lezioni della sua esperienza di impresa. Costui (o più raramente, costei) considererà l’economia in difficoltà al pari di un’impresa in difficoltà, la qual cosa richiede di tagliare i costi e di diventare competitivi. Per creare posti di lavoro, pensa l’uomo di impresa, i salari debbono scendere, le spese devono essere ridotte; in generale, si devono stringere le cinghie. E certamente stratagemmi come la spesa in deficit o lo stampare maggiore valuta non risolveranno quello che appare essere un problema di prima grandezza.

In realtà, tuttavia, tagliare i salari e le spese in un’economia depressa, aggrava soltanto il problema reale, che è una domanda inadeguata. La spesa in deficit ed un aggressivo stampare valuta, invece, possono aiutare molto.

Ma come si può trasmettere una logica di questo genere ai dirigenti di impresa, in particolare quando essa proviene da supponenti individui del mondo accademico? Il destino dell’economia mondiale può dipendere dalla risposta.

Qua in Giappone, è anche troppo probabile che la battaglia contro la deflazione fallisca se prevalgono i convenzionali concetti di prudenza. Ma può la non convenzionalità averla vita sugli istinti dei dirigenti d’impresa? Restate in collegamento.

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