JAN. 1, 2015
In 2014, soaring inequality in advanced nations finally received the attention it deserved, as Thomas Piketty’s “Capital in the Twenty-First Century” became a surprise (and deserving) best seller. The usual suspects are still in well-paid denial, but, to everyone else, it is now obvious that income and wealth are more concentrated at the very top than they have been since the Gilded Age — and the trend shows no sign of letting up.
But that’s a story about developments within nations, and, therefore, incomplete. You really want to supplement Piketty-style analysis with a global view, and when you do, I’d argue, you get a better sense of the good, the bad and the potentially very ugly of the world we live in.
So let me suggest that you look at a remarkable chart of income gains around the world produced by Branko Milanovic of the City University of New York Graduate Center (which I will be joining this summer). What Mr. Milanovic shows is that income growth since the fall of the Berlin Wall has been a “twin peaks” story. Incomes have, of course, soared at the top, as the world’s elite becomes ever richer. But there have also been huge gains for what we might call the global middle — largely consisting of the rising middle classes of China and India.
And let’s be clear: Income growth in emerging nations has produced huge gains in human welfare, lifting hundreds of millions of people out of desperate poverty and giving them a chance for a better life.
Now for the bad news: Between these twin peaks — the ever-richer global elite and the rising Chinese middle class — lies what we might call the valley of despond: Incomes have grown slowly, if at all, for people around the 20th percentile of the world income distribution. Who are these people? Basically, the advanced-country working classes. And although Mr. Milanovic’s data only go up through 2008, we can be sure that this group has done even worse since then, wracked by the effects of high unemployment, stagnating wages, and austerity policies.
Furthermore, the travails of workers in rich countries are, in important ways, the flip side of the gains above and below them. Competition from emerging-economy exports has surely been a factor depressing wages in wealthier nations, although probably not the dominant force. More important, soaring incomes at the top were achieved, in large part, by squeezing those below: by cutting wages, slashing benefits, crushing unions, and diverting a rising share of national resources to financial wheeling and dealing.
Perhaps more important still, the wealthy exert a vastly disproportionate effect on policy. And elite priorities — obsessive concern with budget deficits, with the supposed need to slash social programs — have done a lot to deepen the valley of despond.
So who speaks for those left behind in this twin-peaked world? You might have expected conventional parties of the left to take a populist stance on behalf of their domestic working classes. But mostly what you get instead — from leaders ranging from François Hollande of France to Ed Milliband of Britain to, yes, President Obama — is awkward mumbling. (Mr. Obama has, in fact, done a lot to help working Americans, but he’s remarkably bad at making his own case.)
The problem with these conventional leaders, I’d argue, is that they’re afraid to challenge elite priorities, in particular the obsession with budget deficits, for fear of being considered irresponsible. And that leaves the field open for unconventional leaders — some of them seriously scary — who are willing to address the anger and despair of ordinary citizens.
The Greek leftists who may well come to power there later this month are arguably the least scary of the bunch, although their demands for debt relief and an end to austerity may provoke a tense standoff with Brussels. Elsewhere, however, we see the rise of nationalist, anti-immigrant parties like France’s National Front and the U.K. Independence Party, or UKIP, in Britain — and there are even worse people waiting in the wings.
All of this suggests some uncomfortable historical analogies. Remember, this is the second time we’ve had a global financial crisis followed by a prolonged worldwide slump. Then, as now, any effective response to the crisis was blocked by elite demands for balanced budgets and stable currencies. And the eventual result was to deliver power into the hands of people who were, shall we say, not very nice.
I’m not suggesting that we’re on the verge of fully replaying the 1930s. But I would argue that political and opinion leaders need to face up to the reality that our current global setup isn’t working for everyone. It’s great for the elite and has done a lot of good for emerging nations, but that valley of despond is very real. And bad things will happen if we don’t do something about it.
