FEB. 23, 2015
Regular readers know that I sometimes mock “very serious people” — politicians and pundits who solemnly repeat conventional wisdom that sounds tough-minded and realistic. The trouble is that sounding serious and being serious are by no means the same thing, and some of those seemingly tough-minded positions are actually ways to dodge the truly hard issues.
The prime example of recent years was, of course, Bowles-Simpsonism — the diversion of elite discourse away from the ongoing tragedy of high unemployment and into the supposedly crucial issue of how, exactly, we will pay for social insurance programs a couple of decades from now. That particular obsession, I’m happy to say, seems to be on the wane. But my sense is that there’s a new form of issue-dodging packaged as seriousness on the rise. This time, the evasion involves trying to divert our national discourse about inequality into a discussion of alleged problems with education.
And the reason this is an evasion is that whatever serious people may want to believe, soaring inequality isn’t about education; it’s about power.
Just to be clear: I’m in favor of better education. Education is a friend of mine. And it should be available and affordable for all. But what I keep seeing is people insisting that educational failings are at the root of still-weak job creation, stagnating wages and rising inequality. This sounds serious and thoughtful. But it’s actually a view very much at odds with the evidence, not to mention a way to hide from the real, unavoidably partisan debate.
The education-centric story of our problems runs like this: We live in a period of unprecedented technological change, and too many American workers lack the skills to cope with that change. This “skills gap” is holding back growth, because businesses can’t find the workers they need. It also feeds inequality, as wages soar for workers with the right skills but stagnate or decline for the less educated. So what we need is more and better education.
My guess is that this sounds familiar — it’s what you hear from the talking heads on Sunday morning TV, in opinion articles from business leaders like Jamie Dimon of JPMorgan Chase, in “framing papers” from the Brookings Institution’s centrist Hamilton Project. It’s repeated so widely that many people probably assume it’s unquestionably true. But it isn’t.
For one thing, is the pace of technological change really that fast? “We wanted flying cars, instead we got 140 characters,” the venture capitalist Peter Thiel has snarked. Productivity growth, which surged briefly after 1995, seems to have slowed sharply.
Furthermore, there’s no evidence that a skills gap is holding back employment. After all, if businesses were desperate for workers with certain skills, they would presumably be offering premium wages to attract such workers. So where are these fortunate professions? You can find some examples here and there. Interestingly, some of the biggest recent wage gains are for skilled manual labor — sewing machine operators, boilermakers — as some manufacturing production moves back to America. But the notion that highly skilled workers are generally in demand is just false.
Finally, while the education/inequality story may once have seemed plausible, it hasn’t tracked reality for a long time. “The wages of the highest-skilled and highest-paid individuals have continued to increase steadily,” the Hamilton Project says. Actually, the inflation-adjusted earnings of highly educated Americans have gone nowhere since the late 1990s.
So what is really going on? Corporate profits have soared as a share of national income, but there is no sign of a rise in the rate of return on investment. How is that possible? Well, it’s what you would expect if rising profits reflect monopoly power rather than returns to capital.
As for wages and salaries, never mind college degrees — all the big gains are going to a tiny group of individuals holding strategic positions in corporate suites or astride the crossroads of finance. Rising inequality isn’t about who has the knowledge; it’s about who has the power.
Now, there’s a lot we could do to redress this inequality of power. We could levy higher taxes on corporations and the wealthy, and invest the proceeds in programs that help working families. We could raise the minimum wage and make it easier for workers to organize. It’s not hard to imagine a truly serious effort to make America less unequal.
But given the determination of one major party to move policy in exactly the opposite direction, advocating such an effort makes you sound partisan. Hence the desire to see the whole thing as an education problem instead. But we should recognize that popular evasion for what it is: a deeply unserious fantasy.
La conoscenza è una cosa diversa dal potere, di Paul Krugman
New York Times 23 febbraio 2015
I lettori abituali sanno che qualche volta io prendo in giro le “persone molto serie” – uomini politici e commentatori che ripetono in modo solenne i luoghi comuni di una saggezza che allude ad un modo di ragionare con i piedi per terra e realistico. Il guaio è che sembrare seri ed esserlo non sono affatto la stessa cosa, ed alcune delle posizioni che sembrano con i piedi per terra sono in effetti modi per eludere i temi veramente difficili.
Il primo esempio negli anni recenti, naturalmente, è stato il “Bowles-Simpsonismo” [1] – il depistaggio del dibattito delle classi dirigenti, dalla perdurante tragedia dell’elevata disoccupazione al supposto tema fondamentale di come, nel dettaglio, finanzieremo i programmi della sicurezza sociale tra una ventina d’anni. Questa particolare ossessione, sono felice di constatare, sembra essere in declino. Ma la mia sensazione è che ci sia una nuova forma che si fa avanti, di tematiche elusive impacchettate come una cosa seria. Questa volta, la via di fuga riguarda il tentativo di spostare il nostro dibattito nazionale dal tema dell’ineguaglianza ad una discussione sui presunti problemi dell’istruzione.
E la ragione per la quale si tratta di un depistaggio è che qualsiasi cosa le persone serie possano voler credere, la crescente ineguaglianza non ha a che fare con l’istruzione; riguarda il potere.
