January 21, 2015
By Francesco Saraceno
Tomorrow’s ECB decision on Quantitative Easing is awaited like a messiah (it would be interesting to see what happens if the ECB does not announce QE). We’ll see the shape this takes, but I already argued some time ago that excessive expectations on ECB action stem from the suicidal neglect of fiscal policy, the instrument of choice at times of liquidity traps. Mario Draghi and the ECB Governing Council are given an excessive burden by the inertia of governments trapped in ideology and/or in a crazy fiscal rule.
There will be time to assess the shape and the impact of tomorrow’s decisions. Here I want to focus on one aspect of all this that is not sufficiently emphasized. Even the bolder and more effective Quantitative Easing program would come unacceptably late. The ECB should have stepped in to sustain economic activity much earlier, at least in 2012, when its counterparts launched their own programs; or possibly earlier, given the Eurozone specific sovereign debt crisis. But it did not, mostly because it was politically impossible to take such a decision without the threat of deflation looming on the eurozone.
And I get to my point. I just saw a paper by Philippe Martin and Thomas Philippon (here a VoxEU column presenting its main results) that tries to disentangle the impact of different shocks on the crisis, and runs a number of counterfactual experiments. Its conclusion are interesting and commonsensical. The first is that except for Greece, more prudent fiscal policies in the early 2000s would not have been effective in preventing or softening the private deleveraging shock that happened from 2008. Only if more prudent fiscal policies had been coupled with macroprudential policies (i.e., curbing private leverage in the first place), there would have been an impact on the crisis. The counterfactual I found more interesting is the one on the “Whatever it Takes” OMTs program. The authors ask whether the OMT, if implemented in 2008 and not in late 2012, would have made a difference, and the answer is a clear yes. If through ECB insurance spreads had been kept low, peripheral countries would have had the fiscal space to counter the crisis, and unemployment would have been reabsorbed. Interestingly, the authors neglect the impact of the 3% limit on public deficits. Of course, had they introduced a fiscal rule limiting fiscal space, the impact of OMT would have been less glorious.
The way I see it (I am not sure the authors would have the same interpretation), Martin and Philippon show that the roots of EMU problems are institutional. If we had a normal central bank, capable of acting as a Lender of Last Resort, and of insuring the euro denominated debt; if we had normal governments, capable of using fiscal policy as a countercyclical tool, then… well, then we would be the US! The crisis would have hit hard because excessive leverage did not depend on macroeconomic governance, but policy could have been reactive and coordinated, thus leading to a recovery like the one we saw in the US (while I hear those who complain about policy and about the state of the economy in the US, it is undeniable that their economic performance is orders of magnitude better than our own!). Of course, the US also have a system of fiscal transfers that we can only dream of…
So our problem is that we don’t have normal institutions for macroeconomic governance. Macroeconomic policy in the EMU is the result of political skirmishes, and rests more on the diplomatic capacities of Mario Draghi Angela Merkerl, or Alexis Tsipras, than on a clear assessment of problems and solutions. Furthermore, this (mal)functioning yields last-minute decisions, only if under threat (OMT because of speculation on periphery’s debt; QE because of deflation).
We are in the eight year of the crisis, and the trending topics among European elites are QE, and the Juncker plan. The former will likely be a byzantine compromise between Mario Draghi and the German government (as a side note: what about central bank independence, Mrs Merkel? Wasn’t that one of the things that you kept in such high consideration that you did not want it endangered by debt monetization?); the Juncker plan is simply an empty box. And they both come into the picture way too late, as the need for expansionary fiscal and monetary policies was clear at least since 2010.
The new European motto should be too little too late.
Sono le istituzioni, stupido! [1]
di Francesco Saraceno
Le decisioni di domani della BCE sulla ‘facilitazione quantitativa’ sono attese come un Messia (sarebbe interessante vedere quello che accade se la BCE non annunciasse la QE). Vedremo che forma tutto questo assume, ma io ho già sostenuto alcuni mesi fa che le aspettative eccessive sull’iniziativa della BCE derivano dall’abbandono suicida della politica della finanza pubblica, lo strumento da scegliere in tempi di trappole di liquidità. Mario Draghi e il Consiglio Direttivo della BCE sono gravati dal peso eccessivo dell’inerzia di Governi intrappolati in una ideologia e/o in una regola di finanza pazzesca.
Ci sarà tempo per valutare i contorni e l’impatto delle scelte di domani. Voglio qua concentrarmi su un aspetto di tutto questo sul quale non si mette sufficientemente l’accento. Persino il più coraggioso ed efficace programma di Facilitazione Quantitativa arriverebbe inaccettabilmente tardi. La BCE dovrebbe essersi mossa a sostegno della attività economica molto prima, almeno nel 2012, quando i suoi omologhi lanciavano i propri programmi, o magari in precedenza, considerata la crisi particolare dei debiti sovrani europea. Ma non è accaduto, in gran parte perché era politicamente impossibile prendere una tale decisione senza che la minaccia della deflazione incombesse sull’eurozona.