Il pianeta dei picchi gemelli, di Paul Krugman
New York Times, 1 gennaio 2015
Nel 2014, la crescente ineguaglianza nelle nazioni avanzate ha finalmente ricevuto l’attenzione che meritava, con il “Capitale nel Ventunesimo Secolo” di Thomas Picketty che è diventato, e meritatamente, un sorprendente grande successo. I soliti noti continuano dietro lauti compensi a negarlo, ma per tutti gli altri ora è evidente che il reddito e la ricchezza sono più concentrati ai livelli più alti della scala sociale di quanto non lo siano stati dall’Età dell’Oro – e la tendenza non mostra alcun segno di attenuazione.
Ma questa è una storia relativa agli sviluppi all’interno delle nazioni, di conseguenza è incompleta. Si dovrebbe integrare l’analisi, sulla falsariga di Picketty, con un punto di vista globale, e facendolo, ho l’impressione, si otterrebbe una percezione migliore di ciò che è bene, di ciò che è male e di ciò che è potenzialmente minaccioso nel mondo in cui viviamo.
Consentitemi di suggerire di dare un’occhiata all’importante diagramma sugli incrementi di reddito su scala mondiale prodotto da Branko Milanovic, del Centro per specialisti della City University di New York (con il quale comincerò a collaborare la prossima estate) [1]. Quello che Milanovic mostra è che la crescita del reddito a partire dalla caduta del Muro di Berlino è stata la storia di due ‘picchi gemelli’. Naturalmente, i redditi sono schizzati alle stelle per i più ricchi, e l’élite del mondo è diventata più ricca che mai. Ma ci sono anche stati grandi guadagni per quella che possiamo definire la classe media globale – in gran parte consistente nelle crescenti classi medie della Cina e dell’India.
E, per chiarezza: la crescita del reddito nelle nazioni emergenti ha prodotto grandi miglioramenti nel benessere dell’umanità, portando fuori centinaia di milioni di persone da una povertà disperata e offrendo loro la possibilità di una vita migliore.
Vediamo adesso le cattive notizie: in mezzo tra questi due picchi – l’élite globale sempre più ricca e la crescente classe media cinese – sta quella che potremmo definire la ‘vallata dello scoramento’: i redditi sono cresciuti lentamente, ammesso che lo siano, per le persone attorno al ventesimo percentile [2] della distribuzione mondiale del reddito. Chi sono queste persone? In sostanza, le classi lavoratrici dei paesi avanzati. E, sebbene i dati di Milanovic arrivino soltanto sino al 2008, possiamo esser certi che questo gruppo abbia avuto da allora una prestazione persino peggiore, rovinato dagli effetti dell’alta disoccupazione, dei salari stagnanti e delle politiche di austerità.
Inoltre, il calvario dei lavoratori nei paesi ricchi ha rappresentato, in modi importanti, l’altra faccia della medaglia dei guadagni al di sopra ed al di sotto del loro livello. La competizione delle esportazioni dalle economie emergenti è sicuramente stata un fattore di depressione dei salari nelle nazioni più ricche, sebbene probabilmente non il fattore dominante. In modo più importante, i redditi alle stelle per i più ricchi sono stati ottenuti, in larga parte, comprimendo quelli sottostanti: tagliando i salari, abbattendo i sussidi, distruggendo i sindacati e distraendo una quota crescente delle risorse nazionali in direzione degli intrallazzi finanziari.
In modo forse ancora più importante, i ricchi esercitano un effetto ampiamente sproporzionato sulla politica. E le priorità delle élites – la preoccupazione ossessiva sui deficit di bilancio, con la supposta necessità di abbattere i programmi sociali – hanno contribuito molto a portare in basso la ‘vallata dello scoramento’.
Chi è che parla, dunque, per quelli che sono stati lasciati indietro in questo mondo dei ‘picchi gemelli’? Ci si sarebbe aspettati che i partiti tradizionali della sinistra avessero assunto posizioni populiste [3] nell’interesse delle classi lavoratrici delle loro nazioni. Ma quello che si è avuto nella maggioranza dei casi – da dirigenti che vanno da François Hollande in Francia a Ed Milliband in Inghilterra, sino, anche, al Presidente Obama – è stato un imbarazzato borbottio (Obama, in sostanza, ha fatto molto per aiutare i lavoratori americani, ma è considerevolmente inadeguato nel perorare la sua stessa causa).
