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La politica della stupidità economica di Joseph E. Stiglitz (da Project Syndicate, 20 gennaio 2015)

 

JAN 20, 2015

Joseph E. Stiglitz

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The Politics of Economic Stupidity

NEW YORK – In 2014, the world economy remained stuck in the same rut that it has been in since emerging from the 2008 global financial crisis. Despite seemingly strong government action in Europe and the United States, both economies suffered deep and prolonged downturns. The gap between where they are and where they most likely would have been had the crisis not erupted is huge. In Europe, it increased over the course of the year.

Developing countries fared better, but even there the news was grim. The most successful of these economies, having based their growth on exports, continued to expand in the wake of the financial crisis, even as their export markets struggled. But their performance, too, began to diminish significantly in 2014.

In 1992, Bill Clinton based his successful campaign for the US presidency on a simple slogan: “It’s the economy, stupid.” From today’s perspective, things then do not seem so bad; the typical American household’s income is now lower. But we can take inspiration from Clinton’s effort. The malaise afflicting today’s global economy might be best reflected in two simple slogans: “It’s the politics, stupid” and “Demand, demand, demand.”

The near-global stagnation witnessed in 2014 is man-made. It is the result of politics and policies in several major economies – politics and policies that choked off demand. In the absence of demand, investment and jobs will fail to materialize. It is that simple.

Nowhere is this clearer than in the eurozone, which has officially adopted a policy of austerity – cuts in government spending that augment weaknesses in private spending. The eurozone’s structure is partly to blame for impeding adjustment to the shock generated by the crisis; in the absence of a banking union, it was no surprise that money fled the hardest-hit countries, weakening their financial systems and constraining lending and investment.

In Japan, one of the three “arrows” of Prime Minister Shinzo Abe’s program for economic revival was launched in the wrong direction. The fall in GDP that followed the increase in the consumption tax in April provided further evidence in support of Keynesian economics – as if there was not enough already.

The US introduced the smallest dose of austerity, and it has enjoyed the best economic performance. But even in the US, there are roughly 650,000 fewer public-sector employees than there were before the crisis; normally, we would have expected some two million more. As a result, the US, too, is suffering, with growth so anemic that wages remain basically stagnant.

Much of the growth deceleration in emerging and developing countries reflects China’s slowdown. China is now the world’s largest economy (in terms of purchasing power parity), and it has long been the main contributor to global growth. But China’s remarkable success has bred its own problems, which should be addressed sooner rather than later.

The Chinese economy’s shift from quantity to quality is welcome – almost necessary. And, though President Xi Jinping’s fight against corruption may cause economic growth to slow further, as paralysis grips public contracting, there is no reason for Xi to let up. On the contrary, other forces undermining trust in his government – widespread environmental problems, high and rising levels of inequality, and private-sector fraud – need to be addressed with equal vigor.

In short, the world should not expect China to shore up global aggregate demand in 2015. If anything, there will be an even bigger hole to fill.

Meanwhile, in Russia, we can expect Western sanctions to slow growth, with adverse effects on an already weakened Europe. (This is not an argument against sanctions: The world had to respond to Russia’s invasion of Ukraine, and Western CEOs who argue otherwise, seeking to protect their investments, have demonstrated a disturbing lack of principle.)

For the past six years, the West has believed that monetary policy can save the day. The crisis led to huge budget deficits and rising debt, and the need for deleveraging, the thinking goes, means that fiscal policy must be shunted aside.

The problem is that low interest rates will not motivate firms to invest if there is no demand for their products. Nor will low rates inspire individuals to borrow to consume if they are anxious about their future (which they should be). What monetary policy can do is create asset-price bubbles. It might even prop up the price of government bonds in Europe, thereby forestalling a sovereign-debt crisis. But it is important to be clear: the likelihood that loose monetary policies will restore global prosperity is nil.

This brings us back to politics and policies. Demand is what the world needs most. The private sector – even with the generous support of monetary authorities – will not supply it. But fiscal policy can. We have an ample choice of public investments that would yield high returns – far higher than the real cost of capital – and that would strengthen the balance sheets of the countries undertaking them.

The big problem facing the world in 2015 is not economic. We know how to escape our current malaise. The problem is our stupid politics.

 

 

 

 

 

 

 

La politica della stupidità economica

di Joseph E. Stiglitz

NEW YORK – Nel 2014 l’economia mondiale è rimasta impantanata nello stesso solco nel quale si trova a partire dal manifestarsi della crisi economica globale nel 2008. Nonostante iniziative di governo apparentemente forti in Europa e negli Stati Uniti, entrambe le economie hanno sofferto di una congiuntura negativa profonda e prolungata. La differenza tra dove si trovano quelle economie e dove si dovrebbero trovare se la crisi non fosse esplosa, è grande. In Europa, è cresciuta nel corso dell’anno.

I paesi in via di sviluppo si sono comportati meglio, ma anche là le notizie sono state fosche. Quelle tra tali economie che hanno maggiore successo, avendo basato la loro crescita sulle esportazioni, hanno continuato ad espandersi in seguito alla crisi finanziaria, anche se i loro mercati delle esportazioni hanno avuto difficoltà. Ma anche le loro prestazioni, a partire dal 2014, hanno cominciato a diminuire significativamente.

