JAN 28, 2015
BERKELEY – To solve a problem, it is not enough to know what to do. You actually have to implement the solution – and be willing to change course if it turns out that you did not know quite as much as you thought. That is the message of two recent books that, together, tell you everything you need to know about the 2008 financial crisis: what caused it, what can be done to prevent it from recurring, and why those things have yet to be done.
The first book is The Shifts and the Shocks, by the conservative British journalist Martin Wolf, who begins by cataloguing the major shifts that set the stage for the economic disaster that continues to shape the world today. His starting point is the huge rise in wealth among the world’s richest 0.1% and 0.01% and the consequent pressure for people, governments, and companies to take on increasingly unsustainable levels of debt.
Meanwhile, policymakers were lulled into complacency by the widespread acceptance of economic theories such as the “efficient-market hypothesis,” which assumes that investors act rationally and use all available information when making their decisions. As a result, markets were deregulated, making it easier to trade assets that were perceived to be safe, but were in fact not. As a result, systemic risk proliferated beyond central bankers’ wildest imagination.
Untested – and ultimately incorrect – assumptions created a policymaking environment defined by what can only be called hubris. Officials underestimated tail risks. They set inflation targets at around 2% – leaving little room for maneuver when the water got choppy. And, most audaciously of all, the European Union introduced the euro as a common currency.
Indeed, wrongheaded policymaking continued long after the crisis began. Politicians responded to worsening economic conditions by hewing as closely as possible to failed prescriptions, making sure to do no more than absolutely necessary to address the biggest economic disaster since the Great Depression.
Wolf’s prescription for countering the crisis is simple, smart, and unassailable. In the short term, he suggests that countries with reserve currencies spend more (especially to finance public-sector investments) and issue more debt. Their central banks, he argues, should raise inflation targets to 3% or even 4% per year.
Over the medium term, according to Wolf, countries need to put in place regulatory measures that lower debt levels and discourage overleveraging. The eurozone, too, must resolve its internal contradictions, either by disbanding or by introducing “a minimum set of institutions and policies” that allow the monetary union to function properly. Wolf’s long-term solutions include tackling inequality, “more global regulation,” a greater degree of “freedom for individual countries to craft their own responses,” and economic analysis that is less in thrall to the free-market ideologues that led us into the crisis in the first place.
And yet, as recommendable as Wolf’s proposals may be, little has been done to implement them. The reasons why are found in the second book: Hall of Mirrors, by my friend, teacher, and patron, Barry Eichengreen.
Eichengreen traces our tepid response to the crisis to the triumph of monetarist economists, the disciples of Milton Friedman, over their Keynesian and Minskyite peers – at least when it comes to interpretations of the causes and consequences of the Great Depression. When the 2008 financial crisis erupted, policymakers tried to apply Friedman’s proposed solutions to the Great Depression. Unfortunately, this turned out to be the wrong thing to do, as the monetarist interpretation of the Great Depression was, to put it bluntly, wrong in significant respects and radically incomplete.
The resulting policies were enough to prevent the post-2008 recession from developing into a full-blown depression; but that partial success turned out to be a Pyrrhic victory, for it allowed politicians to declare that the crisis had been overcome, and that it was time to embrace austerity and focus on structural reform. The result is today’s stagnant economy, marked by anemic growth that threatens to become the new normal. The United States and Europe are on track to have thrown away 10% of their potential wealth, while the failure to strengthen financial-sector regulation has left the world economy exposed to the risk of another major crisis.
Wolf and Eichengreen would agree that the main shortcomings that led to the 2008 financial crisis – and that continue to underpin our inadequate response to it – are intellectual. Indeed, the only true lesson of the crisis so far seems to be that its lessons will never truly be learned.
Cosa è fallito nel 2008?
di J. Bradford DeLong
BERKELEY – Per risolvere un problema non è sufficiente sapere cosa fare. Si deve effettivamente mettere in atto la soluzione – ed avere la disponibilità a cambiare indirizzo se si scopre che non si sapeva esattamente quanto si pensava di sapere. Questo è il messaggio di due libri recenti che, assieme, vi dicono tutto quello che dovete conoscere sulla crisi finanziaria del 2008: cosa la provocò, cosa si può fare per evitare che si ripeta e perchè quelle cose devono ancora essere fatte.
Il primo libro è I cambiamenti e gli shock, del giornalista conservatore inglese Martin Wolf, che comincia col catalogare gli importanti cambiamenti che hanno preparato il campo al disastro economico che continua a condizionare il mondo di oggi. Il suo punto di partenza è la grande crescita della ricchezza tra lo 0,1% e lo 0,01% delle persone più ricche al mondo e la conseguente spinta per gli individui, i governi e le imprese ad assumere livelli di debito sempre più insostenibili.
Nel frattempo, gli uomini di governo venivano indotti ad un falso senso di compiacimento dalla generale accettazione di teorie economiche come l’ “ipotesi del mercato efficiente”, che presuppone che gli investitori agiscano razionalmente ed utilizzino tutte le informazioni disponibili nel prendere le loro decisioni. Il risultato fu che i mercati vennero deregolamentati, rendendo più facile lo scambio di asset che venivano percepiti come sicuri, ma di fatto non lo erano. Il risultato fu che il rischio sistemico proliferò, oltre la peggiore immaginazione dei banchieri centrali.
