DEC. 18, 2014
If you’re the type who finds macho posturing impressive, Vladimir Putin is your kind of guy. Sure enough, many American conservatives seem to have an embarrassing crush on the swaggering strongman. “That is what you call a leader,” enthused Rudy Giuliani, the former New York mayor, after Mr. Putin invaded Ukraine without debate or deliberation.
But Mr. Putin never had the resources to back his swagger. Russia has an economy roughly the same size as Brazil’s. And, as we’re now seeing, it’s highly vulnerable to financial crisis — a vulnerability that has a lot to do with the nature of the Putin regime.
For those who haven’t been keeping track: The ruble has been sliding gradually since August, when Mr. Putin openly committed Russian troops to the conflict in Ukraine. A few weeks ago, however, the slide turned into a plunge. Extreme measures, including a huge rise in interest rates and pressure on private companies to stop holding dollars, have done no more than stabilize the ruble far below its previous level. And all indications are that the Russian economy is heading for a nasty recession.
The proximate cause of Russia’s difficulties is, of course, the global plunge in oil prices, which, in turn, reflects factors — growing production from shale, weakening demand from China and other economies — that have nothing to do with Mr. Putin. And this was bound to inflict serious damage on an economy that, as I said, doesn’t have much besides oil that the rest of the world wants; the sanctions imposed on Russia over the Ukraine conflict have added to the damage.
But Russia’s difficulties are disproportionate to the size of the shock: While oil has indeed plunged, the ruble has plunged even more, and the damage to the Russian economy reaches far beyond the oil sector. Why?
Actually, it’s not a puzzle — and this is, in fact, a movie currency-crisis aficionados like yours truly have seen many times before: Argentina 2002, Indonesia 1998, Mexico 1995, Chile 1982, the list goes on. The kind of crisis Russia now faces is what you get when bad things happen to an economy made vulnerable by large-scale borrowing from abroad — specifically, large-scale borrowing by the private sector, with the debts denominated in foreign currency, not the currency of the debtor country.
In that situation, an adverse shock like a fall in exports can start a vicious downward spiral. When the nation’s currency falls, the balance sheets of local businesses — which have assets in rubles (or pesos or rupiah) but debts in dollars or euros — implode. This, in turn, inflicts severe damage on the domestic economy, undermining confidence and depressing the currency even more. And Russia fits the standard playbook.
Except for one thing. Usually, the way a country ends up with a lot of foreign debt is by running trade deficits, using borrowed funds to pay for imports. But Russia hasn’t run trade deficits. On the contrary, it has consistently run large trade surpluses, thanks to high oil prices. So why did it borrow so much money, and where did the money go?
Well, you can answer the second question by walking around Mayfair in London, or (to a lesser extent) Manhattan’s Upper East Side, especially in the evening, and observing the long rows of luxury residences with no lights on — residences owned, as the line goes, by Chinese princelings, Middle Eastern sheikhs, and Russian oligarchs. Basically, Russia’s elite has been accumulating assets outside the country — luxury real estate is only the most visible example — and the flip side of that accumulation has been rising debt at home.
Where does the elite get that kind of money? The answer, of course, is that Putin’s Russia is an extreme version of crony capitalism, indeed, a kleptocracy in which loyalists get to skim off vast sums for their personal use. It all looked sustainable as long as oil prices stayed high. But now the bubble has burst, and the very corruption that sustained the Putin regime has left Russia in dire straits.
How does it end? The standard response of a country in Russia’s situation is an International Monetary Fund program that includes emergency loans and forbearance from creditors in return for reform. Obviously that’s not going to happen here, and Russia will try to muddle through on its own, among other things with rules to prevent capital from fleeing the country — a classic case of locking the barn door after the oligarch is gone.
It’s quite a comedown for Mr. Putin. And his swaggering strongman act helped set the stage for the disaster. A more open, accountable regime — one that wouldn’t have impressed Mr. Giuliani so much — would have been less corrupt, would probably have run up less debt, and would have been better placed to ride out falling oil prices. Macho posturing, it turns out, makes for bad economies.
Scoppia la bolla di Putin, di Paul Krugman
New York Times 18 dicembre 2014
Se siete il tipo di persona che si impressiona per gli atteggiamenti macho, Vladimir Putin è l’individuo che fa al caso vostro. E’ indubbio che molti conservatori americani sembrano avere una imbarazzante predilezione verso l’uomo forte con arie da fanfarone. “E’ quello che si può definire un leader”, disse con entusiasmo Rudy Giuliani, il precedente Sindaco di New York, allorché il signor Putin invase l’Ucraina senza alcuna discussione o deliberazione.
Sennonché il signor Putin non ha mai avuto i mezzi per dar seguito alle sue fanfaronate. La Russia ha grosso modo un’economia delle stesse dimensioni del Brasile. E, da quanto oggi stiamo constatando, è altamente vulnerabile alle crisi finanziarie – una vulnerabilità che ha molto a che fare con la natura del regime di Putin.