Per chiarezza: io sono a favore di una istruzione migliore. L’istruzione è una delle cose che prediligo. E dovrebbe essere disponibile e sostenibile da parte di tutti. Ma quello che continuo a vedere sono persone che insistono che gli insuccessi educativi sono alla radice di una ancora debole creazione di posti di lavoro, di salari stagnanti e di crescente ineguaglianza. Sembra una opinione seria e riflettuta. Ma in verità è del tutto agli antipodi di ogni prova, per non dire che è un modo per nascondere un vero ed inevitabile confronto su interessi opposti.
Il racconto dei nostri problemi centrato sull’istruzione opera nel modo seguente: viviamo in un periodo di mutamenti tecnologici senza precedenti, e troppi lavoratori americani mancano della professionalità per fare i conti con questi cambiamenti. Questo “difetto di competenze” sta trattenendo la crescita, perché le imprese non possono trovare i lavoratori di cui hanno bisogno. Esso alimenta anche l’ineguaglianza, dal momento che i salari salgono per i lavoratori che hanno le competenze giuste, mentre ristagnano o diminuiscono per i meno istruiti. Dunque quello di cui abbia bisogno è una istruzione maggiore e migliore.
Mi immagino che questo vi suoni familiare – è quello che si sente dai conduttori dei programmi televisivi della domenica mattina, negli interventi di dirigenti di impresa come Jamie Dimon della JPMorgan Chase, negli “articoli di inquadramento” che provengono dal ‘Progetto Hamilton’, una attività a vocazione centrista della Brookings Institution. Viene ripetuto così ampiamente, che molte persone probabilmente la considerano una verità indiscutibile. Ma non è così.
Anzitutto, il ritmo del cambiamento tecnologico è davvero così veloce? “Volevamo le macchine volanti e invece abbiamo i 140 caratteri [2]”, ha detto con sarcasmo un capitalista che opera in investimenti rischiosi come Peter Thiel. La crescita della produttività, che crebbe per un breve periodo dopo il 1995, ha rallentato bruscamente.
Inoltre, non c’è alcuna prova che un difetto di professionalità stia trattenendo l’occupazione. Dopo tutto, se gli impresari avessero un bisogno disperato di lavoratori con determinate competenze, probabilmente starebbero offrendo salari straordinari per attrarre lavoratori con quelle caratteristiche. Quali sono, dunque, queste fortunate professioni? Se ne possono trovare qua e là alcuni esempi. E’ interessante che alcuni dei maggiori recenti incrementi salariali abbiano riguardato il lavoro manuale specializzato – operatori per macchine da cucire, idraulici – così come produzioni manifatturiere che ritornano in America. Ma l’idea che ci sia una domanda generalizzata di lavoratori altamente specializzati è semplicemente falsa.
Infine, se la storia della istruzione e dell’ineguaglianza può essere stata una volta plausibile, è da molto tempo che essa non sta al passo con la realtà. “I salari degli individui con maggiori competenze e meglio pagati continuano a crescere regolarmente”, dice il Progetto Hamilton. Per la verità, i compensi corretti per l’inflazione degli americani con più alta istruzione sono fermi a partire dagli ultimi anni ’90 [3].
Dunque, cosa sta accadendo realmente? I profitti di impresa sono schizzati alle stelle come quota del reddito nazionale, ma non c’è alcun segno di una crescita della percentuale di guadagno sugli investimenti. Come è possibile? Ebbene, è quello che accade quando i profitti crescenti riflettono il potere dei monopoli piuttosto che i rendimenti del capitale.
Nel caso di stipendi e salari, le lauree delle università non hanno importanza – tutti i grandi guadagni stanno andando ad un gruppo minuscolo di individui che mantengono posizioni strategiche negli ambienti societari o stanno a cavalcioni negli snodi della finanza. L’ineguaglianza crescente non riguarda chi ha le conoscenze; riguarda che ha il potere.
Ora, molto potrebbe essere fatto per correggere questa ineguaglianza nel potere. Potremmo imporre tasse più elevate sulle grandi società e sui ricchi ed investire il ricavato in programmi che aiutino le famiglie dei lavoratori. Potremmo elevare i salari minimi e rendere più agevole l’organizzazione dei lavoratori. Non è difficile immaginare uno sforzo realmente serio per rendere l’America meno ineguale.
Ma data la determinazione di un importante partito a spingere la politica esattamente nella direzione opposta, sostenere tale sforzo vi fa apparire partigiani. Da qua, piuttosto, il desiderio di considerare tale intera questione come un problema di istruzione. Eppure dovremmo riconoscere per quello che è tale diffuso depistaggio: una fantasia profondamente inaffidabile.
[1] Dai cognomi dei due copresidenti di una commissione bipartisan di ‘saggi’ sul deficit pubblico, che venne voluta in particolare dal Presidente Obama (Erskine Bowles per il Partito Democratico e Alan Simpson per il Partito Repubblicano). La commissione concluse con suggerimenti a favore di una politica di austerità, in particolare in materia previdenziale.
[2] Il limite del numero delle parole tweets, nelle regole di Twitter.
[3] In un post preparatorio di questo articolo, Krugman pubblica il seguente diagramma che mostra gli andamenti dei compensi di lavoratori forniti di laurea (si consideri che si tratta spesso di lauree ‘brevi’, e che comunque lavoratori con tali curriculum sono abbastanza frequenti in aziende di alta teclologia). Come si vede il picco c’è stato nel corso degli anni ’90, ma alla fine del periodo si era interrotto ed era iniziato un declino.
By mm
E' possibile commentare l'articolo nell'area "Commenti del Mese"