Jan 14 9:46 am
I’m heading off for an India/Hong Kong/China tour in a few hours, which gives me a reason to stop thinking about deflation in the West for a bit and think about long-run growth issues instead. And one point I mean to make is that the world has changed.
If you know your long-run history of world trade, you know that we’re living in the second global economy. The first, based on telegraphs, railroads, and steamships, flourished from around 1870 to World War I, then was shut down by war and protectionism. The second emerged after World War II, but gradually; remarkably, trade as a share of world income didn’t reach 1913 levels until the 1970s, and it wasn’t until after 1990 that “hyperglobalization” driven by breaking up the value chain — and also the first large-scale trade in services — took globalization to a level our great-grandfathers didn’t know.
So here’s a question: have the forces leading to convergence or divergence among nations returned the same as they were before? And the answer seems to be no.
I’m not going to do elaborate cross-country regressions, which ran into diminishing returns around the time hyperglobalization itself got going. But I do find simple scatterplots (using the Maddison database) illuminating.
First, here’s initial GDP per capita and growth thereof over the two decades before World War I, with a few countries labeled:
I don’t know what was going on in Greece there, or whether that’s just a glitch in the data. But two things do seem to be clear. First, there was no sign of a tendency toward convergence, for poorer countries to grow faster. Second, really fast growth by the standards of the era took place in resource-rich economies.
Now do the same thing for 1990-2010:
Several points. First, top growth rates have gotten much higher — presumably because the technological frontier is so much further out, so countries can really grow fast via catchup. Second, there’s a huge spread in growth rates among poor countries — but that largely reflects noneconomic factors, mainly war external and civil (plus negative growth in much of the former Soviet Union, again about social disruption). Some of the high growth rates reflect recovery from chaos — I believe that’s what Sudan and Burma are about — but for the most part not; instead, we’re witnessing successful catchup. And of course the really big countries in that group (Bangladesh has also done much better than people seem to know) mean that we’re looking at a very large number of people.
I do think there’s something systematic here; the Summers-Pritchett work on regression toward the mean is a useful corrective to overinterpretation and extrapolation, but is a bit too nihilist for my tastes.
But why the change in the rules? Good question. I hope to have an answer by the time I give my first talk.
Convergenza di due economie globali
Tra poche ore partirò per un viaggio in India/Hong Kong/Cina, il che mi offre una ragione per smettere di pensare per un po’ alla deflazione in Occidente e pensare piuttosto ai temi della crescita nel lungo periodo. E un argomento che intendo avanzare è che il mondo è cambiato.
Se conoscete la storia del commercio mondiale nel lungo periodo, sapete che stiamo vivendo nella seconda economia globale. La prima, basata sul telegrafo, le ferrovie e le navi a vapore, prosperò da circa il 1870 alla Prima Guerra Mondiale, poi fu abbattuta dalla guerra e dal protezionismo. La seconda emerse dopo la Seconda Guerra Mondiale ma gradualmente; è rilevante notare che il commercio come quota del reddito mondiale non raggiunse i livelli del 1913 sino agli anni ’70, e non avvenne sin dopo il 1990 quella “iperglobalizzazione” guidata dalla rottura della catena del valore – ed anche quel primo scambio su ampia scala dei servizi – che portò la globalizzazione ad un livello che i nostri nonni non conoscevano.
Ecco dunque una domanda: i fattori che guidano la convergenza o la divergenza tra le nazioni sono tornati ad essere quello che erano in precedenza? La risposta pare essere negativa.
Non ho intenzione di fare elaborate regressioni [1] tra vari paesi, che si incontrino con i rendimenti decrescenti attorno al periodo nel quale la stessa iperglobalizzazione è cominciata. Ma faccio semplici grafici a dispersione [2] illuminanti (utilizzando il data base della fondazione Maddison).
Anzitutto, ecco il PIL procapite iniziale e la sua crescita nel corso dei due decenni precedenti la Prima Guerra Mondiale, per un certo numero di paesi classificati:
Non so cosa stesse accadendo in Grecia in quel caso, oppure se si è solo in presenza di un disguido nei dati. Ma due cose sembrano chiare. La prima, non c’è alcun segno di una tendenza verso la convergenza. La seconda, una crescita effettivamente veloce per gli standard dell’epoca ebbe luogo nelle economie ricche di risorse.
Facciamo adesso la stessa cosa per gli anni 1990-2010:
Alcuni aspetti. Il primo, i tassi di crescita ai livelli più alti sono diventati molto più elevati – presumibilmente perché la frontiera tecnologica è talmente allontanata, che i paesi possono davvero crescere velocemente attraverso il mettersi al passo. La seconda, c’è un vasto differenziale di crescita tra i paesi poveri – ma riflette largamente fattori non economici, principalmente conflitti esterni e civili (in aggiunta, una crescita negativa in gran parte della precedente Unione Sovietica, anch’essa dipendente dal disordine sociale). Alcuni degli alti tassi di crescita riflettono una ripresa dal caos – credo che questo sia il caso del Sudan e della Birmania – ma per la maggior parte non è così; assistiamo, piuttosto, ad uno spettacolare raggiungimento di condizioni tecnologiche superiori. E naturalmente i paesi di quel gruppo realmente grandi (anche il Bangladesh ha avuto prestazioni molto migliori di quello che la gente sembra ritenere) significano che ci stiamo riferendo ad un numero elevatissimo di persone.
Penso che in questo caso accada qualcosa di veramente organico; il lavoro di Summers-Pritchett sulla regressione verso la media è un correttivo utile ad una sovra interpretazione ed estrapolazione, ma è un po’ troppo nichilista per i miei gusti. [3]
Ma perché quel cambiamento nelle regole? Bella domanda. Spero di fare in tempo ad avere una risposta in occasione della mia prima conferenza.
[1] In statistica la regressione lineare rappresenta un metodo di stima del valore atteso condizionato di una variabile dipendente, o endogena, dati i valori di altre variabili indipendenti, o esogene. (Wikipedia)
[2] Un possibile esempio dell’uso del grafico a dispersione è l’analisi dell’andamento delle seguenti due variabili: il debito pubblico e la percentuale di disoccupazione di un paese. Avendo due variabili, è necessario decidere quale rappresentare sull’asse delle ascisse (o x) e quale sull’asse delle ordinate (y). Non vi è una soluzione corretta o sbagliata, solitamente la variabile più importante è sull’asse delle y, quindi se fosse necessario mostrare quanto varia il debito pubblico in relazione alla disoccupazione si porrà quest’ultima sull’asse x, viceversa ponendo la disoccupazione sull’asse y verrà evidenziato come essa varia in relazione al debito pubblico. (Wikipedia)
[3] Un articolo sullo studio di Summers e Pritchett è apparso su Vox l’11 dicembre del 2014, a cura dei due autori. In sostanza, il concetto è semplicemente quello secondo il quale “in ogni processo nel quale ci sono fluttuazioni casuali, ci sarà una tendenza ad incrementi seguiti da decrementi, ed a livelli sopra la media seguiti da declini”. Come è ovvio, il giudizio riguarda in particolare il caso della Cina.
Mi pare che il riferimento di Krugman al “nichilismo” (eccessivo per i suoi gusti) di tale interpretazione, vada inteso nel senso che essa apparirebbe un po’ troppo scontata e pessimistica.
By mm
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