E vengo al mio punto. Ho appena visto un saggio di Philippe Martin e Thomas Philippon (in questa connessione un articolo su VoxEU che presenta i risultati principali) che cerca di districare l’impatto delle diverse onde d’urto sulla crisi e compie un certo numero di esperimenti ipotetici alternativi. Le sue conclusioni sono interessanti e di buon senso. La prima è che più prudenti politiche della finanza pubblica nei primi anni 2000 non sarebbero state efficaci nell’impedire o nell’attenuare lo shock della riduzione dell’indebitamento privato che avvenne dal 2008. Soltanto se più prudenti politiche della finanza pubblica fossero state accoppiate con politiche di vigilanza macroeconomica (ad esempio, anzitutto tenere a freno l’indebitamento privato), ci sarebbe stato un impatto sulla crisi. L’ipotesi alternativa che ho trovato più interessante è quella relativa al programma OMT [2], che ha preso il nome “Qualsiasi cosa necessaria”. Gli autori si chiedono se ci sarebbe stata una differenza nell’ipotesi che le OMT fossero state messo in atto nel 2008, anziché sulla fine del 2012, e la risposta è chiaramente positiva. Se attraverso l’assicurazione della BCE i differenziali nei tassi di interesse fossero stati tenuti bassi, i paesi periferici avrebbero avuto gli spazi di finanza pubblica per affrontare la crisi, e la disoccupazione sarebbe stata riassorbita. In modo interessante, gli autori trascurano l’impatto del limite del 3 per cento sui deficit pubblici. Naturalmente, avendo essi introdotto una regola di limitazione della libertà della finanza pubblica, l’impatto delle OMT sarebbe stato meno glorioso.
Secondo il mio punto di vista (non sono sicuro che gli autori darebbero la mia stessa interpretazione), Martin e Philippon dimostrano che le radici dei problemi dell’Unione Economica e Monetaria sono istituzionali. Se avessimo avuto una Banca centrale, capace di agire come prestatore di ultima istanza, e di assicurare il debito espresso in euro; se avessimo avuto normali governi, capaci di utilizzare la politica della finanza pubblica come uno strumento controciclico, allora …. beh, allora saremmo stati gli Stati Uniti! La crisi avrebbe picchiato duramente giacché l’eccessivo rapporto di indebitamento non dipende dal governo della macroeconomia, ma la politica sarebbe stata reattiva e coordinata, portando di conseguenza ad una ripresa come quella che abbiamo visto negli Stati Uniti (seppure ascolto coloro che si lamentano della politica e della condizione dell’economia negli Stati Uniti, è innegabile che la loro prestazione economica sia di vari ordini di grandezza superiore alla nostra!). Naturalmente, gli Stati Uniti hanno un sistema di trasferimenti della finanza pubblica che noi ci sognamo ….
Dunque, il nostro problema è che non abbiamo normali istituzioni per il governo della macroeconomia. La politica macroeconomica nell’Unione Economica e Monetaria è il risultato di schermaglie politiche, e si basa più sulle capacità diplomatiche di Mario Draghi, Angela Merkel o Alexis Tsipras, che su un chiaro inquadramento dei problemi e delle soluzioni. Inoltre, questo (mal)funzionamento produce decisioni all’ultimo minuto, solo sotto minaccia (le OMT a causa della speculazione sul debito della periferia; la QE a causa della deflazione).
Siamo all’ottavo anno della crisi, ed i temi alla moda tra le classi dirigenti europee sono la QE e il piano Juncker. La prima probabilmente si risolverà in un compromesso bizantino tra Mario Draghi e il Governo tedesco (nota a margine: cosa ci dice, signora Merkel, dell’indipendenza della Banca Centrale? Non era una di quelle cose che teneva in così alta considerazione da non volerla mettere in pericolo con una monetizzazione del debito?); il piano Junker è soltanto una scatola vuota. Ed entrambi entrano nel quadro in modo troppo tardivo, dato che il bisogno di politiche della finanza pubblica e monetarie espansive era chiaro almeno dal 2010.
Il nuovo motto europeo dovrebbe essere: troppo piccolo e troppo tardi.
[1] Per il termine “controciclico” e per la traduzione del termine “counterfactual” vedi la nota 1 all’articolo del 23 gennaio 2015 di Wren-Lewis dal titolo “Racconti alternativi dell’eurozona”.
[2] Operazioni Monetarie Definitive, ovvero la politica di intervento monetario annunciata da Mario Draghi nel famoso discorso di Londra del 26 luglio 2012.
By mm
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