Per coloro che non se ne fossero accorti: il rublo è venuto scivolando gradualmente sin da agosto, quando Putin impegnò apertamente truppe russe nel conflitto in Ucraina. Poche settimane fa, tuttavia, la scivolata si è trasformata in un crollo. Misure estreme, inclusi un ampio aumento dei tassi di interesse e pressioni verso società private perché cessassero di indebitarsi in dollari, non hanno sortito maggiore effetto che una stabilizzazione del rublo a livelli assai più bassi di quelli precedenti. E tutte le indicazioni dicono che l’economia russa si sta dirigendo verso una pessima recessione.
La causa più vicina delle difficoltà della Russia, naturalmente, è il crollo globale dei prezzi del petrolio che, a sua volta, riflette fattori – la produzione crescente da scisti bituminose, la domanda che si indebolisce da parte della Cina e di altre economie – che non hanno niente a che fare con Putin. E ciò era probabile che infliggesse un serio danno ad un’economia che, come ho detto, non ha molto altro che il petrolio di ciò di cui il resto del mondo abbisogna: le sanzioni alla Russia per il conflitto in Ucraina hanno aggiunto altro danno.
Ma le difficoltà della Russia sono sproporzionate alla dimensione di tale colpo: se il petrolio è in effetti è crollato, il rublo è crollato persino maggiormente, e il danno all’economia russa va molto oltre il settore petrolifero. Perché?
Per la verità, non è un mistero – e si tratta, di fatto, di un film delle crisi valutarie che gli affezionati come il sottoscritto hanno visto molte volte in precedenza: l’Argentina del 2002, l’Indonesia del 1998, il Messico del 1995, il Cile del 1982, e la lista potrebbe continuare. Il genere di crisi che oggi la Russia fronteggia è quello che si ha quando accadono cose negative ad un’economia resa vulnerabile da un indebitamento su vasta scala all’estero – in particolare, su un indebitamento in larga scala del settore privato, con debiti che vengono espressi in valuta straniera, non nella valuta del paese debitore.
In tale situazione, un trauma avverso come una caduta nelle esportazioni può avviare un circolo vizioso verso il basso. Quando la valuta di una nazione cade, gli equilibri patrimoniali delle imprese nazionali – che hanno asset in rubli (o in pesos o in rupie) ma debiti in dollari o in euro – implodono. Questo, a sua volta, infligge un danno grave all’economia nazionale, mettendo a repentaglio la fiducia e deprimendo anche maggiormente la valuta. E la Russia calza pennello a quella comune partitura.
Ad eccezione di un aspetto. Normalmente, il modo in cui un paese si ritrova con una quantità di debito estero deriva dalla gestione di deficit commerciali, utilizzando finanziamenti presi a prestito per pagare le importazioni. Ma la Russia non realizza deficit commerciali. Al contrario, essa ha cospicui surplus commerciali, grazie agli alti prezzi del petrolio. Perché dunque ha preso a prestito così tanto denaro, e dove è andato a finire?
Ebbene, alla seconda domanda potete rispondere passeggiando nei pressi di Mayfair a Londra, oppure (in minore misura) nell’Upper East Side di Manhattan, specialmente durante la sera, e osservando le lunga fila di ville lussuose con le luci spente – ville di proprietà, come si può immaginare, di eminenze cinesi, di sceicchi del Medio Oriente, di oligarchi russi. In sostanza, l’élite russa è venuta accumulando asset fuori dal paese – gli immobili di lusso sono soltanto l’esempio più visibile – e l’altra faccia della medaglia di quella accumulazione è stata un debito crescente all’interno del paese.
Dove si è procurata l’élite il denaro per quegli scopi? La risposta, ovviamente, è che la Russia di Putin è una versione estrema di un capitalismo clientelare, di fatto una cleptocrazia nella quale i fedeli del regime ottengono di fare la cresta su vaste somme per il loro consumo personale. Tutto pareva sostenibile finché i prezzi del petrolio sono rimasti elevati. Ma ora la bolla è scoppiata, e la vera e propria corruzione che ha sorretto il regime di Putin la lasciato la Russia in gravi ambasce.
Come andrà a finire? La risposta consueta per un paese nella situazione della Russia sarebbe un programma del Fondo Monetario Internazionale che comprenda prestiti di emergenza ed una tolleranza da parte dei creditori, in cambio di riforme. Non è così che ovviamente le cose sono destinate ad andare in questo caso, e la Russia cercherà di cavarsela per conto proprio, tra le altre cose con regole che impediscano fughe di capitali dal paese – un classico caso di chiusura della porta della stalla, dopo che gli oligarchi se ne sono andati.
Si tratta di uno smacco completo per Putin. Ed il suo atteggiarsi a uomo forte e fanfarone ha contribuito a porre le premesse per il disastro. Un regime più aperto e responsabile – uno di quelli che non avrebbero impressionato a tal punto il signor Giuliani – sarebbe stato meno corrotto, avrebbe probabilmente accumulato un debito minore, e sarebbe stato in una condizione migliore per superare la caduta dei prezzi del petrolio. Gli atteggiamenti macho, questo è quanto si scopre, generano cattiva economia.
By mm
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