Assunti non verificati – e in sostanza scorretti – crearono un contesto di operatività politica definibile soltanto come arroganza. I dirigenti sottostimarono i cosiddetti “rischi di coda” [1]. Fissarono obbiettivi di inflazione attorno al 2% – lasciando poco spazio di manovra al momento in cui le acque si fossero mosse. E l’Unione Europea fece la cosa più audace di tutte, introducendo l’euro come moneta comune.
In effetti, un agire politico indirizzato nel senso sbagliato è proseguito a lungo, una volta che la crisi ebbe inizio. Gli uomini politici risposero al peggioramento delle condizioni economiche conformandosi il più strettamente possibile a ricette fallite, rendendo evidente che non avrebbero fatto niente di più di quello che era assolutamente necessario per affrontare il più grande disastro economico dal momento della Grande Depressione.
La ricetta di Wolf per contrastare la crisi è semplice, intelligente e incontrovertibile. In poche parole egli suggerisce che i paesi che dispongono di valute di riserva spendano di più (specialmente per finanziare investimenti nel settore pubblico) ed emettano maggiori obbligazioni sul debito. Le loro banche centrali, sostiene, dovrebbero accrescere gli obbiettivi di inflazione al 3% od anche al 4% all’anno.
Nel medio termine, secondo Wolf, i paesi hanno bisogno di mettere in funzione misure normative che abbattano i livelli del debito e scoraggino la crescita eccessiva dei rapporti di indebitamento. Anche l’eurozona deve risolvere le sue contraddizioni interne, o separandosi o introducendo “un minimo contesto di istituzioni e di politiche” che consenta all’unione monetaria di funzionare correttamente. Le soluzioni di lungo periodo di Wolf riguardano il contrastare l’ineguaglianza, “una regolamentazione più globale”, un maggior grado di “libertà per i paesi singoli nel costruire le proprie risposte”, ed una analisi economica che sia meno alla mercé degli ideologi del libero mercato, che per primi ci hanno condotto nella crisi.
E tuttavia, per quanto le proposte di Wolf siano raccomandabili, è stato fatto poco per metterle in atto. Le ragioni di ciò si trovano nel secondo libro: La sala degli specchi, del mio amico, maestro e protettore Barry Eichengreen.
Eichengreen trova l’origine della nostra tiepida risposta alla crisi nel trionfo degli economisti monetaristi, i discepoli di Milton Friedman, sui loro colleghi keynesiani e seguaci di Minsky – almeno per quello che concerne le interpretazioni delle cause e delle conseguenze della Grande Depressione. Quando scoppiò la crisi finanziaria del 2008, gli operatori politici cercarono di applicare le soluzioni proposte da Friedman alla Grande Depressione. Sfortunatamente, si scoprì che era la soluzione sbagliata, dato che l’interpretazione monetarista della Grande Depressione era, per dirla senza giri di parole, sbagliata per aspetti rilevanti e radicalmente incompleta.
Le politiche che ne sono seguite sono state sufficienti ad impedire che la recessione successiva al 2008 si sviluppasse in una depressione conclamata; ma si constatò che quel parziale successo era una vittoria di Pirro, perché consentiva agli uomini politici di affermare che la crisi era stata superata, e che era tempo di abbracciare l’austerità e di concentrarsi sulle riforme strutturali. Il risultato è la stagnazione economica odierna, segnata da una crescita anemica che minaccia di diventare la nuova norma. Gli Stati Uniti e l’Europa sono sulla strada di uno spreco del 10% della loro ricchezza potenziale, mentre l’incapacità di rafforzare le regole del settore finanziario ha lasciato l’economia mondiale esposta al rischio di un’altra crisi importante.
Wolf ed Eichengreen sarebbero d’accordo nell’affermare che le principali manchevolezze che hanno portato alla crisi finanziaria del 2008 – e che continuano a portare la responsabilità della nostra risposta inadeguata – sono intellettuali. In effetti, sino a questo punto l’unica lezione della crisi sembra essere che le sue lezioni non saranno mai veramente apprese.
[1] Con il termine “ tail risk” ci si riferisce alle estremità delle curve di distribuzione, ossia quei grafici a forma di campana che illustrano le probabilità statistiche di una molteplicità di esiti possibili. Nel caso dell’investimento, la curva a campana (detta anche curva di Gauss) descrive la probabilità di conseguire differenti rendimenti sull’investimento in un dato periodo. In una normale curva a campana, i rendimenti più probabili sono concentrati in una sorta di rigonfiamento vicino al centro, che rappresenta il rendimento atteso medio, mentre i rendimenti meno probabili e più estremi vanno via via assottigliandosi verso le estremità. Le code all’estremità sinistra e all’estremità destra rappresentano gli esiti meno probabili e più estremi: rendimenti minimi a sinistra e massimi a destra. Per gli investitori con un orizzonte di lungo periodo, la strategia di portafoglio ideale cerca di minimizzare il rischio della coda di sinistra senza ridurre il potenziale di crescita della coda di destra. (Pimco)
By mm
E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"