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Troppo responsabili, di Paul Krugman (New York Times 22 gennaio 2015)

 

Much Too Responsible

JAN. 22, 2015

Paul Krugman

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The United States and Europe have a lot in common. Both are multicultural and democratic; both are immensely wealthy; both possess currencies with global reach. Both, unfortunately, experienced giant housing and credit bubbles between 2000 and 2007, and suffered painful slumps when the bubbles burst.

Since then, however, policy on the two sides of the Atlantic has diverged. In one great economy, officials have shown a stern commitment to fiscal and monetary virtue, making strenuous efforts to balance budgets while remaining vigilant against inflation. In the other, not so much.

And the difference in attitudes is the main reason the two economies are now on such different paths. Spendthrift, loose-money America is experiencing a solid recovery — a reality reflected in President Obama’s feisty State of the Union address. Meanwhile, virtuous Europe is sinking ever deeper into deflationary quicksand; everyone hopes that the new monetary measures announced Thursday will break the downward spiral, but nobody I know really expects them to be enough.

On the U.S. economy: No, it’s not morning in America, let alone the kind of prosperity we managed during the Clinton years. Recovery could and should have come much faster, and family incomes remain well below their pre-crisis level. Although you’d never know it from the public discussion, there’s overwhelming agreement among economists that the Obama stimulus of 2009-10 helped limit the damage from the financial crisis, but it was too small and faded away far too fast. Still, when you compare the performance of the American economy over the past two years with all those Republican predictions of doom, you can see why Mr. Obama is strutting a bit.

Europe, on the other hand — or more precisely the eurozone, the 18 countries sharing a common currency — did almost everything wrong. On the fiscal side, Europe never did much stimulus, and quickly turned to austerity — spending cuts and, to a lesser extent, tax increases — despite high unemployment. On the monetary side, officials fought the imaginary menace of inflation, and took years to acknowledge that the real threat is deflation.

Why did they get it so wrong?

To some extent, the turn toward austerity reflected institutional weakness: In the United States, federal programs like Social Security, Medicare and food stamps helped support states like Florida with especially severe housing busts, whereas European nations in similar straits, like Spain, were on their own. But European austerity also reflected willful misdiagnosis of the situation. In Europe as in America, the excesses that led to crisis overwhelmingly involved private rather than public debt, with Greece very much an outlier. But officials in Berlin and Brussels chose to ignore the evidence in favor of a narrative that placed all the blame on budget deficits, and simultaneously rejected the evidence suggesting — correctly — that trying to slash deficits in a depressed economy would deepen the depression.

Meanwhile, Europe’s central bankers decided to worry about inflation in 2011 and raise interest rates. Even at the time it was obvious that this was foolish — yes, there had been an uptick in headline inflation, but measures of underlying inflation were too low, not too high.

Monetary policy got much better after Mario Draghi became president of the European Central Bank in late 2011. Indeed, Mr. Draghi’s heroic efforts to provide liquidity to nations facing speculative attack almost surely saved the euro from collapse. But it’s not at all clear that he has the tools to fight off the broader deflationary forces set in motion by years of wrongheaded policy. Furthermore, he has to function with one hand tied behind his back, because Germany remains adamantly opposed to anything that might make life easier for debtor nations.

The terrible thing is that Europe’s economy was wrecked in the name of responsibility. True, there have been times when being tough meant reducing deficits and resisting the temptation to print money. In a depressed economy, however, a balanced-budget fetish and a hard-money obsession are deeply irresponsible. Not only do they hurt the economy in the short run, they can — and in Europe, have — inflict long-run harm, damaging the economy’s potential and driving it into a deflationary trap that’s very hard to escape.

Nor was this an innocent mistake. The thing that strikes me about Europe’s archons of austerity, its doyens of deflation, is their self-indulgence. They felt comfortable, emotionally and politically, demanding sacrifice (from other people) at a time when the world needed more spending. They were all too eager to ignore the evidence that they were wrong.

And Europe will be paying the price for their self-indulgence for years, perhaps decades, to come.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Troppo responsabili, di Paul Krugman

New York Times 22 gennaio 2015

Gli Stati Uniti e l’Europa hanno molto in comune. Sono entrambi multiculturali e democratici; entrambi sono immensamente ricchi; posseggono entrambi valute con una influenza globale. Sfortunatamente, entrambi hanno conosciuto bolle gigantesche nel settore immobiliare e nel credito tra il 2000 ed il 2007, ed hanno sofferto penose recessioni quando le bolle sono scoppiate.

Da allora, tuttavia, sulle due sponde dell’Atlantico la politica ha preso strade diverse. In una delle due grandi economie i dirigenti hanno mostrato un rigido attaccamento alla virtù della finanza pubblica e monetaria, compiendo strenui sforzi per mettere i bilanci in equilibrio e restando vigilanti contro l’inflazione. Nell’altra, non altrettanto.

E tale differenza di attitudini è oggi la principale ragione per la quale le due economie sono su due strade diverse. L’America spendacciona e del denaro facile sta conoscendo una solida ripresa – una realtà che si è riflessa nel volitivo discorso del Presidente Obama sullo Stato dell’Unione. Nel frattempo, la virtuosa Europa sta affondando sempre più profondamente nelle sabbie mobili della deflazione; ognuno spera che le misure monetarie annunciate giovedì interromperanno la spirale verso il basso, ma nessuno che io conosca si aspetta realmente che siano sufficienti.