Il problema di questi leader tradizionali, direi, è che hanno paura a sfidare le priorità delle élites, in particolare l’ossessione sui deficit di bilancio, nel timore di essere considerati irresponsabili. E questo lascia il campo aperto a leader non convenzionali – alcuni dei quali davvero preoccupanti – che sono disponibili a rivolgersi alla rabbia ed alla disperazione dei cittadini comuni.
La sinistra greca, che ha buone probabilità di andare al potere non più tardi di questo mese, è probabilmente la meno inquietante del gruppo, sebbene la sua richiesta di uno sgravio del debito e di por fine all’austerità può provocare una tesa situazione di stallo con Bruxelles. Tuttavia, osserviamo dappertutto la crescita di partiti nazionalisti, ostili agli immigrati, come il Fronte Nazionale in Francia ed il Partito Indipendente del Regno Unito, o UKIP, in Inghilterra – e ci sono persino soggetti peggiori in attesa, nelle posizioni più estreme.
Tutto questo richiama alla mente alcune sconfortanti analogie storiche. Si ricordi, questa è la seconda volta che abbiamo avuto una crisi finanziaria globale seguita da una prolungata recessione su scala mondiale. Allora come oggi, ogni efficace risposta alla crisi fu impedita dalle richieste delle classi dirigenti di bilanci in equilibrio e di valute stabili. E il risultato finale fu consegnare il potere nelle mani di individui che furono, diciamo così, abbastanza spiacevoli.
Non sto suggerendo che siamo alla vigilia di una completa riedizione degli anni ’30. Ma direi che i dirigenti politici più accreditati hanno bisogno di guardare in faccia la realtà: la nostra attuale condizione globale non sta producendo risultati per tutti. E’ formidabile per le élite ed ha fatto un gran bene alle nazioni emergenti, ma la ‘valle dello scoramento’ è assolutamente nei fatti. E accadranno cose negative se si continua a non far niente.
[1] Il diagramma è il seguente (è oggetto del primo post dell’anno sul blog di Krugman):
Esso mostra la crescita del reddito reale ai vari percentili della distribuzione globale del reddito nel periodo 1988 – 2008, espressa in dollari “a parità dei poteri di acquisto” (PPP) relativi all’anno 2005. Se ben capisco, sulla linea verticale si mostra la crescita del reddito (dunque, non un valore assoluto ma il valore relativo che esprime l’entità della variazione); mentre quella orizzontale fa comprendere come il fenomeno della crescita si è distribuito per i vari “percentili” della popolazione mondiale. In altre parole: l’ultimo picco (quello tra il 99° ed il 100° percentile) indica l’enorme incremento che si è determinato per i più ricchi al mondo, espresso con un aumento verticale; il picco in prossimità del 60° percentile mostra il forte incremento che si è determinato per la popolazione mondiale con redditi intermedi, che corrisponde grosso modo alle condizioni di reddito della ‘classe media cinese’; mentre l’andamento in forte calo (attenuazione della crescita) riguarda la classe di reddito tra il 60° e l’80° percentile, sul quale si colloca normalmente la ‘classe medio bassa americana’.
[2] Traduco alla lettera, anche se mi pare che ci sia un errore nel testo. L’andamento negativo non riguarda il 20° percentile, riguarda invece i 20 percentili che si collocano tra il 60° e l’80°; è lì che avviene il grande rallentamento della crescita, o anche l’impoverimento, delle classi medie e dei lavoratori dei paesi avanzati. Se, infatti, la “X” più bassa indica il livello di reddito di quelle classi negli Stati Uniti, è chiaro, credo, che attorno al 20° percentile si collocano soprattutto i lavoratori dei paesi emergenti (che hanno una crescita di redditi, pur molto inferiore alle ‘classi medie’ dei paesi emergenti, che si collocano attorno al 60° percentile). Almeno, mi pare.
[3] Come ho notato in altre occasioni, si deve considerare che il termine ‘populista’ non ha necessariamente, nel linguaggio politico americano, quel connotato negativo che ha in italiano. Diciamo che di solito è ‘populista’ quello che è semplicemente nell’interesse del popolo, anche se parlare un linguaggio ‘popolare’ in politica non è molto frequente.
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By mm
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