Nel 1992, Bill Clinton basò la sua vittoriosa campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti su un semplice slogan: “E’ l’economia, stupido!” Dalla prospettiva odierna, le cose di allora non sembrano così negative: il reddito della comune famiglia americana oggi è più basso. Ma possiamo prendere ispirazione dallo sforzo di Clinton. Il malessere che affligge l’economia globale odierna potrebbe essere rappresentato nel migliore dei modi con due semplici slogan: “è la politica, stupido!”, ed anche “Domanda, domanda, domanda.”

La stagnazione quasi globale a cui si è assistito nel 2014 è stata provocata dall’uomo. Essa è il risultato di una politica e di programmi in varie importanti economie – politica e programmi che hanno soffocato la domanda. In assenza di domanda, gli investimenti e i posti di lavoro non potranno materializzarsi. Si tratta semplicemente di questo.

In nessun luogo è altrettanto chiaro che nell’eurozona, che ha adottato ufficialmente una politica di austerità – tagli nella spesa pubblica che aumentano la debolezza della spesa privata. In parte la colpa dell’aver ostacolato le correzioni al trauma provocato dalla crisi va attribuita alla struttura dell’eurozona; in assenza di una unione bancaria, non è stata una sorpresa se i capitali siano fuggiti dai paesi più duramente colpiti, indebolendo i loro sistemi finanziari e limitando i prestiti e gli investimenti.

In Giappone, una delle tre “frecce” del programma del Primo Ministro Shinzo Abe per un risveglio economico è stata lanciata nella direzione sbagliata. La caduta del PIL che ha fatto seguito, in aprile, all’aumento della tassa sui consumi, ha fornito una ulteriore conferma a sostegno dell’economia keynesiana – se non ce ne fosse già state a sufficienza.

Gli Stati Uniti hanno utilizzato una dose di austerità minore, e di essa si è giovato un andamento dell’economia migliore. Ma anche negli Stati Uniti ci sono 650.000 impiegati nel settore pubblico in meno di quelli che c’erano prima della crisi; in condizioni normali, ce ne saremmo aspettati due milioni in più. Di conseguenza, anche gli Stati Uniti stanno soffrendo, con una crescita così anemica che i salari restano fondamentalmente stagnanti.

Gran parte della decelerazione della crescita nei paesi emergenti e in via di sviluppo riflette il rallentamento della Cina. Oggi la Cina è l’economia mondiale più ampia (in termini di parità di potere di acquisto), ed è stata da tempo il principale contributo alla crescita globale. Ma il considerevole successo della Cina ha fatto emergere i suoi propri problemi, che dovrebbero essere affrontati senza indugi.

Lo spostamento dell’economia cinese dalla quantità alla qualità è benvenuto, se non necessario. E, sebbene la lotta del Presidente Xi Jinping contro la corruzione può provocare un ulteriore rallentamento della crescita, dal momento che la paralisi colpisce i contratti pubblici, non c’è ragione per Xi di lasciar andare. Al contrario, i fattori che minano la fiducia nel suo Governo – generalizzati problemi ambientali, livelli di ineguaglianza elevati e crescenti, frodi nel settore privato – necessitano di essere affrontati con eguale vigore.

In breve, il mondo non dovrebbe aspettarsi che la Cina nel 2015 sostenga la domanda globale aggregata. Semmai, ci sarà un buco da riempire persino più grande.

Nel frattempo, in Russia, ci possiamo aspettare che le sanzioni occidentali rallentino la crescita, con effetti negativi su una Europa già indebolita (questo non è un argomento contro le sanzioni: il mondo deve rispondere all’invasione dell’Ucraina, e gli imprenditori occidentali di diverso avviso, che cercano di proteggere i loro investimenti, hanno dimostrato una inquietante mancanza di principi).

Nei sei anni passati, l’Occidente ha creduto che la politica monetaria potesse toglierlo dai guai. La crisi ha portato ad ampi deficit di bilancio e a un debito crescente, e il bisogno di una riduzione del rapporto di indebitamento, così si pensa, comporta che la politica della spesa pubblica deve essere messa da parte.

Il problema è che i bassi tassi di interesse non motiveranno gli investimenti delle imprese se non c’è domanda per i loro prodotti. Né i bassi tassi saranno una motivazione per indurre le persone a indebitarsi per i consumi, se restano ansiose per il loro futuro (come pur dovrebbero essere). Quello che la politica monetaria può fare è creare bolle dei prezzi degli asset. Essa potrebbe anche sostenere i prezzi delle obbligazioni degli Stati in Europa, impedendo di conseguenza una crisi dei debiti sovrani. Ma è importante esser chiari: la probabilità che l’allentamento delle politiche monetarie ripristini la prosperità globale è nulla.

E questo ci riporta alla politica ed ai programmi. La domanda è ciò di cui il mondo ha maggiore bisogno. Il settore privato – anche con il generoso sostegno delle autorità monetarie – non la soddisferà. Ma può soddisfarla la politica della finanza pubblica. Abbiamo un’ampia scelta di investimenti pubblici che produrrebbero elevati rendimenti – assai superiori al costo reale del capitale – e che rafforzerebbero gli equilibri patrimoniali dei paesi che li facessero propri.

Il grande problema dinanzi al quale si trova il mondo nel 2015 non è economico. Noi sappiano come venire fuori dal nostro malessere. Il problema è la stupidità della nostra politica.

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