Quanto all’economia americana; no, non siamo al “Buongiorno America” [1], a parte il tipo di prosperità che sperimentammo durante gli anni di Clinton. La ripresa doveva e poteva arrivare molto più velocemente, e i redditi delle famiglie restano ben al di sotto del loro livello precedente alla crisi. Sebbene non lo saprete mai dal dibattito pubblico, c’è un accordo quasi unanime tra gli economisti sul fatto che le misure di sostegno di Obama nel 2009-2010 contribuirono a limitare il danno della crisi finanziaria, ma furono troppo piccole e svanirono troppo rapidamente. Eppure, quando si confronta l’andamento dell’economia americana nei due anni passati con tutte le previsioni di sventura dei repubblicani, si può comprendere perché Obama ne vada piuttosto orgoglioso.

L’Europa d’altra parte – o più precisamente l’eurozona, i 18 paesi che condividono una moneta comune – ha fatto quasi tutto nel modo sbagliato. Sul piano della finanza pubblica, l’Europa non ha mai messo in atto misure di sostegno, ed anzi rapidamente si è spostata all’austerità – tagli alla spesa e, in minor misura, incrementi fiscali – nonostante l’elevata disoccupazione. Sul versante monetario, i dirigenti si batterono contro la minaccia immaginaria dell’inflazione, e ci misero anni per riconoscere che la minaccia vera era la deflazione.

Perché hanno fatto tanti sbagli?

In qualche misura, la scelta dell’austerità ha riflettuto una debolezza istituzionale: negli Stati Uniti, i programmi federali come quello pensionistico, della sanità per gli anziani e degli aiuti alimentari hanno contribuito a sostenere Stati come la Florida, con crolli nel settore immobiliare particolarmente gravi, mentre le nazioni europee con analoghe difficoltà, come la Spagna, sono state lasciate a se stesse. Ma l’austerità europea ha anche riflettuto un ostinato fraintendimento della situazione. In Europa come in America, gli eccessi che avevano portato alla crisi avevano riguardato in modo assolutamente prevalente il debito privato anziché quello pubblico, con la Grecia che rappresentava in gran parte una eccezione. Ma i dirigenti a Berlino come a Bruxelles scelsero di ignorare i fatti a favore di un racconto che dava tutta la responsabilità ai deficit di bilancio, e contemporaneamente respinsero le prove che indicavano – a ben vedere – che abbattere i deficit in una economia depressa avrebbe approfondito la depressione.

Nel frattempo, i banchieri centrali europei, nel 2011, decisero di preoccuparsi dell’inflazione ed elevarono i tassi di interesse. Persino a quel tempo era evidente che era una sciocchezza – è vero, c’era stato una lieve risalita dell’inflazione apparente, ma i dati sull’inflazione sostanziale erano troppo bassi, non troppo alti.

La politica monetaria andò molto meglio dopo che Mario Draghi divenne, sulla fine del 2011, Presidente della Banca Centrale Europea. In effetti, gli sforzi eroici di Draghi nel fornire liquidità alle nazioni che si trovavano di fronte ad attacchi speculativi quasi certamente salvarono l’euro dal collasso. Ma non è affatto chiaro se egli disponga degli strumenti per combattere le più vaste forze deflattive messe in movimento da anni di politiche sbagliate. Inoltre, egli deve operare con una mano legata dietro la schiena, perché la Germania resta ostinatamente contraria a tutto quello che potrebbe rendere più facile la vita alle nazioni debitrici.

La cosa terribile è che l’economia dell’Europa è stata compromessa in nome della responsabilità. E’ vero, ci sono stati periodi nei quali essere rigidi significava ridurre i deficit e resistere alla tentazione di stampare moneta. In una economia depressa, tuttavia, il feticcio del bilancio in equilibrio e l’ossessione della moneta forte sono profondamente irresponsabili. Non solo feriscono nel breve termine l’economia, possono anche provocare un danno di lungo periodo, come è accaduto in Europa, compromettendo il potenziale dell’economia e portandola ad una trappola deflazionistica dalla quale è molto difficile venir fuori.

Né si è trattato di un errore innocente. La cosa che mi impressiona nei sacerdoti europei dell’austerità, nei suoi decani della deflazione, è l’indulgenza che professano verso se stessi. Si sentono a loro agio, emotivamente e politicamente, chiedono sacrifici (agli altri) in un tempo nel quale il mondo avrebbe bisogno di spesa maggiore. Si sono mostrati anche troppo ansiosi nel non vedere le prove del loro errore.

E l’Europa, per questa loro auto indulgenza, pagherà il prezzo per anni, forse per decenni.

 

 

[1] “E’ giorno in America” fu il titolo di una trasmissione radiofonica di Ronald Reagan, che ebbe un grande successo e favorì la sua successiva vittoria alle elezioni presidenziali. In questo caso il senso è molteplice – Krugman di recente è intervenuto spesso nei suoi posts sulle rappresentazioni deformanti dei presunti successi economici reaganiani, anche ricordando che i risultati economici sotto Clinton furono assai migliori. Ma il senso più diretto, probabilmente, è quello di negare la pretesa dei repubblicani americani, secondo i quali la ripresa attuale sarebbe figlia del loro successo nelle elezioni di medio termine. In realtà, a quella data la ripresa era già in corso.

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